La causalità come struttura grammaticale nell'ultimo Wittgenstein/6. Conclusione

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5. Wittgenstein: la causalità come struttura grammaticale 7. Bibliografia
Per riassumere quello che è il punto di vista di Wittgenstein sulla questione della causalità può essere utile e interessante rifarsi a un'osservazione di Hume che si trova nel Trattato sulla natura umana, e che – seppure en passant – svolge la stessa considerazione che sta poi alla base delle riflessioni wittgensteiniane. Nelle pagine in cui discuteva le proprietà caratteristiche del nesso di causa, Hume osservava a un certo punto:
In primo luogo, trovo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo o di spazio. Benché, infatti, oggetti distanti possano talora sembrar produttivi l'uno dell'altro, di solito, esaminando bene, si trova che sono uniti da una catena di cause contigue sia tra loro sia con gli oggetti distanti; e anche quando quest'unione non la possiamo scoprire, presumiamo sempre che esista1.

Qui, per la verità, l'autore si riferiva a uno solo dei tratti tipici delle relazioni di causalità, cioè la contiguità tra ciò che determina causalmente e ciò che è determinato, ma il discorso può facilmente e opportunamente essere esteso alla causalità tout court. Se infatti è vero, come lo è nel quadro teorico humeano, che l'assunzione della validità della causalità e il suo sistematico utilizzo concreto sono forme di comportamento profondamente radicate nella natura umana, dalla quale stessa traggono la loro legittimità e l'intersoggettività del loro valore, allora è vero anche che si tratta di forme a cui umanamente si tenderà sempre a ricondurre la propria esperienza. Dunque è naturale (in un senso molto pregnante) che quando noi pieghiamo la nostra esperienza allo schema della causalità supponiamo in essa anche ciò che è implicato da tale schema, e non solo ciò che è contenuto nell'esperienza per così dire pura2. E, facendo ancora un passo più oltre, risulta che è tanto naturale che assumiamo la contiguità della causa e dell'effetto anche laddove essa non si palesa quanto è naturale che assumiamo l'esistenza stessa di un rapporto di causalità tra due oggetti anche laddove esso non si manifesta di persona.

Questa idea che ci sia una differenza tra il trovare qualcosa nell'esperienza e, per così dire, il mettervelo non è inoltre citata nel brano appena visto in modo del tutto estemporaneo: infatti anche altrove, come ho fatto osservare più di una volta, Hume affermava che i tratti tipici della relazione di causalità possono essere considerati tanto scoperti quanto presupposti nell'esperienza3.

In effetti, il nesso di causa presenta alcune caratteristiche distintive (nello schema di Hume, contiguità spaziotemporale, successione cronologica, connessione costante) che sono quelle che ci permettono di stabilire sperimentalmente che tra due eventi c'è un rapporto come quello della causa con l'effetto. Si può pensare che, ad esempio, se vediamo che il contatto tra un granello di sodio e una superficie d'acqua è immediatamente seguito, e sistematicamente, dalla combustione del primo ipotizziamo che sia tale contatto a causare la reazione.

Tuttavia la categoria della causalità può essere applicata anche in assenza di manifeste contiguità, successioni o connessioni. In generale, anzi, saremo inclini più ad ammettere cause non immediatamente evidenti che a derogare al principio di causalità. Se, per esempio, si nota un ritardo costante di circa due settimane nel palesarsi dei sintomi della varicella dopo il contatto di ogni soggetto che si ammala con uno che era già ammalato, si assume naturalmente l'esistenza di una catena di eventi intermedi tali da riempire questo intervallo; e lo si farebbe anche se di queste cause interposte (virus, cellule, linfonodi) non si avesse alcuna conoscenza sperimentale e neppure alcuna idea chiara, mentre invece non ci si potrebbe mai accontentare di affermare la sostanziale indipendenza dell'insorgere della malattia dal contagio e, se non la sua casualità, la sua imprevedibilità4.

In un modo che a questo punto non dovrebbe risultare sorprendente, e che inoltre ha il merito di permetterci di ricapitolare il percorso compiuto fin qui, è possibile riassumere le ragioni e le implicazioni di questo fatto (cioè di questa natura strutturale della categoria di causalità rispetto alla nostra esperienza) con le parole di Kant:

Dobbiamo distinguere le leggi empiriche della natura, che presuppongono sempre particolari percezioni, dalle sue leggi pure o universali, le quali, senza che abbiano a fondamento particolari percezioni, contengono semplicemente le condizioni della unione necessaria di queste in una esperienza: riguardo alle ultime, natura ed esperienza possibile son tutt'uno; e, siccome in quest'ultima la conformità a leggi si fonda sulla connessione necessaria dei fenomeni in una esperienza (senza la quale non possiamo conoscere affatto alcun oggetto del mondo sensibile) e quindi sulle leggi originarie dell'intelletto, così certo a principio suona strano, ma è, non di meno, certo, dire riguardo alle ultime, l'intelletto non attinge le sue leggi (a priori) dalla natura, ma le prescrive ad essa5.

Il che ci riporta direttamente a Wittgenstein, secondo il quale in effetti esiste un'importante differenza tra proposizioni con la forma di osservazioni empiriche e altre che invece hanno la forma di strutture normative; le seconde determinano l'organizzazione concettuale, cioè linguistica, della nostra esperienza anziché, come invece accade con le prime, esserne determinate.

In un'estrema ma brillante sintesi,

Non sarebbe del tutto insensato dire che la filosofia è la grammatica delle parole «dovere» e «potere», poiché così essa mostra che cos'è a priori e cosa a posteriori6.

Quando si dice che un evento può essere causa di un altro, si sta tentando una descrizione (a posteriori) di una situazione oggettiva, la quale potrà risultare vera se sarà giustificata abbastanza bene; quando si dice che un evento deve essere causa di un altro, si sta prescrivendo una forma (a priori) a un'esperienza e la si sta con ciò costituendo come oggettiva, senza che tale forma sia di per sé vera o falsa, o comunque giustificata.

Questo passo è uno dei rari in cui la terminologia di Wittgenstein è direttamente confrontabile con quella di Kant, ed è perciò molto significativo. Certamente nella cornice teorica del filosofo viennese le forme che sono presupposte dalla schematicità dell'esperienza e dalla legalità della natura in quanto proprie condizioni di possibilità non possono essere chiamate “pure” come accadeva presso il filosofo prussiano, poiché sono forme sì, ma di un linguaggio ben preciso e piuttosto concreto, cioè sono regole non suscettibili di essere separate dagli usi che ne sono regolati. Anche in Kant la purezza delle leggi pure della natura (così come la purezza dei concetti puri dell'intelletto e quella delle forme pure dell'intuizione sensibile) significava certamente che esse non dipendono per la loro derivazione dall'esperienza, ma senza con ciò implicare che fosse possibile un qualunque loro darsi se non come forme di un materiale concreto; e analogamente gli a priori kantiani erano certamente anteriori rispetto a qualunque esperienza propriamente intesa, che infatti rendevano possibile, ma non come se fossero logicamente o cronologicamente separabili da essa altrimenti che per fini esplicativi. Tuttavia, per evitare fraintendimenti, è bene insistere sul senso in cui secondo Wittgenstein è possibile attribuire una qualche apriorità alle grammatiche che strutturano, in quanto loro regole, i giochi linguistici.

È a partire da un sistema (con la sua organicità) di pratiche comunicative effettive, di concreti impieghi di certe parole in certi modi, che è possibile isolare le regole che normano un linguaggio; e si tratterà perciò di un isolamento molto relativo. In Wittgenstein l'unità della regola e del regolato è molto pregnante, ed è resa estremamente evidente dal fatto che come si è notato le stesse espressioni possono fungere ora da norma di controllo, ora da uso che va sottoposto a controllo, a seconda del loro contesto, mentre al di là di un contesto in generale né le une né le altre hanno alcun valore.

Tuttavia la distinzione tra le proposizioni dal valore prescrittivo e quelle dal valore descrittivo, che consente di circoscrivere il campo in cui il dubbio è non solo legittimo, ma addirittura sensato, è efficiente e feconda; questa operazione filosofica di mostrare che cos'è a priori e cosa a posteriori previene gli esiti distruttivi degli scetticismi iperbolici e, contemporaneamente, risolve il problema della fondazione delle nostre conoscenze con l'esibire il terreno che rende possibili tutte le giustificazioni e che, come tale, è necessariamente ingiustificato.

Quanto alla natura di tale terreno, infine, essa può essere certamente chiarificata e indagata da un punto di vista fenomenologico. Si potrà dire, con Wittgenstein, che è una «forma di vita»7 dal carattere sociale e pragmatico; si potrà, insieme a un Kant che da questo punto di vista sembra a volte non essere all'altezza di se stesso, tentarne qualche analisi in chiave psicologica8; o si potrà, seguendo Hume, sostenere che dipende dalla «natura umana» ed è quindi scientificamente investigabile. Ma quanto alla sua fondazione (sia che si parli della natura umana, sia che si parli delle forme pure delle percezioni e della connessione delle percezioni nell'esperienza, sia che si parli del linguaggio), essa è fuori questione. Già Hume scriveva, a proposito delle strutture mentali della connessione delle idee, che «non si può altro che riguardarle come proprietà originarie della natura umana, che non ho la pretesa di spiegare»9. Kant, perspicuamente, osservava:

[…] come sia possibile questa stessa speciale proprietà [sintetica e schematizzante] della nostra sensitività o quella del nostro intelletto e della appercezione necessaria che sta a fondamento di questo e di ogni pensiero, è quistione a cui non si può più dare soluzione né risposta: perché per ogni risposta e per ogni pensiero degli oggetti, abbiam sempre di nuovo bisogno di ricorrere a quella proprietà stessa10.

E, ciò che può valere come conclusione, Wittgenstein confermava:

È così difficile trovare l'inizio. O meglio: è difficile cominciare dall'inizio. E non tentare di andare ancor più indietro11.

Ecco, più indietro di questo terreno che è il linguaggio non tenterò di andare.

Note

  1. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 88 (il corsivo della frase conclusiva è mio).
  2. Sulla problematicità della quale rimando di nuovo alle considerazioni di James.
  3. Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 89.
  4. Cfr. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 37.
  5. I. Kant, Prolegomeni, cit., pp. 153-155.
  6. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 12.
  7. Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., § 241, ma anche Della Certezza, cit., § 559.
  8. Anche negli stessi Prolegomeni si trovano più passaggi nei quali Kant sembra privilegiare un ordine cronologico (in cui le forme pure della sensibilità si aggiungerebbero a una pregressa accolta di dati caotici e amorfi e le forme pure dell'intelletto a una pregressa percezione non concettualmente strutturata) a quello logico (in cui la strutturazione sensibile e intellettiva dell'esperienza sono simultanee e originarie) e sembra perciò cadere in quella confusione tra psicologia empirica e filosofia trascendentale contro cui pure lui stesso, altrove, metteva in guardia il lettore. Cfr. I. Kant, Prolegomeni, cit., pp. 103-105, 117.
  9. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 24.
  10. I. Kant, Prolegomeni, cit., p. 151.
  11. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 471.