La caccia dell'Astore

Gabriello Chiabrera

XVII secolo Indice:Opere (Chiabrera).djvu Poemetti Letteratura La caccia dell’Astore Intestazione 7 settembre 2023 75% Da definire

Il secolo d'Oro Il vivaio di Boboli
Questo testo fa parte della raccolta Poemetti di Gabriello Chiabrera
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XI

LA CACCIA DELL’ASTORE

ALL’ILLUSTRISSIMO SIGNORE

IL SIG. DON VIRGINIO CESARINO.

La bellissima cetra, onde gioiva
L’onda di Dirce, e del Tebano Asopo,
Oltra ciascun diletto in pregio io tenni,
Mentre che gioventute in me fioriva;
5E di sue corde e di suoi tuoni altieri
Sì l’arte appresi, che illustrar potei
Con non vulgare onor sommi guerrieri:
Corser poi gli anni, e di vecchiezza il gelo
Vinse con tal rigor gli spirti miei,
10Che lei più maneggiar non san le dita.
Oh se in quel tempo tua mirabil luce
Era sull’orizzonte almen salita,
Di te, Virginio, che dicean miei canti
Eccitati dal merto? e come dolce
15Stato mi fora celebrar tuoi vanti?
Che ti vien manco? lo splendor del sangue?
Ma romana è la stirpe, onde discendi:
Forse tesor? ma di tributi abbondi:
Forse beltà? ma come un Sol risplendi:
20Caro alle Muse; e dell’argivo Ilisso
Guadi i gorghi più cupi e più profondi
Possente a passeggiar l’ampio Liceo.
Ove trascorro? Ah che mi sforzo in vano:
I gran titoli tuoi Ciampoli dica
25Oggi Pindaro novo, e novo Alceo.
Ei potrà sostener l’alta fatica,
Che annidarsi in Castalia ha per costume:
lo trastullando il tuo pensier vo’ dirti,
Come predando per gli aerei campi
30Il ghermitor astor spiega le piume.
Quando vibrando l’ôr de i chiari lampi,
Con via più breve corso, il ciel rinchiude
Il nostro giorno in grembo a Teti, e spira
Omai per l’aria di Boote il fiato,
35Escasi fuor col predatore augello
Sul nobil pugno, trascorrendo il prato,
E dove di cristal move ruscello,
O dove in lieto piano acqua ristagna,
Nè men su falda di selvaggio monte
40S’affretti il passo, e ricercando preda
Non si lasci quetare altra campagna,
Un sì fatto diletto a te concede
Febo, da che movendo il carro aurato,
Si lascia addietro lo Scorpion celeste,
45Ed il Centauro ad illustrar sen riede.
Tu, se per addolcir cure moleste,
E perchè il volator provar sen deggia,
La mano allarghi, il mirerai veloce,
Quasi strale avventarsele sul tergo,
50Come la scorge, e strangolar l’acceggia,
Nè meno il mirerai da presso un lago,
Ove pinta anitrella elegge albergo:
Costei pasciuta in sulla riva aprica
Vaga di mareggiare in limpide onde
55Vi s’attuffa scherzando, ed or le penne
Ne bagna, ed or la testa entro v’asconde:
Talor de’ larghi piè facendo remi
Solca del pelaghetto intorno ai lidi,
E gorgheggiando, dal contorto collo
60Fa per l’aria volar festosi gridi;
Ma sul goder delle piacevoli ore
Sotto l’artiglio del feroce augello,
Ed al ferir del curvo becco piagne
La miserella i suoi sinistri, e muore.
65Che dirassi de’ gru, che le campagne
Varcan dell’aria, ed han cotanto ingegno,
Che per la lunga via san squadronarsi?
Col piè stringono pietre, e si fan gravi
Incontro al soffio d’Aquilone, e pure
70Dall’inimico astor non san salvarsi,
S’unqua gli assale. Ma quantunque miri
Il gru sì vago, e variato l’ale
Di più color, non ti curar su mensa
Di volerne acquetare i tuoi desiri;
75Vile esca popolar; ma se ti cale
Con nobil cibo celebrar tue cene
In lieti giorni, ed onorando amici,
Spiega l’insegna, e movi guerra a starne,
E fa di dar battaglia a coturnici:
80Di qui potran vantarsi i tuoi conviti
D’offerire ad altrui care vivande,
Quando il secolo nostro omai condanna
La stagion di Saturno, e stan sepolte
In lungo obblío le celebrate ghiande:
85Se poscia a Dame altere, allor che regna
Dolce Imeneo fra le canore danze
Sei bramoso apprestar pasto sovrano,
Tralascia infra gli eserciti volanti
Ogni rapina, e trascorrendo i campi
90Con intenso piacer preda il fagiano.
Afflittissimo lui, che altrui pascendo
Sempre è famoso. Era costui figliuolo
Di Tereo, e Tereo era Signor de i Traci,
E Progne ebbe a consorte: ella era prole
95Di Pandïon, già regnator d’Atene.
Vissero un tempo in riposata sorte
Appien felici in sulla terra, e poscia
Svegliossi Amor, fabbricator di pene,
E gli coperse d’infinita angoscia:
100Lunga è l’istoria: io trascorrendo il colmo
Sol delle cose ne farò memoria.

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Filomena di Progne era sorella,
E fu, che di Tereo data alla fede,
Ei le tolse l’onor d’ogni donzella
105A viva forza, e perchè l’empio oltraggio
Non potesse ad altrui far manifesto,
Le divelse la lingua e la favella,
Fatto sordo a’ suoi pianti, e la nascose
Tra chiusi boschi in solitaria cella.
110Ma cor perverso si difende indarno,
Che il Ciel punisce al fin l’opre odiose:
Quinci la muta vergine dipinse
In su candido lin con varie sete
La sua tragedia, e fe’ vederla a Progne.
115Progne rapidamente a lei sen venne:
Ma chi può dir quanto dolor la vinse
Per quella vista? E qual martir sostenne?
Sparse fiumi di pianto, e co’ sospiri
Riscaldò l’aria, e si stracciò la chioma,
120E duramente si percosse il petto:
Indi raccolto in cor gli amor traditi,
E la fè rotta, va pensando come
Vendetta far del marital suo letto.
Infurïata dà di piglio ad Iti,
125E tutta intenta a tormentarne il padre,
La forsennata ogni memoria spense
Nell’agitato sen, ch’ella era madre:
Strascina dunque il pargoletto, e mentre
Ch’ei le fa vezzi, e che ver lei sorride,
130D’esecrato coltello arma la destra,
E le tenere membra ella recide.
Progne, che fai? dove è l’amor materno?
Con esso te perde il poter Natura?
Deh che dico io? sua ferità non placa
135Femmina, che in amor sia presa a scherno,
Ma più che tigre, e più che scoglio è dura:
Poco fu di sbranarlo; il capo tronca,
E coce il busto, e su piacevol mensa
Ne sazia il padre: abbominevol caso,
140E tra’ mortali a ricordarsi indegno!
Se non, che per ischerzo il ricoperse
Di sue vaghezze, e l’adombrò Parnaso.
Cantasi collassù, che fier disdegno
L’infame Tereo in upupa converse,
145E Filomena rusignuol divenne.
Che sì dolce lagnarsi ha per costume.
Ma Progne trasformossi in rondinella,
Ed Iti di fagian vestì le piume:
Nobile augel, che la dorata coda,
150E di negro color le spalle e l’ali
Sen vola punteggiato, e s’altrui pasce,
Di singolar diletto empie il palato.
Or chi dell’uccellar dato a’ piaceri
Governa astore, ei di fallace speme
155Veracemente non ingombra il seno;
Ma senza pena di goder non speri.
Primieramente il non ci dà natura
Ubbidïente al nostro impero; è forza
Ben avvezzarlo del predare all’arte;
160E quando poscia con nojosa cura
Fatto è maestro, sua gentil persona
Da varie infermità non è sicura:
Ardelo febbre nelle vene, e rende
I forti vanni a trasvolare infermi;
165Asma l’assale; e giù per entro il corpo
Ei suole generar tosco di vermi.
Talora in testa gli si aduna umore,
Che gli serra le nari; e finalmente
Tormentarlo vedrai fiamma d’amore.
170Allor, fatto selvaggio, odia le prede,
E, smaniando per l’interno affanno,
Prenderebbe a fuggir dal suo Signore.
E non ei sol; ma quanti in aria, e quanti
Stan sulla terra, e d’Oceán nel fondo
175In foco tutti, ed in furor sen vanno
Alcuna volta, e fan vedersi amanti.
Allor più che giammai spande ruggiti
Indo leone; e per le piagge Armene
Fa strage orrida tigre, e gonfia il collo
180Di più crudi veneni aspro serpente.
Nè più per altro tempo alzan muggiti
I tori altier; pascolerà talora
Un rugiadoso pian bella giovenca:
Ella con atti vaghi, e con sembianti
185In lor cresce il desir che gl’innamora;
Ed essi infelloniti il corno orrendo
Vibransi incontro con geloso assalto,
Sicché di caldo sangue i fianchi inonda
L’atra battaglia, ed un rimbombo immenso
190Da’ folti boschi se ne vola in alto.
Non veggiam noi, che spuma oltra misura,
E scalpita col piè l’ermo sentiero
Il fier cinghiale? e che a robusta quercia
Frega le rozze coste, e i denti indura?
195Ma che dirò del corridor destriero?
Solo che odor della giumenta rechi
L’aure bramate, ei di sè stesso in bando
Luogo non trova: indarno onda e torrente
Gli traversano strada; alpe e foresta
200Non è suoi corsi ad arrestar possente:
Tanto è possente Amor, che lo molesta.