La città del re lebbroso/Capitolo XXIV - L'assalto della pantera

Capitolo XXIV - L'assalto della pantera

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Capitolo XXIV - L'assalto della pantera
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Capitolo XXIV

L'assalto della pantera


Quando finalmente i primi albori diradarono a poco a poco le tenebre, il dottore poté rendersi esattamente conto della sua situazione.

La corrente del fiume e fors'anche il vento, che non aveva cessato di soffiare dalla parte della riva, l'avevano spinto a tre o quattro miglia al largo, facendolo deviare verso il sud: la foce del Kun-Boreye non si scorgeva più.

La costa che aveva di fronte non era più quella che aveva osservato il giorno innanzi. Era una terra assai bassa, interrotta da paludi piene di canneti e da boscaglie con tek altissimi.

Il tetto non aveva ceduto. Solamente i suoi margini erano stati danneggiati e ridotti a brandelli dagli incessanti attacchi delle onde, tuttavia per il momento non correva alcun pericolo, tanto più che il lago cominciava a calmarsi.

«Come riguadagnare la costa?» si chiese il dottore, che si era rizzato in piedi per meglio osservarla. «Ci vorrebbe qualche remo, mentre non posseggo che la mia sciabola... Un remo!... Non ne ho forse uno? Quello che stringo fra le mani in questo momento? Proviamo a levarlo.»

Allargò prima colla punta della sciabola gli strati di foglie che formavano il culmine del tetto, poi si mise a scuotere vigorosamente il grosso bambù.

Stava già per strapparlo, quando il tetto s'inclinò improvvisamente da un lato affondando più che mezzo. Se il naufrago non avesse tenuto in quel momento il bambù ancora fra le mani, sarebbe certamente caduto in acqua, tanto era stata brusca quella scossa.

«Chi squilibria la mia zattera?» esclamò, voltandosi rapidamente.

Una testa orribile, armata di lunghe mascelle irte di denti aguzzi e giallastri, era emersa improvvisamente, allungandosi verso il naufrago.

«Un gaviale!» esclamò il dottore impallidendo. «Se cadevo in acqua trovavo una bella bocca!»

Il sauriano aveva già appoggiato le zampe anteriori sull'orlo del tetto e tentava di spingersi verso la preda umana.

Il galleggiante, sotto quel peso, continuava ad inclinarsi, minacciando di capovolgersi.

Il dottore non si perdette d'animo, quantunque sapesse d'aver a che fare con un avversario non meno pericoloso dei coccodrilli che infestano le acque dei fiumi africani.

Si aggrappò colla sinistra al bambù, afferrò colla destra la pesante sciabola che teneva infissa nella fascia, e menò al sauriano un colpo formidabile. La grossa scatola ossea del mostro crepitò sotto l'urto dell'acciaio, senza però cedere.

«Ah!... Non vuoi lasciarmi!» gridò il dottore, che sentiva il tetto inclinarsi sempre. «Prendi, bruto!...»

Menò un secondo colpo e non già sulle piastre ossee che corazzavano il rettile, bensì su una delle zampe appoggiate all'orlo della zattera, troncandogliela netta.

Quasi subito il tetto si raddrizzò, mentre quel pericoloso abitante dei laghi e dei fiumi indocinesi s'inabissava con fragore, mandando un rauco muggito.

«Perbacco!... Come tagliano queste sciabole!» esclamò il dottore. «Non avrei creduto che dei selvaggi potessero dare al loro ferro una simile tempra. Speriamo che quel bruto mi lasci ora tranquillo.»

Pulì la sciabola rimettendosela nella fascia, poi con uno strappo violento levò il bambù. Era una bella canna, grossa quanto il braccio d'un uomo, lunga due metri. Certamente non poteva servire gran che a dirigere una zattera, per quanto piccola e leggera fosse.

Il dottore seppe trarne egualmente partito. Strappò alcuni fasci di foglie secche e le legò strettamente ad una delle estremità.

«Se non sarà precisamente un remo, me ne servirò egualmente,» disse. «La riva non è che a tre miglia e sono certo di poterla raggiungere fra un paio d'ore.»

Si sedette sulla cima del tetto, infilando i piedi nel buco che aveva aperto per meglio strappare il bambù, e si mise a remare, imprimendo al galleggiante delle piccole scosse.

Non guadagnava molto, a dire il vero, tuttavia avanzava, favorito anche dalle onde che andavano a rompersi contro la costa.

Dopo il mezzodì poté finalmente toccare la sponda. Era talmente esausto che, appena salita la riva, si lasciò cadere di peso al suolo, all'ombra d'un banano selvatico che stendeva per un vasto tratto le sue immense foglie.

Dove era sbarcato? Per il momento non si curava di saperlo, troppo contento di aver raggiunto la terra e lasciato quella pericolosa zattera che poteva da un momento all'altro sfasciarsi.

Appoggiato col dorso contro il tronco della pianta, guardava con viva curiosità la sponda, che era cosparsa di sabbia e di penne di cormorani e di pellicani.

Non vi erano né barche, né capanne, né verso nord, né verso sud. Forse quella parte del lago non era mai stata visitata nemmeno dagli Stienghi, i quali di rado escono dalle loro folte ed umide foreste.

«Procuriamoci la colazione,» disse Roberto, dopo essersi riposato una mezz'ora. «Poi cercherò di orientarmi per raggiungere la pagoda. Lakon-tay e Len-Pra non l'avranno certo lasciata e mi aspetteranno ancora.

Poveri e cari amici! Come saranno inquieti per questa mia lunga assenza! Ma non piangere, mia adorata fanciulla: noi ci rivedremo ancora, a dispetto di quei misteriosi nemici che mi perseguitano con tanta ostinazione. Ora infatti sono ben convinto che si tratta degli stessi che mi hanno teso un agguato durante la caccia all'elefante.»

Si alzò e discese la riva, dove si scorgevano numerose buche coperte da ramoscelli e da foglie secche.

«Devono essere nidi di cormorani,» mormorò.

Dopo averne visitati parecchi senza risultato, riuscì finalmente a scoprirne uno che conteneva una mezza dozzina d'uova, un po' più grosse di quelle dei piccioni e col guscio leggermente rugoso.

«Per il momento basteranno,» disse. E le vuotò una dietro l'altra, senza nemmeno accorgersi che avevano un certo gusto di pesce poco gradevole.

Un po' riconfortato da quella modesta colazione, tagliò un ramo per servirsene di bastone e si mise a costeggiare il lago, dirigendosi verso il sud.

Avendo voltato le spalle alla foce del Kun-Boreye, era certo di rintracciare la vecchia pagoda, quantunque ignorasse a quale distanza si trovava. La sua marcia non durò a lungo, perché dopo qualche ora si vide chiuso il passo da una vastissima palude, che pareva dovesse avere una estensione immensa.

«Non avevo pensato a questi ostacoli,» disse, facendo un gesto di malumore. «Se dovrò fare il giro di questa palude, raddoppierò e forse anche triplicherò il mio cammino, e corro il pericolo di non ritrovare mai più Lakon-tay e Len-Pra. A meno che non mi spinga fino alla città del Re lebbroso, se saprò trovarla.»

Rimase parecchi minuti immobile, cercando invano la soluzione di quel difficile problema, poi prese ad un tratto il suo partito.

«Giriamola,» disse. «Raddoppierò le marce e non dormirò che qualche ora.»

E si cacciò senz'altro nella boscaglia che contornava la palude.

Era una di quelle foreste umide che sono preferite dalle tribù degli Stienghi, perché li pongono al coperto dalle invasioni dei loro nemici, i Cambogiani ed i Laotini. Foreste orribili, sature di umidità, sorte su terreni paludosi, pullulanti di sanguisughe, di scorpioni, di centopiedi, di scolopendre e di serpenti velenosi, e che celano sotto la loro ombra quella terribile febbre dei boschi, così micidiale agli europei non solo, ma perfino agli stessi Siamesi.

Il dottore, animato dal desiderio di ritrovare il generale e soprattutto Len-Pra, che ormai amava intensamente, proseguiva intrepidamente la sua marcia, sciabolando i rami ed i rotang che gli ostacolavano il passaggio, inoltrandosi sempre più in quella gigantesca foresta.

Aveva lasciato la riva paludosa a causa della poca consistenza del suolo, e badava di non allontanarsi troppo per paura di smarrirsi fra quelle migliaia e migliaia di piante, cosa non improbabile, non avendo alcun mezzo per dirigersi, nemmeno il sole, il quale non si lasciava vedere fra quelle foglie mostruose che formavano una volta assolutamente impenetrabile.

Avanzò così per parecchie ore, raccogliendo qua e là qualche frutto, finché, esausto da quella lunga marcia e semisoffocato dal calore intenso che regnava nella foresta, si fermò sotto un albero d'aquila di proporzioni enormi, coll'intenzione di passare colà la notte. Mancando ancora qualche ora al tramonto, si mise a frugare i cespugli vicini colla speranza di sorprendere qualche cerbiatto, avendone scorti parecchi fuggire durante la giornata.

Era tutto intento nelle sue ricerche, quando udì sopra il suo capo agitarsi le fronde d'un tonki. Alzò gli occhi e scorse, non senza un brivido di terrore, un grosso animale dal pelame giallastro, picchiettato di macchie a forma di mezzaluna, che stava appiattato nella biforcazione d'un grosso ramo e lo fissava con due occhi gialloverdognoli dalla pupilla rotonda.

Il dottore fece tre o quattro salti indietro, alzando la sciabola e mettendosi in guardia, come uno schermitore che si prepara a parare una botta.

«Una pantera!» esclamò. «Cattivo incontro, se è affamata. Se non avessi questa sciabola, per me la sarebbe finita subito.»

La pantera pareva però che non avesse fretta di assalirlo. Forse la posa del dottore e lo scintillio dell'arma tenuta in alto la rendevano più prudente.

Lo fissava coi suoi occhi verdastri, contraendo le labbra e ondeggiando lievemente la coda, mentre le sue unghie s'affondavano con un sinistro crepitio nella corteccia del ramo.

Il dottore stava per fare un'altra mossa indietro, onde mettersi fuori portata dallo slancio della belva, quando vide i cespugli che crescevano attorno al tronco della pianta aprirsi con precauzione, e comparire un uomo, il quale aveva l'arco già teso con una lunga freccia incoccata.

«Toh! Uno Stiengo ora!» esclamò il dottore. «Non bastava la pantera?»

Il selvaggio aveva puntato risolutamente la freccia sul dottore, alzandola e abbassandola come se cercasse il punto migliore per toccare qualche organo vitale.

Era un uomo di alta statura, dalla carnagione assai scura con riflessi giallastri, i lineamenti duri e angolosi, gli occhi nerissimi e foschi: era quasi nudo, non avendo che uno straccio grossolano attorno ai fianchi.

Oltre l'arco e la faretra, portava dietro al dorso una sciabola simile a quella che aveva il dottore.

Pareva non si fosse ancora accorto della presenza della pantera, che gli stava quasi sopra la testa. Altrimenti non si sarebbe certo fermato in quel luogo troppo pericoloso.

Il dottore, che temeva fosse uno di quelli che lo avevano rapito, con una mossa fulminea si gettò dietro il tronco d'un albero d'aquila, gridando al selvaggio con voce minacciosa:

«Abbassa quella freccia, canaglia! Non vedi che sono un uomo bianco? Guarda invece sopra la tua testa.»

Lo Stiengo, sia che non comprendesse il siamese o che fosse deciso ad assalire l'uomo dalla pelle bianca, invece di abbassare la freccia uscì dai cespugli, tenendo l'arco sempre teso, e fece due passi di fianco per prendere una posizione più adatta a scagliare quel pericoloso dardo.

In quell'istante il dottore, che non perdeva d'occhio neanche la pantera, vide la belva alzarsi lentamente sulle sue tozze e robuste zampe e raccogliersi come i gatti quando si preparano a saltare.

«Guardati!» gridò al selvaggio. «La pantera! Stupido, sta per scagliarsi su di te!»

Un sordo brontolio fece alzare la testa allo Stiengo. Vedendo il felino, fece l'atto di fuggire, ma gliene mancò il tempo.

La terribile belva con uno slancio fulmineo gli piombò addosso, lo atterrò di colpo con una poderosa zampata sulla spalla sinistra, poi scomparve in mezzo agli alberi, mandando un sordo mugolio.

L'assalto era stato così rapido, che il dottore non aveva avuto il tempo di accorrere in aiuto del selvaggio.

Lo Stiengo, colla spalla sanguinante, si rotolava fra le erbe, mandando urla di rabbia più che di dolore e digrignando i denti come una belva feroce.

«Finiscila,» gli disse il dottore. «Non guarirai certo in quel modo: anzi!»

Gli si avvicinò, gettando via la sciabola.

Il selvaggio si arrestò e riprese l'arco, dardeggiando sull'italiano uno sguardo feroce. Certo credeva che volesse approfittare della sua impotenza per finirlo.

«Non ti voglio fare alcun male,» disse il dottore, in siamese. «Mi comprendi?»

«Sì,» rispose lo Stiengo nella stessa lingua.

«Allora lascia in pace l'arco e mostrami la ferita. Io sono un uomo che sa curare gli ammalati.»

Il selvaggio rimase muto. Il suo sguardo però a poco a poco perdeva il suo lampo feroce.

«È vero che non mi ucciderai?» chiese finalmente.

«Gli uomini bianchi non sono cattivi come tu credi.»

«Eppure mi avevano detto che mangiavano i loro nemici.»

«Chi ti ha narrato ciò era un grande imbecille. Lascia che esamini la tua ferita.»

Lo Stiengo si mise a sedere, tergendosi colle mani il sangue che colava in abbondanza dalla spalla, dilaniata dalle terribili unghie della fiera.

«Mi prometti di non uccidermi?» chiese nuovamente.

«Ti ho detto che non ti farò alcun male.»

«Ecco la mia spalla,» disse lo Stiengo, che pareva non dubitasse più.

Il dottore gli s'inginocchiò accanto ed esaminò attentamente la ferita. La pantera non aveva avuto il tempo di squarciargli la spalla, però l'aveva rigata piuttosto profondamente colle cinque unghie.

«Credevo di peggio,» disse il dottore. «Se le unghie non erano infette, la ferita potrà rimarginarsi in un paio di giorni.

Tuttavia non perdiamo tempo ed arrestiamo il sangue.»