La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte seconda/4. Il naufragio della Fraya

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Capitolo IV

Il naufragio della «Fraya»


Mentre la Stella Polare continuava la sua corsa verso il nord, sfondando, di quando in quando, qualche fila di hummoks, che si trovavano attraverso la sua prora, Torgrinsen, il secondo macchinista ed il velaio, ai quali si era anche unito il carpentiere, avevano abbordato Andresen, che dal castello di prora osservava il mare.

– È qui è vero che questa famosa Fraya è colata a picco? – chiese il secondo macchinista.

– No, più al nord, – rispose il giovane nostromo, ridendo.

– Più al nord o più al sud, questa volta ci narrerai la storia. L’ora del pranzo è ancora lontana e pel momento la Stella Polare non ha bisogno di te, – disse il velaio di Laurvik.

– Tanto v’interessa?

– Sfido io!... Pensa che forse egual sorte può toccare anche a noi. –

Andresen caricò diligentemente la pipa, diede un altro sguardo alla velatura, poi soddisfatto da quell’esame, si sedette sulla murata, a cavalcioni dell’estremità del bompresso, dicendo:

– Allora uditemi. [p. 177 modifica]Querini, Ollier e Stökken sorpresi dall'uragano. [p. 179 modifica]

– Storia vera? – interruppe Torgrinsen, ammiccando gli occhi.

– Tutti i giornali della Norvegia e della Russia l’hanno riportata e un mio carissimo amico si trovava a bordo di quel legno.

– Come si chiamava?

– Otto Olsen, uno degli eroi di quel disgraziato equipaggio. Anche S. A. R. il duca, che conosce tutte le storie polari, sono certo conosce la storia della Fraya.

– Udiamo!... Udiamo!... – esclamarono parecchi marinai che avevano fatto circolo attorno al nostromo.

– Il naufragio che sto per narrarvi, è avvenuto nel 1872, a non molte miglia da qui.

La Fraya era una bella e solida nave da pesca, destinata alla caccia delle foche, delle morse e degli orsi bianchi, ed era comandata dal capitano Tobiesen, un nostro compatriotta, vero marinaio, che aveva già fatto numerosi viaggi in questi paraggi.

Partita verso la fine di maggio, aveva raggiunte felicemente le coste settentrionali della Nuova Zembla raccogliendo molte foche e molti trichechi, mammiferi che erano ancora numerosi in quell’epoca.

Già ben carica di olio e di pelli, si disponeva a tornarsene in Norvegia, quando un brutto giorno si trova circondata dai ghiacci. Aveva banchi dinanzi, montagne di ghiaccio a babordo ed a tribordo e la costa a poppa.

Tutti gli sforzi tentati dall’equipaggio riescono vani e la povera nave viene bloccata strettamente da tutte le parti e trascinata verso la costa.

Come voi saprete, ordinariamente le navi da pesca non fanno grandi provviste, tornando in patria al principio dei primi freddi.

Il capitano Tobiesen aveva fatto, per sua disgrazia, altrettanto, sicchè quando si fece l’inventario dei viveri che erano ancora a bordo, si constatò che erano appena sufficienti per nutrire quattro uomini per tutta la durata dell’inverno.

La situazione era terribile, poichè le coste della Nuova Zembla non potevano offrire che meschine risorse durante i freddi intensi della stagione invernale.

Sulla Fraya vi erano undici persone, fra le quali il figlio del [p. 180 modifica]capitano. La morte dunque si presentava certa, non avendo che così poche provviste.

Fu allora che il mio amico Olsen ed Enric Nielsen, due bravi marinai, si fecero innanzi dichiarando che non avrebbero mai acconsentito a privare il capitano e suo figlio dei pochi viveri che restavano a bordo e che avevano deciso di imbarcarsi su una scialuppa e di andare alla ventura.

Gli altri, incoraggiati da quel nobile esempio, vollero condividere le peripezie a cui andavano incontro quei due bravi e risolsero di lasciare la nave per andare a cercare aiuto fra i samoiedi.

Il luogotenente ed il cuoco rimasero col capitano, gli altri sette s’imbarcarono su una piccola scialuppa attrezzata a cutter, munita di traverse per poterla far scivolare sui ghiacci, presero pochi viveri e partirono seguendo le spiagge della Nuova Zembla.

Oltre le poche provvigioni avevano preso anche due fucili con non molte cariche, un’ascia, una marmitta, un cannocchiale e una bussola.

Avevano da percorrere la bagattella di trecento e più leghe, prima di toccare le coste russe e non avevano che quattordici biscotti, un po’ di melazzo, del the e poca carne d’orso bianco gelata.

Pure partono fidenti nella loro buona stella, attraversano i banchi di ghiaccio, e trovato il mare libero gettano in acqua la loro scialuppa.

Due giorni dopo quei disgraziati sono alle prese con la fame, ma non si arrestano. Erano entrati in un canale aperto fra la costa ed i banchi di ghiaccio, un canale che pareva non dovesse finire mai e dove non si vedevano nè foche, nè trichechi, nè orsi bianchi. Perfino gli uccelli mancavano.

Già si credevano votati alla più atroce fine, quando il marinaio Nielsen che interrogava l’orizzonte col cannocchiale, riuscì a scoprire un orso bianco.

L’animale stava sdraiato su d’un banco di ghiaccio, presso un crepaccio e spiava la comparsa di qualche foca.

Nielsen e Olsen sbarcano raccomandando ai compagni di non lasciare la scialuppa e s’avanzano fra i ghiacci per sorprendere quella preda che per loro rappresentava la salvezza. [p. 181 modifica]

Strisciano in silenzio, nascondendosi dietro gli hummoks, dietro i massi di ghiaccio, superando crepacci in fondo ai quali mugge l’acqua marina, e riescono a raggiungerlo proprio nel momento in cui l’astuto animale afferrava la foca che spiava da parecchie ore, soffocandola fra le villose zampacce.

I due cacciatori non perdono tempo; mirano con la coscienza di uomini affamati e uccidono, con due palle bene aggiustate, quel re dei mari polari.

Quelle prede ebbero un risultato doppiamente fortunato; da una parte procurarono ai naufraghi un nutrimento sostanzioso, senza il quale sarebbero certamente periti di fame, dall’altra rivelarono loro un mezzo di caccia che potevano utilizzare, spiando, come aveva fatto l’orso, l’uscita delle foche dai loro buchi.

I marinai, dopo quella fortunata cattura, riprendevano la navigazione con un tempo burrascosissimo ed un vento così violento che sollevava turbini di neve dai banchi di ghiaccio.

Sfidando parecchie tempeste e marciando sovente lungo le coste per salvare la loro scialuppa, s’avanzano verso il sud senza saper esattamente dove vanno e senza nemmeno poter apprezzare in modo preciso il tempo, giacché non avevano alcun calendario.

Dopo alcune settimane essi si trovavano ancora alle prese con la fame. Non avevano più ucciso alcun animale e non avevano nemmeno incontrato un volatile su quelle coste desolate.

Quando Dio volle, riescono finalmente a toccare le rive meridionali della seconda isola.

Uno di loro scorge due ammassi di neve che rassomigliano vagamente a delle capanne. Approdano, mettono in salvo il battello per impedire ai ghiacci di stritolarlo, si trascinano fra le nevi ed i ghiacci e riescono a scoprire infatti due capanne, ma erano vuote e deserte.

Più tardi seppero che erano state costruite da due russi recatisi colà a cacciare durante l’estate.

Impotenti a tirare innanzi, sia pel freddo intenso, sia per la fame, che li aveva estremamente indeboliti, risolvono di fermarsi per dar tempo ai più ammalati di rimettersi in forze.

Olsen e Nielsen, che erano i migliori cacciatori, battono intanto i dintorni per cercare della selvaggina e sono così fortunati da [p. 182 modifica]uccidere prima una foca, poi due volpi azzurre e più tardi quattro renne.

Questi ultimi animali appartenevano ai due russi che avevano passato colà la buona stagione. Quelle povere bestie, vedendo degli esseri umani, credettero che fossero i loro padroni e si accostarono alle capanne senza diffidenza, permettendo così ai marinai di ucciderle facilmente.

Per alcune settimane l’abbondanza regnò nel campo, poi i viveri tornarono a mancare. Non trovando altra selvaggina, i sette marinai stabiliscono di spingersi più al sud.

Lasciano la scialuppa diventata ormai inutile, s’impadroniscono di una piccola slitta abbandonata dai russi, attraversano lo stretto di Kara, allora gelato, e passano sull’isola di Vaigatz.

Questa seconda parte del viaggio fu ancora più penosa della prima, giacchè quei disgraziati, torturati dal freddo e dalla fame, si trovarono continuamente avvolti fra uragani di neve così violenti da impedire la marcia.

Un giorno Olsen e Nielsen, partiti per la caccia, si smarriscono fra quei deserti di neve. Cercano di raggiungere i compagni ed invece se ne allontanano sempre più.

Disgraziatamente i loro cinque compagni, convinti che i due cacciatori fossero periti, dopo aver tenuto un breve consiglio, avevano deciso di continuare la marcia. Di qui l’impossibilità di poterli trovare.

Olsen e Nielsen, quantunque sfiniti, non si perdono d’animo. Deliberano di far ritorno alle due capanne dei russi e attendervi colà la buona stagione.

Per quattro giorni marciano in mezzo ai turbini di neve, vivendo con una libbra di carne, poi Olsen cade sfinito al suolo.

Il suo compagno che non se ne è accorto, si trascina sempre più innanzi finchè arriva alle capanne. Accende il fuoco, arrostisce l’ultimo boccone di carne che gli rimane, poi cade svenuto presso la fiamma.

Intanto Olsen, dopo lunghi sforzi, era riuscito, a sollevarsi. Mastica la pelle di foca che gli serve da coperta e che era ancora sanguinolenta, poi si trascina a sua volta verso le capanne, ma le forze lo [p. 183 modifica]tradiscono un’altra volta e va a ricoverarsi sotto la scialuppa che avevano abbandonata in quel luogo.

I due disgraziati non si risvegliarono che all’indomani. Convinti che i loro compagni fossero morti, presero possesso delle due capanne.

Il freddo era intenso e gli uragani si succedevano con una frequenza spaventosa, impedendo ai due marinai di percorrere i dintorni.

Sarebbero morti indubbiamente di fame se Olsen non avesse avuto l’idea di frugare la neve che attorniava le capanne.

Trovarono colà dei brani di carne, delle ossa e dei visceri di renna che i russi avevano gettati via e che il freddo, bene o male, aveva conservati.

Con quelle nauseanti provviste tirarono innanzi fino al giorno in cui ebbero la fortuna di uccidere una renna, ma quasi il destino avesse voluto infierire in tutti i modi contro quei disgraziati, s’accorgono di non aver nemmeno uno zolfanello per accendere il fuoco.

Fu ancora il mio amico che provvide alla salvezza d’entrambi con una felice ispirazione.

Strappa dalla barca un po’ di corda, la sfilaccia, ne fa quindi uno stoppaccio che pone su della polvere. Ecco ottenuto il fuoco che conservano gelosamente per tutto l’inverno, adoperando il legname di una delle due capanne.

Giunto finalmente l’aprile, i due marinai lasciavano per sempre la capanna che li aveva ricoverati durante la paurosa notte polare, e scendono lungo le coste meridionali della Nuova Zembla. Non avevano che tre cariche di polvere e pochissimi viveri.

Alcuni giorni dopo scoprivano alcune capanne. S’avanzano in quella direzione e cadono fra le braccia dei loro compagni che avevano pianti per morti.

– Quali? – chiese Torgrinsen.

– Quelli che avevano continuato la marcia, credendo che i due cacciatori fossero stati uccisi dall’uragano di neve, – rispose Andresen.

– Si erano dunque salvati?

– Avevano avuto questa fortuna. Come dissi, non si erano arrestati per attendere Olsen e Nielsen. [p. 184 modifica]

Quantunque non avessero armi da fuoco e fossero quasi a secco di viveri, avevano continuato a seguire le coste, ritornando verso la Nuova Zembla.

Di notte, per ripararsi dal freddo, così mi fu raccontato, erano costretti a scavarsi delle buche e cacciarsi in mezzo alla neve.

Dopo sei giorni erano rimasti senza viveri. Al settimo uno di loro cadde morto di stenti e di freddo.

Quei miseri si sentirono allora invadere dalla disperazione. Erano affamati, intirizziti dal freddo, ammalati e sfiniti.

Non pensarono nemmeno a seppellire il loro compagno. Abbandonarono la slitta che non erano più capaci di trascinare e la maggior parte dei loro oggetti e fuggirono verso il sud.

Dopo quattordici miglia cadevano tutti al suolo. Si erano già rassegnati ad attendere la morte, allorquando uno di essi, che si era un po’ allontanato, tornò presso i compagni annunciando di aver scoperto della legna e le tracce d’una slitta.

Quelle liete notizie danno un po’ di vigore a quei disgraziati. Accendono il fuoco, si riscaldano, poi due di loro partono per cercare qualche capanna.

Poco dopo essi venivano ricoverati da alcune famiglie di samoiedi che si erano stabilite su quella terra desolata.

Quelle povere genti si recarono tosto in cerca degli altri e li portarono alle proprie capanne, prodigando loro le più affettuose cure.

Quei sei marinai, così miracolosamente salvati, passarono parte della primavera fra i samoiedi, poi costruitasi una scialuppa poterono raggiungere l’isola di Vaigatz, dove poi i russi li rimpatriarono.

– E del capitano Tobiesen, cosa accadde? – domandò il carpentiere.

– Il governo norvegese, avvertito del caso disgraziato, mandò una nave a cercarlo, ma tutte le indagini riuscirono vane. La Fraya ed i suoi disgraziati marinai erano stati, probabilmente, inghiottiti dall’Oceano Polare. –


[p. 185 modifica]Carta della Terra di Francesco Giuseppe.
(Tolta dalla Carta dell'Ammiragliato inglese)