La Scimitarra di Budda/1. La festa della colonia danese
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1.
LA FESTA DELLA COLONIA DANESE
La grande fiumana Si-Kiang, che per duecento leghe solca le province meridionali del gigantesco impero cinese, dividendosi presso la foce in numerosi canali e canaletti, forma un'infinità di isole, alcune delle quali lussureggianti di vegetazione, ricche di cittadine e di villaggi popolosi, ed altre affatto sterili, pantanose, deserte.
Dopo la guerra anglo-cinese del 1840, meglio conosciuta sotto il nome di guerra dell'oppio, un certo numero di europei e non pochi americani, approfittando del permesso forzatamente accordato dall'impero cinese, avevano occupato taluna di quelle isole, costruendovi importanti fattorie. Costretti a fuggire allo scoppiare della guerra del 1857, vi erano ritornati appena firmata la pace e avevano ricostruiti gli stabilimenti già arsi dai cinesi e riannodate le relazioni commerciali con Canton, con Wampoa, con Fatsciam, con Samschui, Schuk-Wan, Isin-Nam e altre città e villaggi dai quali traevano incalcolabili ricchezze. Nel 1858, epoca in cui comincia la nostra storia, le colonie avevano raggiunto un alto grado di splendore.
La sera del 17 maggio dello stesso anno, la colonia danese, in occasione dell'arrivo d'una nave da guerra, dava negli ampi giardini della fattoria una brillantissima festa, alla quale eran stati invitati europei, americani e cinesi.
Una folla straordinaria, allegra, rumorosa, si aggirava nei giardini splendidamente illuminati da migliaia e migliaia di palloncini variopinti.
V'erano ricchi cinesi in tenuta di gala, di una obesità rispettabile e la coda più allungata del solito, colle cappe di seta rossa o azzurra ricamate in oro; mandarini superbi e maestosi coi distintivi del loro grado sulle calotte (ting-mao) o sui cappelli conici di feltro (pong-roi-mo), con drappi di magnifica seta dipinta a draghi, a cicogne, a lune sorridenti e a teste mostruose; letterati di tutte le classi, gravi, raccolti, silenziosi, cogli indispensabili occhiali (yen-king) in montatura di corno; eleganti giovinotti dell'aristocrazia con un cerchio di capelli ritti attorno alla treccia, alti zoccoli colla suola di feltro e gonfie cinture piene d'oro da sprecare ai tavolini da giuoco, e in mezzo a quell'onda di teste rase e gialle come cotogni e all'onda dei ventagli di carta fiorita, s'aggiravano capitani di marina, piantatori, trafficanti, armatori, banchieri; ardenti creole sfarzosamente vestite e scintillanti dei più bei diamanti di Visapora; brune spagnole, bionde danesi, rigide inglesi ed eleganti francesi sfoggianti le ultime mode di Parigi.
Moltissimi di quelli invitati danzavano al suono di una numerosa musica portoghese, fatta venire appositamente da Macao, ed altri si affollavano attorno a lunghe tavole sorbendo il thè fiorito in chicchere di porcellana di Ming color cielo dopo la pioggia. Una dozzina invece giuocava al whist in un angolo più remoto del giardino, sotto un fitto boschetto di magnolie illuminato da gigantesche lanterne di talco.
C'erano il portoghese Olvaez, l'americano Krakner, l'inglese Perkins, lo spagnolo Barrado, quattro danesi della colonia, due olandesi e due tedeschi, tutti ricconi che guadagnavano e perdevano somme ragguardevoli senza batter ciglio.
– Orsù, – disse ad un tratto l'americano Krakner, spingendo innanzi a sé un bel gruzzolo di dollari – orsù, questa sera né io né Perkins siamo fortunati. Quei due briganti d'Olvaez e di Barrado devono essere ben esercitati per divorarci mille dollari in meno di due ore. Avete trovato qualche maestro a Macao?
– Eh! – fe' il portoghese Olvaez, socchiudendo gli occhi e tirando a sé i dollari vinti. – Credete voi che si vengano a sfidare i più forti giuocatori di whist senza aver preso delle lezioni? Abbiamo trovato a Macao un eccellente amico, un giuocatore consumato, capace di battere tutti voi.
– Permettimi di dubitarne, Olvaez – rispose l'americano. – Io conosco un giuocatore capace di fare scomparire cento piedi sotto terra il tuo celebre maestro. Hai dimenticato forse il capitano Giorgio Ligusa?
– Ti dico che ho trovato un celebre maestro appunto perché sono amico del capitano Giorgio.
– Ah! Fu il Capitano a darti delle lezioni? Dove l'hai incontrato?
– A Macao, dove erasi recato a cacciare non so quale uccello che mancava alla sua collezione.
– Quel birbone dunque si permette di fare delle gite a Macao senza invitare gli amici? Ma quel dannato Korsan non sarà rimasto indietro.
– È naturale. Dopo il famoso tuffo nelle acque della Città galleggiante non si è mai visto il capitano Giorgio senza Korsan, né Korsan senza il Capitano.
– Toh! – esclamò l'inglese Perkins. – C'entra un tuffo?
– Tu sai qualche cosa, Olvaez – disse l'americano. – Narra, adunque.
– Non chiedo di meglio – rispose il portoghese. – Voi tutti sapete che il capitano Giorgio ha una magnifica collezione d'uccelli cinesi. Informato che un cinese della Città galleggiante possedeva un uccello raro, si camuffò da barcaiolo e vi si recò. L'americano Korsan, che ha tre o quattro oche imbalsamate, si era fitto in capo di acquistare lui l'uccello, e corse nella Città galleggiante, ma secondo il solito appiccò zuffa e ricevette un pugno così stupendo da capitombolare nel fiume. Fortuna volle che in quel momento giungesse il Capitano, il quale, respinti i cinesi, slanciossi in acqua salvando Korsan da sicura morte. Da quel giorno James Korsan divenne l'ombra, l'amico inseparabile del capitano Giorgio.
– Brigante di Korsan! – esclamò l'americano Krakner, ridendo. – Ne fa sempre qualcuna delle sue!
– Quel diavolo d'uomo odia ferocemente i cinesi – disse Olvaez. – Non sa resistere alla tentazione di tirare le code.
– Allora il Capitano non verrà – disse lo spagnolo Barrado.
– Perché? – chiesero i giuocatori ad una voce.
– Perché venendo dovrebbe condurre anche Korsan, e Korsan sarebbe capace di mettersi a danzare per strappare qualche coda.
I giuocatori proruppero in una clamorosa risata.
– Il Capitano verrà egualmente – disse un danese. – Me l'ha detto lui. Andiamo, amici, ripigliamo la partita.
I giuocatori ripresero le carte e fecero rotolare sul tappeto dollari, tael1, sterline, risdalleri e piastre.
Passò una mezz'ora durante la quale l'americano Krakner e l'inglese Perkins perdettero un altro migliaio di dollari, intascati dal portoghese Olvaez e dallo spagnolo Barrado. Stavano per ricominciare una terza partita, quando un clamore assordante s'alzò verso la riva.
– Dei nuovi invitati, forse? – chiese l'americano abbassando le carte. – Oh! ecco là due persone che visitano i tavoli da giuoco... Ah! È il Capitano seguito da quel feroce mio compatriota che si chiama Korsan.
– Davvero! – esclamò lo spagnolo Barrado. – Sono proprio i due inseparabili!
Infatti il capitano Giorgio, il re del whist, o meglio l'uomo dall'ombra vivente, s'avvicinava a rapidi passi, seguito dall'inseparabile suo compagno James Korsan, il quale volgevasi di tratto in tratto per sbirciare l'onda dei cappelli di bambù e le lunghe code dei danzatori cinesi.
Giorgio Ligusa, Capitano di marina mercantile, era un genovese, sui trent'anni, d'alta statura, con un volto fiero, energico, alquanto duro, abbronzato dal sole dei tropici, con due occhi nerissimi, lampeggianti, baffi folti e lunghi e capigliatura ricciuta e corvina. Aveva fatto venti volte il giro del mondo, ma al ventunesimo era naufragato sulle coste meridionali della Corea, perdendo nave ed equipaggio. Salvatosi a gran pena assieme ad un ragazzo polacco, era rimasto per due lunghi anni prigioniero di una banda di pirati, ma una notte tempestosa era riuscito a fuggire col suo compagno e ad approdare sulle coste cinesi. Ramingando di città in città, un dì camuffato da barcaiolo, un dì da merciaio o da indovino, era disceso fino a Canton dove, raccolto un po' di denaro, s'era messo a trafficare. Fortunate speculazioni sul thè e sulla carta fiorita di tang l'avevano in poco volger di tempo arricchito assai.
Buontempone, cacciatore, re dei giuocatori, un po' scienziato, fino geografo, egli era l'uomo più popolare delle hongs, o fattorie, e i coloni andavano a gara per disputarselo.
L'altro, James Korsan, era un americano di New-York, pure sulla trentina, tozzo, colle spalle smisurate, gambe che potevansi scambiare per colonne, mani che chiuse sembravano due mazze da fucina, una testaccia enorme coperta da una foresta di capelli rossi con un nasone rosso come una peonia, un vero naso da ubriacone, da bevitore di whisky.
Era uno di quegli uomini brutali come i rinoceronti e dotati di forza erculea che chiamansi in America mezzi cavalli e mezzi coccodrilli. Ricchissimo, aveva abbandonato il commercio e occupava tutto il suo tempo a rissare coi facchini delle hongs o coi barcaioli, strappando quasi sempre qualche codino. Era insomma il terrore dei cinesi che lo fuggivano come una bestia feroce. Alle hongs lo si chiamava Gargantua, ovvero il ghiottone, per la straordinaria capacità del suo stomaco e per la sua sfrenata passione pel beef-steak e per il whisky. Lo si chiamava anche l'ombra vivente del Capitano, poiché non si separava quasi mai da lui.
I due amici, che parevano avessero molta fretta, non tardarono a giungere sotto il boschetto di magnolie. Dodici mani si stesero verso di loro.
– Credeva di non vedervi – disse Krakner. – Cosa avete che arrivate con tanta furia?
– Abbiamo delle novità, signori miei – rispose il Capitano dopo aver tracannato un bicchiere di Porter.
– Oh! Oh! – fecero i giuocatori.
– Fra dieci minuti arriveranno dei viaggiatori di vostra conoscenza. Non sapete nulla?
– Affatto nulla – disse Olvaez. – Dite su, chi sono?
– Mi dirigevo colla mia ombra a quest'isola, quando incontrai il signor Bourdenais che si recava al suo k'waiting2 verso l'hong francese. Mi disse che erano giunti Cordonazo e Rodney.
– Il viaggiatore Cordonazo! – esclamarono i giuocatori.
– Sì, andava a prenderlo a bordo di un legno mercantile proveniente da Saigon.
I giuocatori s'alzarono gettando le carte. Nessuno ignorava che Cordonazo e Rodney, boliviano l'uno, inglese l'altro, erano partiti un anno prima per l'Indocina, allo scopo di cercare la scimitarra di un dio asiatico. La notizia del loro arrivo li aveva scossi tutti.
– Ma siete proprio sicuri che sono tornati? – chiese Krakner che non pensava più a giuocare.
– Sicurissimo. Fra dieci minuti saranno qui.
– E credete, capitano Giorgio, che abbiano trovato quello che cercavano? – chiese un danese.
– Ho i miei dubbi. L'ultima lettera che scrissero da Saigon non parlava della Scimitarra.
– Ma quale arma cercavano? – chiesero alcuni giuocatori.
– La Scimitarra di Budda.
– La Scimitarra di Budda?
– Non ne avete udito parlare?
– Mai – risposero in coro i giuocatori.
– Eppure tutti i cinesi ne parlarono e ne parlano.
– È un'arma preziosa? – chiese Olvaez.
– Il mio amico Giorgio deve sapere la storia di quest'arma – disse Korsan, che fra una parola e l'altra continuava a gettare biechi sguardi sulle teste rase dei cinesi.
– Dite su, dunque, Capitano – gridò Krakner.
– Parlate, parlate – incalzarono i giuocatori.
Il Capitano s'accingeva a narrare la storia, quando la sua attenzione fu attirata da un gruppo di persone che s'avanzava rapidamente verso il tavolino.
Riconobbe subito in mezzo ad esso il boliviano Cordonazo e l'inglese Rodney.
– Signori! – esclamò il Capitano. – I viaggiatori sono giunti.
I dodici giuocatori s'alzarono come un solo uomo correndo incontro ai nuovi arrivati, che furono in un batter d'occhio circondati.
– Viva Cordonazo! Viva Rodney! – fu il grido che rimbombò sotto il boschetto di magnolie.
I due viaggiatori, commossi, abbracciavano gli uni e stringevano vigorosamente la mano agli altri.
Krakner e Olvaez li trassero verso il tavolino, fecero saltare i turaccioli ad una ventina di bottiglie di Xeres ed empirono i bicchieri fino all'orlo.
– Alla vostra salute – gridò l'americano.
– Alla vostra amici – risposero i due viaggiatori.
Una scarica di domande seguì il brindisi. Tutti volevano sapere qualche cosa, dove erano andati, cosa avevano veduto, cosa era a loro toccato, se avevano trovato la Scimitarra.
I viaggiatori, tempestati da tutte quelle interrogazioni, non sapevano a chi rispondere.
– Ma volete soffocarmi? – disse il boliviano. – Un po' di calma, amici.
– Zitti tutti! – gridò Krakner. – Se lo tempestate di domande in questo modo non potrà certamente narrare la storia della Scimitarra, né le peripezie del viaggio.
– Zitti! Zitti! – esclamarono in coro i giuocatori. – Udiamo la storia della Scimitarra.
– Non sapete nulla adunque di quella sciagurata Scimitarra? – chiese il boliviano sulla cui fronte passò come una nube.
– No – risposero tutti.
– E meno ancora sappiamo dove siete andati! – aggiunse Olvaez.
– State attenti. Vi narrerò ogni cosa fra un bicchiere e l'altro.