La colonia italiana in Abissinia/X
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X.
Caccia al cinghiale — Cena sontuosa — I Démbelas — Nidi di uccelli — Una festa da ballo — Tristi pensieri — L’acqua Osch — Oasi deliziosa — Ispezione dei luoghi.
Sostammo nel poggio e mandammo tosto alcuni indigeni per acqua, allo scopo di cuocerci del pane di dura, grano di cui portavamo con noi alcune sporte gigantesche.
Ad un tratto ricomparve frettoloso un di coloro prendendo due fucili e Sparve con essi. Poco dopo ne Udimmo le detonazioni, e mentre ci incamminavamo per la curiosità di conoscerne la causa, rilevammo da un altro indigeno ch’era già stato ucciso un cinghiale e che tra poco ne avremmo assaporato le carni.
Infatti il cinghiale comparve trascinato da due di coloro, e fu una vera manna per la nostra cucina. Ne arrostimmo vari pezzi, e con altri, posti a bollire nell’acqua, Glaudios ci apprestò una eccellente zuppa. Alla fine del lauto desinare prendemmo il the, quindi ognuno, accosciato sulla propria coperta, si diede a rappezzare i panni ch’erano in qualche disordine. I miei pantaloni in particolare trovavansi in uno stato deplorevolissimo. Mentre ognuno era intento ai fatti suoi, gl’indigeni che stavano alle vedette si allarmarono; presero le loro lancie e, dopo aver parlato al signor Stella, ci lasciarono.
Questi ci comunicò la cosa, e ci ordinò di tenerci pronti, imperciocchè dalle vicine alture eravamo stati spiati, e certamente eravamo in procinto di venire assaliti. Dietro agli indigeni, il signor Stella spedì alcuni servi ad esplorare e a riferire.
Dal canto nostro eravamo già pronti; solo il piemontese Colombo, rosicchiando ancora qualche osso del cinghiale, andava brontolando e masticando tra i denti il proverbiale countac! Vengano, vengano, esclamava, e daremo loro ad assaggiare le nostre palle di piombo. Countac, che schiammazzo!
Ed invero il tramestìo facevasi distinto, la lotta pareva impegnata; ma il signor Stella non ci aveva ancora ordinato di avanzare. Io, rivolto a Colombo, che sbuffava per la smania di battersi, gli dissi ridendo: calmati, calmati, bugia nen; eccoli, eccoli... ci siamo! — Il signor Stella rideva di gran voglia, e Glaudios, con tanto d’occhi sopra di noi, meravigliava del nostro sangue freddo, e stava osservando ogni gesto che facevamo.
Il sito in cui ci trovavamo è chiamato Dardè, e da esso a Sciotel era appunto l’estensione della proprietà a noi concessa in possesso pei nostri scopi, dal principe abissino Ailo.
Stavamo ancora scherzando e burlandoci a vicenda, allorchè udimmo la voce dei servi del signor Stella che se ne tornavano canterellando, ed emettendo esclamazioni di trionfo per aver dato la fuga a chi era venuto ad assalirci. Ci avevano scambiato per pastori, ed una piccola schiera di predoni s’era avanzata per rubarne il gregge; ma s’accorsero dello scambio e pagarono il fio dell’attentato, a carissimo prezzo.
Appartenevano alla tribù dei Démbelas, e davano la caccia ai Barià. Restammo tuttavia in guardia quasi tutta la notte, e appena si fece giorno, partimmo, avendo però la precauzione di disporre un’avanguardia ed una retroguardia, nonchè di assicurarci ai fianchi da una buona scorta di guardie.
Per tutto quel di nulla accadde di rimarchevole; se si eccettui la perdita di una piccola quantità di dura per essersi, cammin facendo, spezzata una delle grandi sporte che ne contenevano.
I luoghi per cui passavamo erano deliziosi. Ci sorprese la presenza di una grande quantità di uccelli, di varia qualità e di vaghissimi colori, che spiegavano un canto soavissimo, incantevole, e di cui ammirammo i nidi, pari a palloni sospesi ai rami dei cespugli. Sulle prime li scambiai per frutta, ma avvicinandomi e riconoscendoli, non potei a meno di rimanerne sorpreso della perfezione del lavoro.
Siccome poi erano tutti vuoti, ebbi campo di dedicarvi un po’ di tempo nello studiarvi il modo veramente artistico della loro formazione, ma non ne venni a capo. Raggiunsi poscia i compagni, e con essi continuai il cammino che doveva in breve condurci alla meta desiderata, vale a dire a quei luoghi in cui avevamo stabilito di fondare la nostra colonia.
Scorgevamo in distanza una lunga catena di monti, il cui aspetto complessivo assomigliava alla curva d’una nave capovolta. La puppa veniva rappresentata da una montagna più elevata, chiamata Zadamba, il baluardo della provincia amarica.
Tutto il giorno viaggiammo, e quando fa notte ci accampammo in una gola alla distanza di circa un’ora da una cert’acqua chiamata Osch. Il sito era oscurissimo e tetro. Accendemmo parecchi fuochi e mandammo alcuni indigeni a provvederci d’acqua, i quali ritornarono, dopo molto tempo, grandemente affaticati a motivo dell’asprezza del cammino, carichi com’erano degli otri ripieni. Noi aspettavamo con impazienza il loro arrivo per poter cuocere un po’ di lenti; tanta era la fame che ci tormentava.
Arrivati che furono, ci diemmo ad approntare la cena; e dopo aver mangiato, dispensammo vivande e bevande anche agli indigeni, che ne rimasero soddisfattissimi. Vollero perciò contraccambiare alle nostre attenzioni, divertendoci con salti e balli eseguiti intorno ai fuochi, cui noi rispondevamo con canti ed inni patriotici. Tutto sommato, passammo una mezza nottata di buonissimo umore, tanto più, che, giusta i fatti calcoli, il giorno seguente avrebbe dato termine a tante sofferenze e a tanti pericoli, siccome l’ultimo del faticosissimo nostro viaggio.
Dato termine alla festa ci coricammo; ma se gli altri dormivano, io non poteva prender sonno, e ritornava col pensiero a tutto quello di cui era stato attore e spettatore da tanto tempo, terminando con un profondo sospiro che mi uscì proprio dal cuore. Alcune domande ch’io mossi a me stesso, mi riempirono di tristezza:
«Ora che mi trovo in questi luoghi remoti, cosa sarà di me?... La faccenda come andrà a terminare?... Rivedrò più la mia patria, i miei genitori, gli amici che vi ho lasciato? È da due anni, soggiungevo, che non ho novelle di loro, nè essi n’hanno di me. Se la fortuna mi sarà avversa, come l’ebbi nella mia patria, qual fine sarà mai la mia?
«Ivi, nel mio paese, più d’una volta ebbi assistenza dal mio buon padre, che sopperì a quanto non potevano bastare la mia volontà e la mia attitudine al lavoro, e servì a mantenere il mio affetto pel luogo nativo, fino tanto che la necessità non mi spinse ad abbandonarlo per movere altrove in cerca di lavoro, colla speranza di mangiare in pace frutto delle mie fatiche.
«Per questo io rinunciai all’arte che avevo imparata e m’avventurai in questa impresa, certo che in altro modo non avrei potuto sostenermi.
«Eccomi dunque abbandonato a me stesso, costretto a ramingare per il mondo, ad esporre la mia vita minuto per minuto, colla prospettiva di un futuro non troppo lusinghiero.»
Nè mi si dica che, a parità di quant’altri forestieri trovarono lavoro nella mia patria, io avrei potuto, pazientando, ottenerlo, chè, anche nel 1870 al mio ritorno dall’Egitto, n’ebbi un’ultima prova. Anche allora io cercai lavoro presso tutte le fabbriche, nè mi riusci di ottenerne; anzi n’ebbi a ricevere sconforto e disillusione, venendomi risposto che: gente, la quale gira il mondo, non se ne prende.
Una tale risposta l’ebbi appunto da uno stabilimento tecnico triestino. Ma qui non è il caso d’una recriminazione, nè di cercar il motivo da cui abbia potuto derivare un sì strano procedere verso un uomo che avea collegato il suo nome e la sua qualità di triestino ad una spedizione giudicata importantissima da tutti, e che, in fin dei conti, aveva arrischiato, faticato e patito.
Lascio dunque di mettere in carta tante altre considerazioni ch’io feci in quella circostanza, e riprendo il filo della narrazione.
Alla dimane ci levammo che il sole era già alto; e nonostante fu deciso di proseguire, poichè la strada che rimanevaci a percorrere non era omai troppo lunga e contavamo di arrivare ad Osch in quello stesso giorno.
Quell’acqua, di cui feci cenno, e che trovavasi ad un’ora di distanza dal nostro accampamento, era, a quanto ne riportarono gl’indigeni, frequentata durante la notte da animali feroci e da ladroni; altra ragione per cui ci convenne rimetterci in cammino di pieno giorno.
Ed erano le 10 antim., allorchè levammo il campo e ripigliammo la marcia. Sorpassammo parecchi luoghi scabrosi e roccie di qualche conto, finchè a ristorarci dalle fatiche, credemmo opportuno di far sosta in una piccola valle, frastagliata d’alberi e cespugli, serpeggiata da un ruscello, sulle cui sponde fronzute accumulavasi una moltitudine di uccelli che si calavano a dissetarsi. La varietà delle specie, la diversità dei colori, ed il loro canto armonioso ci davano argomento di piacere e di contentezza.
Un tal sito ebbe mille attrattive per noi, e vi restammo tutta intera la giornata.
Quivi il padre Stella ci consultò se fosse opportuno di scegliere quella ridente valle per istabilirvisi. Ognuno disse la sua; ma siccome tra le varie opinioni emergeva sempre quella del Capo, così fu deciso che ci saremmo recati ancora un poco in avanti, vale a dire in una certa posizione da lui conosciuta, la quale, se non offriva le delizie di quella che era stata il tema della discussione, aveva però sopra di essa il vantaggio di essere strategicamente più opportuna. Stella e Colombo, senz’altro attendere, caricarono i somieri e si posero in cammino per Sciotel, scortati da Olga-Gabriel, Olda Salasciè ed altri servi del Capo. Io rimasi invece nell’accampamento collo Spagnolo e cogli indigeni Pedros, Erehe, Olda-Mariam, Diu, ed altri ancora, di cui non ritenni il nome.
Glaudios attese alla cucina, io mi diedi a riparare le mie vesti, assiso all’ombra di un grosso cespuglio, tranquillamente fumando la mia pipa, e, tratto tratto, motivando qualche arietta nazionale, le cui note sposavansi al soave gorgoglio degli uccelli che saltarellavano di frasca in frasca tra il medesimo cespuglio. Era questo, a parer mio, di lieto augurio per la nostra intrapresa.
Qualche tempo dopo mi alzai coll’intenzione di scandagliare le posizioni in cui ci trovavamo. Montai una dolce ascesa, in cui stavano accumulate le acque derivate dalle ultime pioggie. Da una sorgente partivano alcune piccole cateratte che andavano finalmente a recare il loro tributo al fiumicello Osch.
Mi fermai alla sommità di una roccia, appoggiato alle canne del mio facile. Di là feci attentamente le mie osservazioni, e compresi che il sito non sarebbe stato invero troppo ben scelto, avvegnacchè, nel caso di un assalto, non avremmo potuto sufficientemente difenderci, e saremmo rimasti esposti di continuo alle scorrerie dei malandrini. Girai d’altra parte e sempre più mi confermai in tale opinione.
Poco a poco discesi, e giunto all’accampamento, assistetti Glaudios nelle faccende della cucina.
Trascorsa mezz’ora dal mio ritorno, ricomparvero Stella ed i compagni dai quali apprendemmo aver essi finalmente scoperto una situazione propizia per istabilirci e fondarvi la colonia. Ivi, a loro dire, eravi anche abbondanza di pietre, ciò che avrebbe facilitato in gran parte la costruzione delle capanne. Una sorgente di buona acqua minerale stava del pari in quella prossimità. Tali circostanze parvero a tutti favorevolissime, per cui il progetto del signor Stella venne accolto con piacere e con dimostrazioni di gioia.
Stabilimmo di rimanere all’Osch il rimanente della giornata, e rimetterci in via al mattino susseguente. Spendemmo quelle ore nel fondere palle di piombo, mediante forme di ferro che avevamo portato con noi; e così pure a fabbricar cartucce, acciò non avessimo patito difetto di munizioni alla prima occorrenza.