La Scimitarra di Budda/4. A bordo della giunca

4. A bordo della giunca

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4.

A BORDO DELLA GIUNCA


Il battello sul quale gli intrepidi cercatori della Scimitarra di Budda stavano per intraprendere il lungo viaggio era uno di quei legni che i cinesi chiamano giunche. Era lungo circa cinquanta piedi, snello, alto di prua e adorno di una gigantesca testa che voleva essere quella d'un leone di Corea. Al centro alzavasi una stretta tettoia di bambù che serviva di riparo ai viaggiatori, e a poppa un albero alto dodici o tredici metri, irto di banderuole variopinte, armato di una vela di giunchi intrecciati e molto grande. Il suo equipaggio era composto di sette uomini e d'una guida. Sei erano rematori o tan-kia della costa, robusti giovinotti, attivi, frugali, ma turbolenti; avevano la coda arrotolata sulla testa, e per vestito una semplice casacca aperta davanti e un paio di corti e larghi calzoni che facevano una doppia piega sul ventre.

Il settimo era un lavadu o mastro battelliere e proprietario della imbarcazione. Rispondeva al nome di Luè-Koa; era tozzo e robustissimo, con una faccia molto piatta, zigomi sporgenti, mento corto e tondo, naso piccolo e depresso in tutta la sua lunghezza e una coda che scendevagli fino alle ginocchia.

Questo lavadu aveva servito parecchie volte il Capitano, ma godeva una fama non troppo buona. Si diceva che un tempo era stato mercante di schiavi e anche pirata, però il Capitano non aveva mai avuto di che lagnarsi.

L'ottavo era invece un capo-carovana molto affezionato a Giorgio, il quale l'aveva più volte aiutato in momenti critici. Era alto appena quattro piedi e sei pollici; aveva una testaccia quadrangolare, occhi molto obliqui, ma intelligenti e due lunghi baffi cadenti all'ingiù. Era stato pin-cian-piao o cannoniere-spaccamonti, e conosceva a menadito le province meridionali del grande impero.

La giunca, sotto la spinta dei sei remi robustamente manovrati ed aiutata dal flusso che montava con furia, superato il labirinto d'isole e d'isolotti che il Si-Kiang forma alla sua foce, in meno di venti minuti guadagnò il canale dell'Honam, aprendosi con molta fatica il passo fra le numerosissime barche che scendevano o salivano la corrente, provenienti da Macao, da Boccatigris, da Canton, da Fatsciam, da Schuk-Wan e da Isin-Nam.

Si vedevano sfilare centinaia di sampan, le cui forme rammentavano quelle d'una pantofola, montati da svelte barcaiole vestite con larghe kabaye e calzoncini di cotone azzurro; bellissimi kwo-ch'an-t'ow dalla prua sporgente e aguzza, straccarichi di mercanzie e guidati da turbolenti barcaioli; eleganti t'z'et'ung-ting con vetrate e dorature, nei quali sonnecchiavano mandarini o ricchi borghesi; dei lunghi e svelti ch'ating pieni di riso; grandi tu chwan, veri omnibus galleggianti, zeppi di viaggiatori e non pochi k' waiting, somiglianti alle gondole veneziane, montati da poliziotti che invano si sfiatavano a raccomandare la calma.

La giunca, riuscita a superare quel corso d'acqua zeppo di galleggianti, si slanciò nel canale meridionale che è separato da quello di Fatsciam da una fila d'isolette facenti parte, altra volta, del letto del fiume.

La navigazione non tardò a diventare tranquilla e rapidissima, grazie alla marea che continuava a salire. I tre bianchi, che si erano tenuti nascosti sotto il casotto, s'affrettarono ad uscirne per ammirare le incantevoli vedute che offriva il paese.

Le rive erano quasi deserte, ma qua e là, fra onde di verzura, apparivano di tratto in tratto dei graziosi villini colle pareti dipinte a porcellana e i tetti bizzarramente arcuati, coperti di tegole azzurre o gialle e irti di antenne rosse sostenenti mostruosi draghi e banderuole d'ogni forma. Vedevansi pure dei chioschi tutti traforati, pittoresche capannucce tuffate fra boschetti di lillà e di magnolie; ponti di bambù dalle ripide salite, gettati al disopra di canaletti, e lontano lontano delle torri superbe, dette ta-tzeu, che slanciavansi alte coi loro nove piani, nelle quali conservansi le reliquie dei Budda. A mezzodì la giunca fece una breve fermata sulla riva d'una isoletta, dinanzi ad un cantiere su cui si affaccendavano alcuni calafati a ribattere le costole di una vecchia giunca da guerra.

Gli avventurieri pranzarono alla meglio con una grossa oca e alcune tazze di thè, bevanda indispensabile per chi viaggia in Cina. Qualche ora dopo, la navigazione venne ripresa con buon vento, passando dinanzi a Schuk-Wan, grandioso villaggio situato sulle rive dell'isola che separa il canale di Fatsciam da quello di Tamsciao.

Alcuni cinesi, sulla sponda, pescavano con dei marangoni, bellissimi uccelli che ad un fischio del padrone si tuffavano per ritornare a galla con qualche bel pesce.

Alle quattro la giunca tagliò il canale di Skuntak all'estremità dell'isola da esso bagnata, filando fra due rive coperte di smisurati bambù, in mezzo ai quali scorgevasi, di tratto in tratto, il cocuzzolo di qualche capanna o il tetto arcuato di qualche villino. Un po' più tardi le due rive, sino allora piuttosto strette, s'allargarono formando una specie di laghetto abbellito da due isole coperte da folti boschetti.

La traversata occupò parecchie ore, essendo la corrente abbastanza forte, e soltanto verso sera la giunca toccò l'imboccatura settentrionale, ove gettò l'àncora dinanzi ad un isolotto vicinissimo alla borgatella di Isin-Nam. I viaggiatori s'affrettarono a sbarcare dirigendosi verso una trattoria di bell'aspetto, ombreggiata da due grandi tamarindi. Con un calcio aprirono la porta ed entrarono in un salotto piuttosto vasto, colle pareti dipinte a fiori, a lune sorridenti, a bestie strane, a draghi vomitanti fuoco, ed illuminato da una grande lampada di carta oliata. All'ingiro v'erano alcuni leggerissimi tavoli di bambù carichi di chicchere, di teiere di porcellana, di scatole e scatolette e vasi e vasetti contenenti i neri intingoli della cucina cinese.

Il trattore, un piccolo, ma pingue cinese, fu svelto a correre ed a salutare con un isin ripetuto più volte, accompagnato da un grazioso movimento delle mani incrociate sul petto.

– Olà, brav'uomo! – gridò l'americano. – Noi crepiamo di fame, cos'hai da darci? Io mangerei un capretto arrostito.

– Che dite mai, sir James? – chiese il polacco sorpreso. – In Cina è difficile trovare un capretto.

– Se non c'è un capretto, che porti tutto quello che ha in cucina. Spicciati, trattore mio, io ho una fame da lupo.

Il trattore non se lo fece dire due volte. Aiutato da due guatteri, coprì la tavola di zuppiere, di teiere, di tondi e di vasetti che mandavano dei profumi molto strani. L'americano cacciò il naso dentro un vaso ripieno di un liquido verde e subito starnutò fragorosamente.

– Cosa contiene quel recipiente? – chiese egli. – Del veleno, forse?

– Delle radiche di nenufar eccellenti – disse il Capitano.

– E quel pasticcio di che è composto?

– Di cavallette fritte.

– Cosa dite? – chiese l'americano facendo una smorfia. – Cavallette fritte?

– Sicuro, amico mio. Animo, qui c'è di che accontentare tutti i gusti. Se volete una fricassea di gin-seng, eccola. Se volete delle ostriche, dei pi'tsi1 dei sorci salati o del giovane cane, non avete che da chiedere.

– Dei sorci salati! Io mangiare del cane!

– Cane giovane, delicato come un porcellino da latte – aggiunse il polacco. – Guardate qui, sir James, questo pasticcio di gamberi pestati e queste pinne di pescecane che altro non domandano che di passare nello stomaco di un americano.

– Ma cosa dite! – esclamò James che non si teneva più. – Sorci salati, cane, cavallette fritte, pescecane... Ma è una cucina di Belzebù questa!

– Tutt'altro, amico mio – disse il Capitano. – Animo, assalite questi piatti, io dò l'esempio.

Tirò a sé una gran terrina di fricassea di gin-seng e si mise a divorare con grande appetito. Il polacco s'appigliò alle pinne di pescecane, e i barcaioli, Luè-Koa e Min-Sì assalirono le cavallette fritte.

L'americano rimase lì a guardarli, non osando ancora porre sotto i denti quei pasticci che erano per lui affatto nuovi.

– Orsù, James! – disse il Capitano. – Che fate lì? La cucina è buonissima.

– Ho una fame da orso, Giorgio, ma non so decidermi ad assaggiare la carne di cane e i topi salati.

– Oh, lo schizzinoso!

– Io schizzinoso! – gridò l'americano, facendo saltare i tondi sotto un formidabile pugno. – Vi pare? Schizzinoso uno yankee che si vanta d'essere mezzo cavallo e mezzo coccodrillo!

– I coccodrilli non starebbero lì a pensare tanto – disse il polacco ridendo.

– Lo credi, ragazzo? Se è vero, non voglio essere da meno di un coccodrillo!

Impugnò un gran cucchiaio che era immerso in una zuppiera colma di salsa verde e assalì vigorosamente tutti i piatti, non risparmiando né le cavallette fritte, né la fricassea, né le pinne di pescecane, né le castagne d'acqua, né le radiche, né lo stufato e innaffiando il tutto con copiose libazioni di salse e di sam-sciù, fortissimo liquore estratto dal miglio fermentato.

In meno di venti minuti quel nuovo Gargantua aveva dato fondo ad ogni cosa, forbendo molto pulitamente i tondi con la sua poco delicata lingua!

– Io credo che un coccodrillo non avrebbe fatto di più – diss'egli candidamente, vedendo che non c'era più nulla da porre sotto i denti. – A dire il vero, tutta quella roba era proprio eccellente!

La serata la passarono allegramente fra una chicchera di thè fiorito e una pipata. Alle dieci si ritirarono nella stanza loro assegnata, mentre i barcaioli si ritiravano nella giunca. Fatta una accurata ispezione alle pareti, per accertarsi che non c'erano aperture segrete, e barricata la porta, affinché non venisse loro fatto qualche brutto tiro, si sdraiarono sui letti formati da semplici tralicci di bambù e da un tchu-fu-jen, guanciale di sottilissime canne verdi e che mantiene una frescura piacevolissima.

Pochi minuti dopo russavano tutti e quattro con tale fragore da far tremare le pareti della stanza.


Note

  1. Castagne d'acqua.