La colonia italiana in Abissinia/I
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I.
Partenza — I miei compagni — Patimenti del viaggio — Prime avventure — Discordie tra uno dei compagni e me — Caccia fatale — In traccia dello smarrito — Ritorno alla carovana. Riconciliazione a mezzo del padre Stella — Un Etiope.
Nel giorno 22 febbraio del 1867 m’imbarcai a Suez, a bordo del Samanut diretto per Jambo nella terra del Jemen, con una numerosa ciurma di ghagiz-babà, di cui una parte sbarcò. Colà ebbi tosto occasione di osservare le cerimonie di quei viaggiatori alla vista della loro terra santa; dopo di che la nave fece rotta per Gedda nell’Arabia deserta.
Arrivai a Jambo al 2 di Marzo, e là furono messi a terra altri pellegrini che dirigevansi alla Mecca.
Io pure discesi in unione a tre miei compagni: il piemontese Lazzarista padre Stella, cosidetto Abum-Goithana-Johanes, il piemontese Q. M. Colombo e lo spagnuolo Glaudios Breanzon. Vi fummo accolti dal sig. Gasparoli, dirigente postale e sanitario, presso il quale restammo fino al 6, in attesa del vapore per Suakin della Nubia, nel quale poscia venimmo ricevuti.
Il padre Stella, che godeva di grande autorità in Abissinia, ove era già da molti anni stabilito, era un missionario dipendente dal governo francese. Ed egli esercitandovi il suo ministero, aveva tentato di raccogliere intorno a sè un nucleo di Europei, dediti all’agricoltura ed ai negozi, e vagheggiava l’idea di fondare in quelle prospere regioni una colonia.
All’uopo egli aveva più e più volte sollecitato a Parigi l’assistenza e la protezione del Governo; ma sebbene lusingato da promesse, ogni sua istanza era rimasta senza effetto.
Date perciò le sue dimissioni, si era deciso di recarsi in Italia per ricorrere a quel Governo, acciò gli accordasse protezione ed assistenza per fondare una colonia italiana nel paese dei Bogos.
Partito all’uopo da Massaua, contava in pochi giorni di porre il piede sulla Penisola.
In viaggio però, fatta conoscenza dello spagnuolo Breanzon, proveniente dal Samhar — ov’era stato in esplorazione per trovarvi una miniera di carbone — venne, per certi progetti di quest’ultimo, distolto dal suo viaggio e condotto in Cairo per presentarsi a Pompeo Zucchi ed al celebre Miani, che appunto allora colà si trovavano.
Ivi furono presi gli opportuni concerti per fondare la colonia; ivi, a mezzo del piemontese Colombo, col quale io, reduce dal Trentino, avevo stretto amicizia al mio giungere al Cairo, mi associai a quell’impresa, e partii con essi al 6 marzo per Suakin, ove, dopo la sosta di otto giorni, ci unimmo ad una carovana diretta per Cassala, e partimmo.
Lungo e faticoso fu il nostro viaggio, pel genere degli ostacoli che s’incontrarono: il caldo, la sete e le bestie feroci.
Un incidente spiacevole venne tosto a funestarci.
Lo Spagnuolo, nel secondo giorno dell’intrapreso cammino, si era sbandato, e per ben 26 ore non lo vedemmo ricomparire essendosi egli smarrito per le foreste. Vari fortunali di sabbia ci travagliavano, e fummo anche ad un pelo d’essere assaliti dalle fiere.
Una notte, lasciato il Colombo colla carovana, ci staccammo in tre per provvederci d’acqua, e siccome la notte era fitta e tenebrosa, entrammo senza accorgerci in una spelonca nella quale girammo per ben tre ore, e fummo costretti ad accendervi spessi e grandi fuochi allo scopo di tener lontane le fiere.
Fatta acqua, ci avviammo per raggiungere la carovana, ma le bestie da soma che avevamo con noi ci fecero travagliare in modo singolare, e a tal segno, ch’io fui persino costretto ad adoperare il calcio del mio fucile che si ruppe sulla testa d’uno degli animali.
Dopo alquante ore arrivammo all’accampamento in cui trovavasi la carovana, e ci diemmo a cuocere alcune tortorelle uccise durante il giorno. — Trascorsa la notte, partimmo di buon mattino, per poter riposare nelle ore più calde, e cammin facendo incontrammo pascoli ameni, ricche mandre di gazzelle e d’antilopi cui diemmo la caccia spesse volte. Ma a cagione della sollecitudine colla quale viaggiavamo, e pel troppo ardore del sole, ci riuscì assai di rado di colpire qualche buona selvaggina; però nelle ore di riposo, secondo la qualità del sito in cui sostavamo, avemmo qualche felice risultato. Le tappe che si facevano erano sempre in siti non troppo ameni, vale a dire fra selve, onde, a qualunque improvviso assalto, potessimo nasconderci o difenderci. Nelle notti accendevamo vari fuochi intorno a noi allo scopo d’impedire l’avvicinarsi di qualche animale feroce; non ostante a ciò, nel primo periodo del nostro viaggio, ci trovavamo felici; i nostri volti erano sereni, gli spiriti tranquilli, poichè una dolce lusinga ci teneva compagnia e speravamo in un felice ed onorevole risultato della nostra intrapresa; la fondazione cioè d’una colonia italiana in Abissinia.
Ma poco dopo, un lieve malumore venne ad interporsi fra la comune serenità, originato dalla condotta del nostro Spagnuolo, che potrei chiamare la cancrena della spedizione, e della quale non fummo sollevati se non all’epoca dell’annullamento d’ogni nostra speranza circa la fondazione della colonia.
Un giorno, cammin facendo, venni insultato dallo Spagnuolo senza che io gliene avessi dato plausibile motivo. Essendo andati noi tutti a cacciare attraverso il Barka, lo Spagnuolo, benchè non avesse colto alcun uccello, ma sprecato bensì molta polvere e fatto mille rodomontate, pretendeva da me delle munizioni; ciò ch’io dovetti negargli, dappoichè non ne aveva a sufficienza, e quel tanto di cui era in possesso, lo conservava più per difender la mia vita che per isprecarlo inutilmente. Ebbi perciò a ricevere i più fieri insulti, a punirlo dei quali io stava già per sfidarlo alla pistola; ma il signor Stella mi rattenne, pregandomi a non voler compromettere in faccia agli indigeni, fino dal principio, la nostra impresa e metter in rilievo ai medesimi la poco edificante concordia e fratellanza tra gli Europei.
Però, appena giunti al nostro accampamento, approfittando della circostanza che lo Spagnuolo ingrugnito, era rimasto assai più indietro, mi sottrassi, all’insaputa di tutti, per attenderlo al suo arrivo e chiedergli conto, almeno a parole, del suo indelicato procedere; ma egli, e fu meglio forse per tutti e due, non so per quale altro sentiero si fosse avanzato, cosicchè quand’io, stanco di aspettarlo mi ridussi fra i nostri, me lo vidi già al posto, seduto al suolo, ragionando pacificamente.
Sembra però che il destino s’incaricasse della mia vendetta giacchè, alcuni giorni dopo, il nostro rodomonte versò in tale pericolo da doversene ricordare con raccapriccio per tutta la vita.
Eravamo usciti un bel mattino, e viaggiavamo lungo una immensa foresta, assai fitta e frastagliata, rallegrati dalle soavi melodie delle diverse specie d’uccelli ed internandoci poco a poco in una piccola gola, allorchè uno dei nostri s’accorse della mancanza dello Spagnuolo. Di ciò tuttavia, per alcune ore non femmo gran caso, conoscendo, per molte antecedenze, la sua smania di errare per le foreste allo scopo di millantare il suo coraggio ed il suo sangue freddo nei più gravi pericoli.
Vedendo però che le ore passavano, ci rivolgemmo agl’indigeni chiedendo se lo avessero veduto o se qualche indizio potessero fornirci; ed uno di loro, l’ultimo che seguiva sopra un camello la carovana, ci rispose di averlo veduto attraversare la foresta nel senso opposto a quello, pel quale noi eravamo diretti. E a dire il vero, l’indigeno non aveva mancato di esortarlo a starsene in compagnia dicendogli: Venite dietro a noi, altrimenti andrete ad ismarrirvi; e se ciò vi accade in questa fitta foresta, arrischierete di non trovarci più.
Al che il millantatore, sfoggiando parole di coraggio spartano, aveva risposto: essere capace quanto un indigeno di percorrere in ogni senso quelle selve, e non temere di alcuna cosa.
La giornata frattanto volgeva rapidamente al suo fine, e poi, tra la compassione e lo sdegno, andavamo ragionando sulla probabilità d’una disgrazia, sulla critica condizione in cui poteva trovarsi, sia pei pericoli esterni, sia pel patimento di fame e di sete, quando pure non avesse avuto ad assaggiare gli artigli delle fiere, dai quali difficilmente avrebbe saputo scampare.
Si avvicinava la sera, e stringendocisi il cuore all’idea del suo pericolo, ci consultammo sul partito da prendere. Infatti spedimmo alcuni indigeni in diverse direzioni sulle traccie dello smarrito; ma essi, dopo alcun tempo, ritornarono senza risultato.
Passò così la notte. Alla mattina seguente, per tempissimo, prima di far coricare i camelli, presi le mie armi e, invitato Colombo a seguirmi, uscimmo, inoltrandoci per la foresta allo scopo di tentare un ultima prova per rinvenire qualche traccia di lui.
Ci stendemmo uno da destra l’altro da sinistra, senza però allontanarci di tanto che non giungessimo ad intendere la nostra voce, e proseguimmo così per qualche ora, facendo, parecchi tiri di fucile e gridando a squarciagola il nome di Glaudios. Tutto si rese inutile. Scoraggiato dal triste esito, mi decisi di ritornare alla carovana, al quale scopo chiamai per nome Colombo, acciò mi raggiungesse; ma con mia grande sorpresa egli non mi rispose, perchè s’era scostato di troppo. Mi smarrii, e mi tenni perduto. Mi travagliavano due dubbi: l’uno sulla mia esistenza, l’altro sullo smarrimento anche di questo secondo compagno. Nessuna traccia mi restava della parte per la quale Colombo si fosse diretto, ma siccome è naturale, io pensai ch’egli potesse essersi avvicinato alla carovana; per la qualcosa io stesso partii da quel sito e mi diressi approssimativamente alla volta da cui era venuto, fortunatamente riuscendo vicino all’accampamento.
Un sospetto però venne tosto ad assalirmi, e fu quello che l’accampamento non fosse il nostro; per la qual cosa m’avanzai di soppiatto. La mia gioia fu tale, nell’accorgermi d’aver raggiunto la carovana, che non me ne poteva persuadere. La causa della mia diffidenza era stata però naturalissima; poichè nel ritornare dal sito in cui era avvenuto lo smarrimento di Colombo, io, senza accorgermi, aveva preso una via affatto diversa da quella percorsa dapprima; e allorchè d’un tratto mi vidi a qualche distanza dall’accampamento, non potei capacitarmi che fosse il nostro, ma dubitava piuttosto che potesse essere una carovana straniera. Pensava quindi che avrei potuto esser veduto e fatto prigioniero, forse anche privato di vita; per cui, ondeggiando fra il timore e la speranza, mi andava inoltrando colla massima circospezione, finchè mi fu dato di scorgere alcuno dei nostri compagni.
Allora accelerai il passo, e dopo tanti affanni, giunsi festeggiato da tutti e dallo stesso Colombo, il quale, più felice di me, eravi arrivato già da due ore.
Cucinammo allora un po’ di the, e dopo averlo sorseggiato, ripigliammo il cammino, rassegnati sulla sorte infelice dello Spagnuolo.
Circa alle 10 antim. giungemmo ad una cisterna, ove le carovane sogliono far sosta per approvvigionarsi d’acqua, la quale viene conservata in otri di pelle di montone, detti gherbe, e si beve abbastanza calda, lungo il viaggio. Quivi scaricammo i camelli e legammo ad alcuni cespugli gli altri animali, dopodichè ci diemmo a far fuoco per ammannire un po’ di minestra. Non tralasciammo del pari di fabbricarci alla meglio un riparo contro i raggi del sole ai quali troppo vivamente ci trovavamo esposti. Mentre davasi compimento a codeste varie operazioni, non mancavasi, di tratto in tratto, di argomentare sullo smarrimento dello Spagnuolo formando le più strane conghietture sul suo conto.
Poco dopo, quando meno potevamo pensarcelo, eccoci lo Spagnuolo propriamente in faccia a noi, trafelato, ansante, con una faccia da moribondo da far pietà ai sassi, e scortato da un indigeno.
Sebbene la sua improvvisa comparsa avesse dovuto procurarci un misto di stupore e di allegrezza, pure tanto era il disgusto che il suo pessimo contegno aveva in noi ingenerato, che lo guardammo colla massima indifferenza e senza punto chiedergli notizie dell’accaduto.
Della qual cosa, essendosene egli accorto, si diede a manifestare il suo malumore ed a sfogare la sua bile sopra l’indigeno che lo aveva accompagnato e col quale avviò una disputa che pareva dovesse tramutarsi in aperto conflitto.
Il signor Stella si frappose chiedendo qual fosse il motivo del diverbio, e, rivoltosi all’indigeno, ottenne da lui gli schiarimenti domandati.
Gli narrò questi come avesse in sulla sera ritrovato lo Spagnuolo sconcertato, abbattuto, affranto per fame e per sete e stanco dal lungo errare per la foresta, il quale gli aveva chiesto, con gesti in luogo di parole, un soccorso immediato. Fu perciò che egli, l’indigeno, siccome scortava una mandra di vacche, si era prestato con tutta sollecitudine e lo aveva saziato con latte.
Lo Spagnuolo gli aveva domandato eziandio il favore d’esser rimesso sulla buona via, anzi d’esser possibilmente guidato a noi, promettendogli un tallero di compenso se mai riuscisse a scoprirci ed a raggiungerci. Infatti, dopo averlo ristorato alla meglio, ed a seconda del patto stabilito, l’indigeno aveva adempiuto al suo dovere; ed ora, credendosi in diritto della pattuita mercede, rifiutava il mezzo tallero che Glaudios gli offeriva slealmente in luogo dell’intiero che gli doveva.
Il nostro eroe spagnuolo minacciava per di più il pover uomo di maltrattamenti e. percosse; alle quali smargiassate l’indigeno non corrispose con atti di violenza nè di manifesto corruccio, ma, avanzandosi con una dignità tutta fredda, propria dell’etiope, francamente concluse: «O mi date il tallero che mi avete promesso o voi non proseguirete il vostro viaggio; poichè la vostra testa me ne compenserà. Badate a non usare a lungo della vostra stolta prepotenza, poichè voi siete in luoghi nostri, e quand’anche vi fosse dato di uccidermi, il mio sangue chiederà vendetta ai miei fratelli, i quali, di quanti qui siete, non ne lascieranno uno, e di voi non resterà capello sopra capello. La vostra vita era pur, poco dianzi, nelle mie mani e s’io avessi preveduto la vostra slealtà, a quest’ora il vostro corpo sarebbe stato divorato dalle fiere o fornirebbe un lauto pasto agli avoltoi».
C’era veramente di che arrossire alle parole dell’Etiope. Lo Spagnuolo infatti aveva offerto colla sua condotta un motivo più che plausibile alle osservazioni dell’indigeno, e la nostra vantata civiltà europea aveva dovuto ricevere una eloquente e meritata lezione dalle labbra d’un selvaggio.
L’autorità e la perizia del sig. Stella valsero però a raccomodare la faccenda; la questione venne in breve appianata: l’indigeno ebbe la sua mercede e si ritirò non senza però imprecare alla mala fede degli Europei.