Favole (La Fontaine)/Libro sesto/XXI - La Vedovella
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Non si perde un marito senza pianto
e senza grande schianto di sospiri.
Ma dopo alcuni giri
di sol, col tempo la tristezza vola
e ancor la vedovella si consola.
Dopo un anno la vedova di ieri
non ha di triste che i vestiti neri,
e se prima facea fuggir la gente
col volto sconsolato,
dopo attira più d’uno innamorato.
Il morto giace e il vivo si dà pace, e per quanto si dica che vi sia dolor senza conforto, la credo una bugia. Aver di ciò potrai prova sincera in questa favoletta che par vera.
A giovin sposa e bella rapito era il marito dalla morte. Accanto al letto la fedel consorte, sentendosi mancare ogni coraggio, gridava: - Aspetta che ti seguo anch’io... Con te voglio morir, tesoro mio... -. Ma il marito fe’ solo il gran vïaggio.
Il padre, uomo prudente, lasciò del pianto scorrere il torrente, poi disse: - O figlia, il pianto ora che giova? Che importa al morto se tu affoghi il lume de’ begli occhi di pianto in un gran fiume, mentre vi son dei vivi a questo mondo, che potrebbero ancor, non dico subito, ma in tempo più giocondo cambiar la sorte? Anzi conosco un tale, bel giovine, ben fatto, assai migliore del fu tuo sposo... - Oh ciel! Oh quale orrore! - interruppe la bella. - In un convento chiudetemi ove possa le mie pene raddolcire e dell’animo il tormento -. Tacque il buon padre e vede che conviene lasciar che digerisca il suo dolore.
Dopo un mese di pianti e di afflizione, essa prende a mutar qualche gingillo, o un nastro od uno spillo al capo, al petto, infin che il suo dolore in attesa di nuovi cicisbei divenne una galante occupazione.
A piccionaia tornano gli amori, risa e sollazzi e danze, a poco a poco, tornano ancora in gioco: di Giovinezza nella lieta fonte si tuffa e terge ogni mattin la fronte. Vedendola di sé tanto sicura, del morto il padre non ha più paura.
Un dì, mentr’ei tacea dell’argomento, - E dunque? - ella esclamò, - dov’è, se mi è permesso, quel bel marito che tu m’hai promesso?
Epilogo
Poniam all’opra un margine. Le cose troppo lunghe finiscono in serpenti. Più che la penna consumar sul tema, è bello il fiore cogliere dell’arte. Mi si conceda adunque un piccol fiato sì ch’io possa accudir ad altre imprese, ove mi chiama Amor, che di mia vita è gentile tiranno. Altri mi chiama a cantar la dolcissima di Psiche e mestissima storia e vi consento, sperando che nel suo fuoco divino a novi canti l’animo s’infiammi. Felice ancor mi chiamerò, se questa fia l’estrema fatica, a cui soggetto mi tien di Psiche il prediletto sposo.