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232 | poesie |
Filomena di Progne era sorella,
E fu, che di Tereo data alla fede,
Ei le tolse l’onor d’ogni donzella
105A viva forza, e perchè l’empio oltraggio
Non potesse ad altrui far manifesto,
Le divelse la lingua e la favella,
Fatto sordo a’ suoi pianti, e la nascose
Tra chiusi boschi in solitaria cella.
110Ma cor perverso si difende indarno,
Che il Ciel punisce al fin l’opre odiose:
Quinci la muta vergine dipinse
In su candido lin con varie sete
La sua tragedia, e fe’ vederla a Progne.
115Progne rapidamente a lei sen venne:
Ma chi può dir quanto dolor la vinse
Per quella vista? E qual martir sostenne?
Sparse fiumi di pianto, e co’ sospiri
Riscaldò l’aria, e si stracciò la chioma,
120E duramente si percosse il petto:
Indi raccolto in cor gli amor traditi,
E la fè rotta, va pensando come
Vendetta far del marital suo letto.
Infurïata dà di piglio ad Iti,
125E tutta intenta a tormentarne il padre,
La forsennata ogni memoria spense
Nell’agitato sen, ch’ella era madre:
Strascina dunque il pargoletto, e mentre
Ch’ei le fa vezzi, e che ver lei sorride,
130D’esecrato coltello arma la destra,
E le tenere membra ella recide.
Progne, che fai? dove è l’amor materno?
Con esso te perde il poter Natura?
Deh che dico io? sua ferità non placa
135Femmina, che in amor sia presa a scherno,
Ma più che tigre, e più che scoglio è dura:
Poco fu di sbranarlo; il capo tronca,
E coce il busto, e su piacevol mensa
Ne sazia il padre: abbominevol caso,
140E tra’ mortali a ricordarsi indegno!
Se non, che per ischerzo il ricoperse
Di sue vaghezze, e l’adombrò Parnaso.
Cantasi collassù, che fier disdegno
L’infame Tereo in upupa converse,
145E Filomena rusignuol divenne.
Che sì dolce lagnarsi ha per costume.
Ma Progne trasformossi in rondinella,
Ed Iti di fagian vestì le piume:
Nobile augel, che la dorata coda,
150E di negro color le spalle e l’ali
Sen vola punteggiato, e s’altrui pasce,
Di singolar diletto empie il palato.
Or chi dell’uccellar dato a’ piaceri
Governa astore, ei di fallace speme
155Veracemente non ingombra il seno;
Ma senza pena di goder non speri.
Primieramente il non ci dà natura
Ubbidïente al nostro impero; è forza
Ben avvezzarlo del predare all’arte;
160E quando poscia con nojosa cura
Fatto è maestro, sua gentil persona
Da varie infermità non è sicura:
Ardelo febbre nelle vene, e rende
I forti vanni a trasvolare infermi;
165Asma l’assale; e giù per entro il corpo
Ei suole generar tosco di vermi.
Talora in testa gli si aduna umore,
Che gli serra le nari; e finalmente
Tormentarlo vedrai fiamma d’amore.
170Allor, fatto selvaggio, odia le prede,
E, smaniando per l’interno affanno,
Prenderebbe a fuggir dal suo Signore.
E non ei sol; ma quanti in aria, e quanti
Stan sulla terra, e d’Oceán nel fondo
175In foco tutti, ed in furor sen vanno
Alcuna volta, e fan vedersi amanti.
Allor più che giammai spande ruggiti
Indo leone; e per le piagge Armene
Fa strage orrida tigre, e gonfia il collo
180Di più crudi veneni aspro serpente.
Nè più per altro tempo alzan muggiti
I tori altier; pascolerà talora
Un rugiadoso pian bella giovenca:
Ella con atti vaghi, e con sembianti
185In lor cresce il desir che gl’innamora;
Ed essi infelloniti il corno orrendo
Vibransi incontro con geloso assalto,
Sicché di caldo sangue i fianchi inonda
L’atra battaglia, ed un rimbombo immenso
190Da’ folti boschi se ne vola in alto.
Non veggiam noi, che spuma oltra misura,
E scalpita col piè l’ermo sentiero
Il fier cinghiale? e che a robusta quercia
Frega le rozze coste, e i denti indura?
195Ma che dirò del corridor destriero?
Solo che odor della giumenta rechi
L’aure bramate, ei di sè stesso in bando
Luogo non trova: indarno onda e torrente
Gli traversano strada; alpe e foresta
200Non è suoi corsi ad arrestar possente:
Tanto è possente Amor, che lo molesta.
XII
IL VIVAIO DI BOBOLI
AL SIGNOR GIOVANNI CIAMPOLI
Oggi segretario di nostro signore Urbano VIII.
Ciampoli, se giammai dai sette Colli,
A tue chiare virtù degno teatro,
Riedi sull’Arno, e tra’ gentil diletti
Cerchi conforto, o di leggiadro ingegno,
5Vuoi pigliar meraviglia, odi i miei detti:
Entra nei Pitti, incomparabil mole,
Varca sue regie selve, e volgi il tergo
Al freddo Borea, e colà drizza i guardi,
Ove tiene Austro nubiloso albergo.
10Qui mirerai sentier, che sotto il piede
Ti farà germogliar fresca verdura;
E pure a destra ed a sinistra alzarsi
E rami e frondi mirerai, per mano
D’ingegnosa Napea conteste mura:
15Corsa la bella via, fassi davanti
Al ciglio peregrin non picciol piano,
Ben ricco d’erbe; e se del Tauro illustra
Lampa di Febo le stellate corna,
Il vestono di fior mille colori.
20Quivi s’ergono al ciel boschi selvaggi
Con gentil ombra a rinfrescar possenti
Del Can celeste i paventati ardori;
E qui va trascorrendo aura serena