La causalità come struttura grammaticale nell'ultimo Wittgenstein/5. Wittgenstein: la causalità come struttura grammaticale

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4. Wittgenstein: proposizioni logiche e proposizioni empiriche 6. Conclusione
In quanto problema concernente i fondamenti delle nostre conoscenze, la questione della causalità – e ancor di più quella, collegata, dell'induzione – non era affatto estranea alle riflessioni di Della certezza. Wittgenstein le dedicava in quest'opera diverse proposizioni, nelle quali essa veniva trattata ora come parte della domanda, ora come esempio di applicazione della risposta: il principio secondo cui nulla avviene senza causa e la modalità in cui elementi di esperienza vengono collegati sotto il titolo di un nesso causale sono, da un lato, usi linguistici di cui si vorrebbe indagare il fondamento; mentre, dall'altro, costituiscono casi tipici di strutture grammaticali con cui, senza che esse siano giustificabili, diamo una forma linguistica alla nostra esperienza.

Tuttavia, al fine di esporre la soluzione proposta da Wittgenstein al problema della relazione di causa ed effetto nella sua specificità, voglio ora prendere in considerazione principalmente un testo che raccoglie osservazioni interamente consacrate a questo argomento, e che è intitolato appunto Causa ed effetto.

Un esperimento mentale, proposto nelle prime pagine dell'opera, consente di introdurre efficacemente la questione e di impostarne la soluzione. Wittgenstein ipotizzava uno scenario come quello che segue. Due diverse forme di vita vegetale, una pianta di tipo A e una pianta di tipo B, producono semi che risultano indistinguibili anche a fronte dell'osservazione più scrupolosa e approfondita; i semi della pianta di tipo A sono identici a quelli della pianta di tipo B, ma i primi producono ancora piante di tipo A, i secondi ancora piante di tipo B. L'unico modo per sapere da che tipo di pianta un seme è stato prodotto è attendere di vedere che tipo di pianta produrrà, così come l'unico modo per sapere che tipo di pianta un seme produrrà è aver visto da che tipo di pianta è stato prodotto. Ma:

Dobbiamo contentarci di questo, o dobbiamo dire: «Dev'esserci una differenza nei semi stessi, altrimenti essi non potrebbero produrre piante differenti; da sole, le loro storie precedenti non possono essere la causa dei loro sviluppi ulteriori, a meno che tali storie non abbiano lasciato tracce nei semi medesimi»?1

Risulta chiaro, in primo luogo, che due semi identici in tutto tranne che nella loro storia non sono identici in tutto; l'identità degli indiscernibili non viene minimamente messa in discussione – anzi proprio applicandone il principio si fa semplicemente osservare che due semi di cui si sa che sono nati l'uno da una pianta di un certo tipo, l'altro da una pianta di tipo diverso, non sono indiscernibili e non sono, dunque, identici. E in secondo luogo che, tuttavia, se anche questa storia precedente è davvero l'unica cosa che rende manifesta una qualsiasi differenza tra due semi altrimenti indistinguibili, comunque noi non saremo disposti a chiamare tale diversa storia la causa del diverso sviluppo dei due semi: prevederemo l'esito A del seme prodotto dalla pianta di tipo A, certamente, e l'esito B del seme prodotto dalla pianta di tipo B; ma non saremo disposti ad ammettere che la sola storia, senza aver lasciato alcuna traccia nei semi stessi, possa causare l'esito diverso della loro crescita: una dinamica del genere nel nostro gioco linguistico non potrebbe essere fatta cadere sotto il nome di “causa”, poiché verrebbe meno quello che, come Hume aveva scoperto (o supposto)2, è uno dei tratti caratteristici e distintivi della relazione di causalità, cioè la contiguità spaziale e – ciò che ci interessa qui – temporale della causa e dell'effetto.

Se effettivamente non ci accontentiamo, se cioè davvero, com'è perfettamente verosimile, diciamo «dev'esserci una differenza nei semi stessi», è perché siamo più inclini a ipotizzare oggetti che non siamo in grado di apprezzare sperimentalmente che ad ammettere un'eccezione al principio di causalità. Il che significa che siamo più propensi a piegare un'osservazione empirica (o, come in questo caso, la sua mancanza – ma fa lo stesso) a una struttura logica che il contrario, in accordo con quella cornice teorica che Wittgenstein avrebbe poi elaborato più finemente in Della certezza: alcune proposizioni sono più rigide perché sono più capillarmente interconnesse con il resto del sistema che contribuiscono a strutturare, e fungono da regole per schematizzare osservazioni (non si dà il caso che non possano assolutamente essere negate, ma se fossero diverse «un'incredibile quantità di cose cambierebbe»3); mentre alcune sono collegate in modo più elastico agli altri nodi della rete in cui sono, comunque, inserite, e fungono da osservazioni che traggono la loro schematicità da regole (a proposito di esse è possibile scoprire di essersi sbagliati, e correggersi di conseguenza).

Dichiarare: «Dev'esserci una differenza nei semi, anche se noi non la troviamo» non altera i fatti, mostra semplicemente come sia potente in noi l'impulso a vedere tutto mediante lo schema di causa ed effetto4.

La causalità sta, in un certo senso, nell'occhio di chi guarda, o meglio nel linguaggio con cui si esprime ciò che l'occhio vede: è una delle strutture grammaticali, ingiustificate in quanto tali e cionondimeno logicamente (oltreché socialmente) normative, con cui si determina la forma concettuale, cioè linguistica, dell'esperienza in quanto è filosoficamente rilevante, cioè dicibile.

Ciò è quanto dire che la causalità non sta nei meri fatti, ma nel modo in cui noi li schematizziamo concettualmente, cioè linguisticamente. Al che poi si può aggiungere un ulteriore sviluppo, poiché, tra tutto ciò che era cambiato, rimaneva valida per il “secondo” Wittgenstein almeno una delle tesi che erano state proprie del “primo”, ossia che «il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: nulla dire se non ciò che può dirsi»5; e che in particolare dei meri fatti, se con quell'aggettivo si vuole intendere grezzi, bruti, nudi dati al di là di ogni contaminazione con il linguaggio o con qualche altra facoltà conoscitiva umana, non si può parlare tanto quanto non si può parlare delle cose in sé nel senso di Kant (il quale, per inciso, approdava nei suoi Prolegomeni a proporre come condizioni di validità per una metafisica scientifica criteri molto simili a quelli sulla base dei quali nel Tractatus Wittgenstein escludeva la possibilità di ogni metafisica). Risulta allora che il linguaggio, che non si può filosoficamente fondare perché ci si può muovere esclusivamente al suo interno, può solo essere presupposto e dunque intrattiene con l'esperienza, in tanto in quanto essa è dicibile, un legame logicamente originario. Il linguaggio è radicato trascendentalmente nell'esperienza, se di questa si fa attenzione a prendere in considerazione solo la dicibilità filosofica, tanto quanto lo è la sensibilità; e la causalità non è che una categoria in un senso molto prossimo a quello di Kant, benché a questo punto Wittgenstein fosse giunto allo stesso risultato a cui, peraltro, erano giunti i neokantiani della scuola di Marburgo6 – e cioè che le categorie, le strutture concettuali che fanno da grammatica della nostra esperienza, sono in numero indefinito, costituiscono un novero aperto, come le parole del vocabolario di una lingua. Ma, se per i neokantiani quella della grammatica e quella del vocabolario dei concetti rimanevano metafore, per quanto calzanti, Wittgenstein le prendeva radicalmente sul serio e – proprio qui sta una delle sue sostanziali originalità – finiva per farle proprie intendendole nel senso più letterale.

Per chiarificare il punto focale tematizzato da Wittgenstein con l'esempio appena citato è possibile approcciarlo anche percorrendo la direzione opposta, cioè quella del dubbio. Immaginiamo che tra i semi dei due tipi di pianta di cui sopra un botanico particolarmente acuto abbia finalmente scovato una difformità che possa rendere conto della differenza tra le piante che gli uni e gli altri producono. Ebbene, se è vero che la necessaria sottodeterminazione di ogni teoria rispetto ai fenomeni che essa inquadra rende impossibile un experimentum crucis, allora si potrebbe ancora obiettare:

«Come fai a sapere che la caratteristica che tu hai scoperto non è puramente accidentale? Come fai a sapere che quella caratteristica ha qualcosa a che fare col fatto che dal seme verrà fuori proprio quella pianta?»7

La risposta di Wittgenstein è che il dubbio non può spingersi oltre un certo limite senza perdere l'aspetto stesso del dubbio. Si può sicuramente dubitare che un certo evento sia effettivamente la causa di cui un certo altro evento è l'effetto; ma tale dubbio dipende per la sua stessa sensatezza dall'accettazione in generale della categoria della causalità e della sua validità. Un dubbio può sorgere sulla base di alcune certezze perché esse possono giustificarlo come giustificherebbero, in alternativa, un'affermazione; ma nessun dubbio, in quanto eccezione, può respirare fuori dalla regola che è il suo ambiente. Se si tentasse di «cominciare» col dubbio, di mettere in questione una categoria come, per esempio, la causalità in ogni sua applicazione possibile (per così dire, a priori), e non in riferimento a un caso particolare sulla base del confronto con altre applicazioni tenute per valide (per così dire, a posteriori), allora semplicemente quel mettere in questione non sarebbe ciò che chiamiamo dubbio.

«Il traffico stradale non può cominciare col dubbio da parte di tutti se debbono andare in questa o quella direzione; vale a dire, quel che ci sarebbe in tal caso non sarebbe ciò che chiamiamo “traffico”, e quell'oscillazione non la chiameremmo “dubbio”»8.

Chiamare dubbio il sospetto che riguarda la validità della causalità come categoria equivale a far violenza al gioco linguistico che giochiamo con la parola “dubbio”, tanto quanto negare la validità dell'inferenza di un rapporto di causalità a proposito del comportamento di due semi diversi da cui si sviluppano piante diverse equivale a far violenza al gioco linguistico che giochiamo con la parola “causa”: alle condizioni a cui il dubbio è sensato, la causalità è reale. Quanto al fondamento di questi giochi, si tratta di una questione che all'interno di essi certamente non è risolvibile – ma non è nemmeno suscettibile di essere legittimamente posta. I giochi linguistici, come tutti i giochi, sono fondamenti infondati (così come lo sono le singole loro regole, purché siano considerate olisticamente): gli scacchi si giocano così e così; se muovessi un alfiere in un modo tale che esso potesse fermarsi indifferentemente su caselle bianche o su caselle nere non starei già più giocando a scacchi; e la domanda circa il fondamento delle regole degli scacchi, tanto quanto la domanda sul perché si gioca a scacchi, esula completamente dall'interesse dello scacchista.

Un'altra questione rilevante, che fa addirittura da sottotitolo agli appunti di Wittgenstein riguardanti la causa e l'effetto, è quella della «consapevolezza intuitiva» che sembra si possa avere (e dire di avere) in relazione a un nesso causale. Quando qualcuno afferma di essere spaventato per l'aspetto minaccioso di un uomo; quando si dice che una corda si muove perché si vede che qualcuno la tira; quando si spiega che se si gira una certa ruota essa ne metterà in moto un'altra e questa la leva che colpisce la campana; sembra di trovarsi in presenza di casi di «riconoscimento immediato di una causa, senza esperimenti ripetuti»9.

Questo riconoscimento immediato, che si chiama anche, appunto, intuizione, è piuttosto problematico, poiché non sono chiari i termini dell'uso di tali espressioni e nemmeno, tanta è la loro ambiguità, se esse descrivano effettivamente qualcosa, cioè se un loro utilizzo consistente sia affatto possibile. Wittgenstein osservava che se “intuizione” significa «una sorta di vedere, un riconoscere a un singolo sguardo» allora so cosa questa parola significa «all'incirca nello stesso modo in cui so che cosa significa “vedere con un singolo sguardo un corpo simultaneamente da tutti i lati”»10. Non si saprebbe facilmente se considerare l'intuizione alla stregua di un modo particolare della nostra esperienza, che dà luogo a un tipo particolare di conoscenza, o se giudicarla piuttosto una chimera, una parola del tutto vuota che si utilizza solo in filosofia per dare la falsa impressione di otturare il buco lasciato dalla mancanza di un concetto. Tuttavia, se se ne dà un uso coerente nel comune commercio linguistico, una parola è già un concetto – e si può dunque procedere a quella fenomenologia critica del suo impiego di cui abbiamo già visto esempi per tentare di “riempirlo” di un senso il più possibile preciso.

In Causa ed effetto, Wittgenstein attribuiva a Russell la tesi che «prima di riconoscere qualcosa come una causa mediante una ripetuta esperienza bisogna riconoscere qualcosa come una causa mediante l'intuizione»11. Sembra che, per il filosofo britannico, questo significasse che una vera e propria esperienza di un nesso di causa è possibile, poiché l'esperienza – al contrario di quanto potrebbe supporre un «empirismo puro», e in linea con i risultati che abbiamo visto raggiunti da Kant12 – contiene più che meri dati amorfi e disorganizzati; e che un'intuizione del genere è condizione preliminare, almeno logicamente, rispetto all'individuazione tipicamente scientifica di cause non immediatamente evidenti tramite esperimenti riproducibili e in effetti reiterati13. In ogni caso, Wittgenstein si domandava:

Questo non è come dire: prima di riconoscere qualcosa come lungo due metri mediante la misurazione, si deve riconoscere qualcosa come lungo un metro mediante l'intuizione?14

Il che equivale a dire: il ricondurre un dato sperimentale a una forma non presuppone la forma stessa col valore di regola? Per poter effettuare un'osservazione empirica significativa non è necessario disporre già delle strutture logiche che la rendono, appunto, significativa?

E tali strutture logiche, tali regole formali, non sono il risultato di un'intuizione, se ciò si intende nel semplice senso che in esse sta uno dei fondamenti infondati del nostro gioco linguistico? L'intuitività della consapevolezza di certi nessi causali può essere intesa e qualificata come il carattere formale del nostro «cercare con lo sguardo una causa». Se nel collegare un colpo ricevuto a un dolore provato parliamo di «consapevolezza intuitiva» del rapporto di causazione che intercorre tra il primo e il secondo, lo facciamo a buon diritto: «C'è qui un'esperienza genuina che si può chiamare “esperienza della causa”». Ma l'intuitività di quest'esperienza non è, per così dire, a posteriori, come se la marca di un'illuminazione tale da escludere ogni possibile errore venisse ad aggiungersi al contenuto esperito: risiede, al contrario, nella forma del nostro gioco linguistico di causa ed effetto, che in quanto tale, ma solo in quanto tale, potrebbe essere detta a priori (non, cioè, per il fatto di precedere logicamente o cronologicamente il nostro gioco linguistico stesso, ma per il fatto di renderlo possibile in quanto sua struttura e di non poter essere spiegata senza essere presupposta).

Certamente, c'è qui un'esperienza genuina che si può chiamare “esperienza della causa”. Ma non perché essa ci mostri infallibilmente la causa, ma perché qui, nel nostro cercare con lo sguardo una causa, sta una radice del nostro gioco linguistico di causa ed effetto15.

La stesso fatto di affermare di avere una «consapevolezza immediata della causa» non è che un modo fuorviante di dire «questo è ciò che chiamo “causa” in un tal caso»16. Con ciò la nozione di intuizione perde il suo possibile aspetto misticheggiante o ispirato e, opportunamente, si riduce a un meccanismo logico che ha a che fare con l'infondatezza delle regole di ogni gioco linguistico (e della loro applicazione) e con il loro ruolo nel costituire l'esperienza come filosoficamente significativa, ovvero schematica.

Questo ci riconduce alle osservazioni già condotte sulla legittimità e solidità di questi gesti linguistici e dei giochi linguistici, dal carattere sistematico, all'interno dei quali si producono:

Il gioco di «cercare la causa» consiste prima di tutto e fondamentalmente in una certa prassi, in un certo metodo17.

E la proposizione logica (cioè la forma normativa, intesa in quanto contrapposta alla proposizione empirica, che con le adeguate cautele siamo pervenuti ad associare a un certo modo di intendere l'intuizione)

non è indubitabile perché si fonda così saldamente su qualcosa ma perché il suo fondarsi su qualcosa non è in questione18.

Il dubbio è certamente possibile e legittimo, ma solo fintantoché non arriva a negare le strutture stesse che lo rendono formulabile.

In ciò c'è pure qualcosa che possiamo chiamare dubbio o incertezza, ma questo è un tratto di second'ordine. Così come è caratteristico del funzionamento di una macchina da cucire che le sue parti si logorino e si pieghino e i suoi assi possano traballare nei cuscinetti, eppure questa è una caratteristica di second'ordine rispetto al suo normale modo di procedere19.

Una macchina20 si presta a essere considerata come simbolo del suo funzionamento, come se essa potesse muoversi e in effetti si muovesse solo secondo quanto è predeterminato necessariamente dal suo meccanismo, come immagine del suo modo ideale di fare ciò per cui è stata progettata; questa visione trascura la possibilità che le parti di cui la macchina si compone possano logorarsi, rompersi o fondere, ed è evidentemente diversa da quella che si adotta quando si vuole descrivere o prevedere il comportamento reale della macchina, anche in sede di progetto. La prima prospettiva, quella della macchina come simbolo, sta alla seconda, quella della macchina effettiva, come la struttura logica sta alla descrizione empirica. Il fatto che all'osservazione sperimentale certi eventi possano essere qualificati come rotture o malfunzionamenti dipende dalla disponibilità di uno schema logico di riferimento; il quale tuttavia si dà solo come struttura formale delle osservazioni empiriche possibili in quanto sono significative.

Un ultimo argomento che vorrei toccare è la questione dell'induzione nel suo legame con quella della causalità. Il rapporto, piuttosto stretto, tra l'una e l'altra dovrebbe essere già almeno in parte emerso da quanto si diceva nel capitolo su Hume, ma è un tema che merita ora di essere ripreso in vista di ulteriori sviluppi. Il punto è il seguente. La profonda problematicità del nesso tra causa ed effetto sta nella necessità che si vorrebbe poter attribuire a una simile connessione; infatti gli altri tratti caratterizzanti della causalità (quali, per seguire Hume, contiguità spaziotemporale, successione cronologica, connessione costante) sono reperibili nell'esperienza; e così quest'ultima legittima a dire, in certi casi, che poiché si è verificata una circostanza se ne è verificata anche un'altra. Il problema è insomma passare dall'universalità (nell'esperito) alla necessità (nell'esperibile), visto che i dati disponibili in un momento qualsiasi non sembrano autorizzare mai il dire che una circostanza si verificherà perché se ne è verificata un'altra.

Ciò che è veramente problematico nella causalità non è il collegare due oggetti apparentemente distinti ed estranei uno all'altro, poiché su un collegamento del genere la percezione stessa lascia pochi dubbi; bensì l'attribuire un carattere di necessità, la forma di una legge inderogabile, a tale connessione, poiché in ciò che empiricamente si mette a nostra disposizione non sembra, almeno a prima vista, trovarsi la legittimazione di alcuna pretesa necessità.

Posto nei termini del problema di giustificare l'inferenza di leggi laddove il riscontro sensibile non dà alcuna garanzia di uniformità né, tanto meno, di necessaria conformità a se stesso del comportamento dei fenomeni, il problema della causalità diventa un caso particolare del problema dell'induzione.

Per quanto riguarda la questione del nesso di causa ed effetto, la soluzione wittgensteiniana che si è esaminata legittimava l'attribuzione di un valore necessario alle relazioni di causalità riconducendo tale necessità alle regole strutturali, infondate ma fondanti, dei nostri giochi linguistici: non al lato percettivo dell'esperienza, ma al suo lato logico è dovuto il suo carattere strutturato e la sua rispondenza a leggi necessarie come quelle di cui il principio di causalità è un esempio. (In ciò, si noti, i due lati sono parti costitutive di ogni esperienza significativa tanto inseparabili l'una dall'altra quanto le due facce di uno stesso foglio di carta.)

Il problema dell'induzione è più generale di quello della causalità, ma gli assomiglia formalmente; la sua soluzione può quindi risultare da una generalizzazione della soluzione al problema della causalità.

Per impostare la questione si può rifarsi a un'osservazione proposta da Wittgenstein in Della certezza:

Immagina che lo scolaro chieda davvero: «E il tavolo continua a esserci anche quando mi volto, e anche quando nessuno lo vede?» Qui l'insegnante deve tranquillizzarlo e dire: «Ma certo che c'è!»?

Forse il maestro perderà un pochettino la pazienza, ma penserà che lo scolaro perderà l'abitudine di fare certe domande.


Cioè, l'insegnante sentirà che, propriamente, questa non è una domanda legittima.

E sarebbe lo stesso se lo scolaro mettesse in dubbio la conformità a leggi della natura, e dunque la fondatezza delle inferenze induttive. – L'insegnante avrebbe la sensazione che questo non faccia altro che ostacolare lui stesso e lo scolaro, che in questo modo lo scolaro s'incepperebbe nel proprio apprendimento, e non progredirebbe. E avrebbe ragione. – Sarebbe come se qualcuno dovesse cercare un oggetto nella sua stanza: apre un cassetto e vede che lì non c'è; lo richiude di nuovo, aspetta e poi lo riapre di nuovo, per vedere se per caso non ci sia, e va avanti così. Non ha ancora imparato a cercare. E così, quello scolaro non ha ancora imparato a porre domande. Non ha ancora imparato il giuoco, che noi vogliamo insegnargli21.

Che gli oggetti permangano, a meno dell'intervento di altri fattori, anche quando non sono al centro dell'osservazione diretta di qualcuno è un assunto che logicamente può essere fatto dipendere dal principio di uniformità della natura, che a sua volta è equivalente a quel principio di conformità a leggi della natura grazie al quale è possibile rendere conto anche del mutamento degli oggetti oltreché della loro continuità. Infatti questi due princìpi possono essere entrambi riassunti da una singola espressione in termini simili ai seguenti: il futuro è del tutto simile al passato per quanto riguarda le forme generali del comportamento degli oggetti e dunque, ad esempio, come nel passato sarebbe stata necessaria una ben precisa causa per interrompere o modificare lo stato di esistenza di qualcosa, così nel futuro nulla turberà la stabilità di alcun ente senza che una certa causa interferisca.

Ma ciò non è che una semplice riformulazione del principio di induzione, poiché non implica altro se non che la validità di ciò che si dà nel particolare può essere estesa anche al generale, cioè che il mutamento degli oggetti risponde a forme costanti, sempre simili a se stesse tanto nel passato quanto nel futuro. Ma questo, ancora, da un punto di vista logico è come dire che in ogni molteplicità è possibile rintracciare un'unità e che ogni unità può essere vista come parte di una molteplicità; poiché ogni molteplicità è la molteplicità relativa di unità relative, e simmetricamente ogni unità è l'unità relativa di una molteplicità relativa; e il mutamento è sempre mutamento in una continuità, la continuità è sempre continuità di un dinamismo. E questo, infine, è semplicemente il linguaggio: in cui non esistono che i nomi comuni, poiché sono escluse sia le assolute molteplicità (che metterebbero capo a un'esperienza di tipo eracliteo, in cui è impossibile chiamare con lo stesso nome due cavalli diversi o lo stesso cavallo in due momenti diversi) sia le assolute unità (che genererebbero problemi di eco plotiniana quando si trattasse di render conto della loro relazione alla multiformità e dinamicità del mondo)22.

Se quindi la legittimità delle nozioni di causa ed effetto risiede nel fatto che esse sono alcune delle strutture costitutive della schematicità della nostra esperienza, cioè sono forme grammaticali del linguaggio che rende dicibile la nostra esperienza, allora la legittimità dell'induzione sta nella sua riconducibilità alla più profonda e più generale delle strutture del lògos stesso, cioè il fatto che esso consista in ultimo nella dialettica di unità e molteplicità. E la sua solidità sta nel fatto che essa non può essere dubitata, né tanto meno negata, senza uscire per ciò stesso dal campo di applicabilità del linguaggio che si vorrebbe usare.

«Chi non dubita sta semplicemente trascurando la possibilità che le cose possano stare diversamente!» Assolutamente no – se questa possibilità non si dà affatto nel suo linguaggio23.

Ancora una volta, la questione può essere avvicinata anche dal lato critico, in tono dubitativo. Che succederebbe se l'uniformità e, per così dire, docilità dell'esperienza venisse meno?

Che dire se accadesse qualcosa di davvero inaudito? se, per esempio, vedessi come le case si tramutano gradatamente in vapore, senza nessuna causa palese; se gli animali sui prati stessero sulla testa, ridessero e dicessero parole comprensibili; se gli alberi si tramutassero gradatamente in uomini, e gli uomini in alberi24.

Che accadrebbe insomma se la conformità generale a leggi della natura cedesse il passo alla totale anarchia? «Sarebbe impensabile che io rimanga in sella, anche quando i dati di fatto recalcitrano tanto?»25 La risposta è la stessa che si è data nel tentar di risolvere la questione della legittimità dell'induzione: il mutamento è implicato nel linguaggio che struttura l'esperienza tanto profondamente quanto la permanenza; che il modo di parlare evolva in certi punti è tanto necessario quanto che esso rimanga fermo in altri, anche se il rapporto tra ciò che fa da perno e ciò che viene mosso può, a sua volta, sempre evolvere, purché gradualmente; che accadano cose imprevedibili è prevedibile. Il cambiamento, il tradimento da parte dell'esperienza delle nostre aspettative, per essere anche solo concepibile deve ricadere sotto la dicibilità nei termini del nome comune, dell'uno e dei molti, e cioè insomma del lògos, come in effetti si dà il caso negli esempi di Wittgenstein (dalle case agli animali agli uomini). Dopotutto sono cambiamenti del genere e tradimenti del genere, non qualitativamente diversi da quelli che Wittgenstein citava appunto come esempi, che si verificano in corrispondenza (o un po' prima, o un po' dopo) delle rivoluzioni scientifiche. Mentre l'idea di una Weltvernichtung veramente radicale, in cui proprio tutte le uniformità e legalità andassero perdute e con esse ogni oggettualità, trasgredisce le norme stesse del linguaggio in generale. Essa costituisce uno scenario, più che inaudito, inaudibile, ipotizzare il quale è tanto insensato quanto avanzare il più radicale dei dubbi scettici (non per nulla i due gesti hanno in comune il fatto di comportare l'impossibilità di qualsiasi tipo di conoscenza). Se mai io potessi essere sbalzato dalla sella del mio linguaggio, in quel preciso istante il fatto stesso perderebbe ogni rilevanza.

Note

  1. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 11.
  2. Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., p. 89.
  3. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 14.
  4. Ivi, p. 12.
  5. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Id., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2009, § 6.53.
  6. Cfr. p.e. P. Natorp, “Kant e la scuola di Marburgo”, cit., p. 127 e segg.
  7. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 12.
  8. Ivi, p. 15.
  9. Ivi, p. 35. Cfr. ivi, pp. 9, 19, 35.
  10. Ivi, p. 22.
  11. Ivi, p. 9.
  12. Ma, sui limiti di qualunque empirismo che si pretenda «puro» (che cioè ammetta solo l'esperienza di meri dati non schematici ed escluda dal campo dell'esperibile le relazioni di congiunzione e separazione, unità e molteplicità), cfr. anche p.e. W. James, “La cosa e le sue relazioni”, in Id., a cura di S. Franzese, Saggi di empirismo radicale, Quodlibet, Macerata 2009, pp. 49-62.
  13. Il curatore dell'edizione italiana di Causa ed effetto, cit., pp. 9-10 n., rifacendosi a quanto osservato dal curatore della prima edizione originale, L. Wittgenstein, “Cause and effect: Intuitive awareness”, tr. inglese di P. Winch, a cura di R. Rhees, in Philosophia, 6 (1976), pp. 391-445, cita B. Russell, “The Limits of Empiricism”, in Proceedings of the Aristotelian Society, 36 (1935-1936), pp. 131-150.
  14. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 10.
  15. Ivi, p. 11.
  16. Ivi, p. 36.
  17. Ivi, p. 23.
  18. Ivi, p. 31.
  19. Ivi, p. 23.
  20. Cfr. anche ivi, pp. 26-27.
  21. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., §§ 314-315.
  22. Quanto alla logica dei nomi comuni, a metà strada tra Eraclito e Plotino si può opportunamente inserire Platone; e in effetti, quanto alla logica dei nomi comuni, si può dire che siamo tutti inevitabilmente platonici. Cfr. F. Trabattoni, “L'argomentazione platonica”, in Id., Attualità di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2009, pp. 13-37.
  23. L. Wittgenstein, Causa ed effetto, cit., p. 18.
  24. L. Wittgenstein, Della Certezza, cit., § 513.
  25. Ivi, § 616.