La Rosa del Dong-Giang/La cannoniera

La cannoniera

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I prigionieri

LA CANNONIERA


Per Tay-See era finita; la sua condanna doveva essere tremenda poiché le leggi cocincinesi puniscono l'adulterio colla pena di morte. Oltre a questa un'altra e ben più grave accusa pesava sulla disgraziata donna e cioè di aver liberato un prigioniero di guerra ormai votato alla morte e di essere fuggita con quel nemico della patria.

Nessuno, ormai, avrebbe più osato salvarla, senza passare per un traditore e tanto meno Tay-Shung, generale dell'esercito annamita e padrone della vita di sua moglie. Egli, quantunque in fondo al cuore l'amasse fino alla pazzia, non avrebbe affrontato un tal disonore, che avrebbe scatenato contro di lui tutta la popolazione di Bien-hoa.

Appena i fuggiaschi giunsero alla cittadella e furono rinchiusi nel carcere sotto la guardia di uno scelto drappello di uomini fidati e incorruttibili, il governatore fece radunare tutti gli anziani per decidere sulla sorte dei due prigionieri.

La sentenza fu spiccia: entrambi verrebbero giustiziati all'alba del giorno dopo da un elefante, formidabile carnefice che doveva schiacciare il capo ai condannati, colle poderose zampe.

Tay-Shung, apprendendo la sentenza fatale che dannava a morte la Rosa del Dong-Giang, fu per impazzire. Ritornò alla sua abitazione traballando come un uomo che ha ricevuto una mazzata sul cranio. Ca Bong lo aveva seguito.

Uno straziante ma soffocato singulto usciva dalla gola del generale e il petto gli si sollevava impetuosamente. Una lagrima gli cadeva di quando in quando giù per le gote, lagrima che s'affrettava a tergere con un gesto di rabbia.

— Perché piangi? — gli chiese Ca Bong, seduto di fronte a lui.

— Perché?... Perché?... Non domandarmelo, Ca Bong — rispose Tay-Shung. — Buddha!... Buddha... fammi morire, che per me tutto è finito!...

— Povero Tay-Shung, povero amico mio!

Si alzò, andò a prendere una mezza dozzina di fiaschi di ruon-manch, la bevanda che ubriaca anche i più forti, e ne empì due tazze.

— Bevi, Tay-Shung — disse. — L'ebbrezza è l'oblio.

Tay-Shung lo guardò con due occhi che mettevano paura, poi afferrò, come un forsennato, la tazza e la vuotò fino all'ultima goccia. Tre volte ancora la riempì e tre volte la depose vuota.

— No, non posso dimenticarla! — esclamò egli con voce disperata, frantumando il bicchiere. — L'ho qui, qui nel cuore, che mi arde, che mi consuma. Perché, o Buddha, non posso dimenticare quella donna? Sì, Tay-See... sì, t'amo ancora!... T'amo ancora!... T'amo ancora!

Le lagrime, non più frenate, gli scorrevano pel volto come tiepida pioggia. Egli si prese la testa fra le mani e la strinse rabbiosamente.

— Calma, Tay-Shung — disse Ca Bong. — Cerca di essere forte.

— Forte!... Forte!... — esclamò il generale con tono feroce. — E non sono stato forte?... Non l'ho trascinata qui io! Non l'ho precipitata io nell'abisso?... Quanto sono sciagurato!

— Non rimpiangere quello che hai fatto, Tay-Shung.

— Perché non lo vuoi? Sì, io lo rimpiango e vorrei cancellare le parole uscite dalla bocca di quei giustizieri e distruggere quella condanna che troncherà tre vite.

— Sarebbe il tuo disonore...

— Che importa a me il disonore?

— Quella donna era un'adultera...

Tay-Shung lo guardò con due occhi minacciosi.

— Taci! Taci! — esclamò con voce strozzata. — Sarei capace di ucciderti se tu ripetessi quella parola!

Si alzò e si mise a girare per la stanza, mugolando come una belva, lacerandosi le vesti e le carni, piangendo e bestemmiando, poi tornò a sedersi e si pose di nuovo a bere come volesse ubriacarsi.

— Lascia che beva, lascia che beva — rantolò egli, vuotando l'una dietro l'altra parecchie tazze. — Potessi addormentarmi nell'ebrezza e non risvegliarmi più!

Trangugiò parecchie tazze, poi si fermò.

— A che bere, quando non è possibile dimenticarla? — ripigliò egli. — A che bere quando domani sarò morto?

— Ma che dici di morire, Tay-Shung? Tu sei pazzo! — esclamò Ca Bong.

— Pazzo!... Pazzo!... Ma sai quanto io soffro in questo momento? Sai quali strazi subisco io? Ca Bong, sono l'essere più infelice che viva su questa terra esecrata! L'amo, Ca Bong, l'amo ancora quella donna e mi sanguina il cuore al pensiero che domani dovrà morire. Ah! Perché la vidi a Saigon? Perché l'amai e la feci mia? Non fosse mai nata o non l'avessi mai veduta! Non sai Ca Bong, che cosa sia amare alla follia la Rosa del Dong-Giang? Che farò io quando ella sarà morta? Che farò io quando rientrando nella mia casa non la troverò più? Che farò io quando la chiamerò ed ella non mi risponderà?

Si arrestò anelante, atterrito, facendo un supremo sforzo per non piangere.

— Se quella donna mi avesse chiesto la vita, — continuò egli, — gliela avrei data senza esitare; se mi avesse chiesto un trono, avrei gettato sottosopra Tu-Duc e la Cocincina per darglielo. E domani questa donna, che io ho adorato come una dea, sarà morta!... Ed io non rivedrò più mai il suo visino melanconico che mi metteva il fuoco nelle vene; non vedrò più quei suoi begli occhi, lucenti più delle stelle, e non stringerò mai più, fra le mie braccia, quel corpicino di bimba che doveva essere mio e mai più poserò le mie labbra sulle sue. Quella sua voce, che sembrava il gorgheggio di un uccello, che mi rendeva felice fra i miei tormenti, io non la udrò, adunque, più mai, come più mai non udrò il pi che deliziava le foreste del Dong-Giang, quel pi che ella suonava così bene... e tutto, e la casa, e la riviera, e le boscaglie, tutto diventerà silenzioso, tutto diventerà morto... Dimmi come posso vivere, Ca Bong, dimmelo!... Morrò, sì, morrò, scenderò nella tomba insieme con lei nella speranza di rivederla nel nirvana di Buddha.

— E non pensi che la patria corre gran pericolo? E non sai che si chiede il tuo forte braccio per difenderla?

— La patria... la patria... lei era la mia patria, lei era il mio re, lei era il mio dio... Spenta la patria, il re, dio, che rimane?... Seguirò nella tomba quella donna, le nostre ossa si confonderanno insieme e...

Si fermò di colpo, tendendo gli orecchi. In lontananza si udiva un sordo martellare e di quando in quando un formidabile barrito.

Tay-Shung cacciò fuori un grido e dette indietro colla faccia orribilmente sconvolta.

— Il recinto!... — balbettò. — Costruiscono il recinto pel supplizio... Odi... Odi il barrito dell'elefante che calpesterà la Rosa del Dong-Giang. Oh! Ca Bong... Ca Bong, non posso permetterlo... non posso...

Si alzò cogli occhi in fiamme, afferrò Ca Bong per la mano e lo trascinò verso la porta.

— Vieni!... Vieni!... — ripetè egli con voce strozzata. — Fra mezz'ora sarà giorno.

Uscì traendoselo dietro e scese la via fino al fiume dove si arrestò a guardare la corrente. Ca Bong temette che meditasse il suicidio.

— Che fai, disgraziato? — gli chiese trascinandolo indietro.

— Questo era il luogo ove ella veniva di notte a sedersi...

Continuò a camminare e lo condusse presso il bosco, fermandosi sotto i primi alberi.

— Odi? — chiese, curvandosi innanzitutto. — È silenzio: se ella muore, questo bosco, che rallegrava colla sua incomparabile voce e coi dolci suoni del pi, rimarrà muto per sempre.

— Ma tu sei pazzo, amico — disse Ca Bong.

Tay-Shung, invece di rispondere, riprese il cammino, riattraversando tutta la cittadella. Ca Bong comprese dove lo conduceva e lo fermò afferrandolo strettamente per le braccia.

— Che fai, Tay-Shung? — gli chiese.

— Bisogna che io la veda un'ultima volta e che oda ancora, per un solo istante, se vuoi, la sua voce. Chissà, ho una speranza: vieni o sarà troppo tardi!

— No! Non devi dimenticare che quella donna è fuggita con un nemico della nostra patria.

— Se riesco in ciò che medito, — riprese Tay-Shung, — nessuno udrà più parlare di me, né della Rosa del Dong-Giang.

— Tay-Shung!... Tay-Shung!...

— Taci, taci! Io me ne andrò lontano, farò ritorno nelle mie montagne, lassù verso il settentrione, e tu prenderai il mio posto in Bien-hoa. Tutti mi crederanno morto, e nessuno mai saprà, all'infuori di te, ove avrò nascosta la Rosa del Dong-Giang.

— Ma tu ti disonori e infrangi il tuo splendido avvenire.

— Non mi disonoro! E poi, che mi importerebbe?... Senza lei sento di non poter vivere.

Erano giunti dinanzi ad una grande capanna alla cui porta vegliavano dieci guerrieri armati di archibugi.

— Fermati, Tay-Shung — disse Ca Bong, afferrandolo per le mani.

— Lasciami, lasciami — rispose il generale, respingendolo con violenza.

Varcò la soglia ed entrò. Wang, il carceriere, si fece innanzi con una lanterna. — Voi, generale! — esclamò.

— Zitto — disse Tay-Shung, con voce soffocata. — Che fa Tay-See?

— Dorme.

Non volle sapere altro. Prese la lanterna e s'inoltrò in un basso corridoio di bambù, fermandosi dinanzi ad una stuoia, che nascondeva una porta. Esitò, indietreggiò due volte, spaventato, forse pentito, poi sollevò la stuoia ed entrò in punta di piedi.

Là, in mezzo ad una umida stanzuccia, stesa su di un cuscino di foglie di ripa, stavasene Tay-See, immobile, colla faccia nascosta fra le mani.

Tay-Shung le si avvicinò, barcollando come un ubriaco, si curvò su di lei e allungò le mani, ma, preso da un capogiro, fu costretto ad appoggiarsi alla parete.

— Io tremo — mormorò, con un tono di voce che più nulla aveva di umano. — Che faccio mai?... Questa donna mi tradì... Se io la lasciassi morire?... E dopo?... Che sarà di me quando sarà morta?...

D'un tratto si precipitò su di Tay-See, l'afferrò pei polsi e l'attirò sul suo petto.

— Vieni, Tay-See, vieni! — mormorò egli.

L'infelice, bruscamente svegliata, fece un movimento come per fuggire.

— Chi siete?... Chi siete?... — domandò ella con terrore. — Oh!... No, no, non mi uccidete!...

— Sono Tay-Shung che viene a salvarti. Affrettati o sarà troppo tardi!

Tay-See, a quelle parole, mandò un grido.

— Tu qui! — esclamò. — Che vuoi?...

— Vengo a salvarti, Tay-See — disse con rabbia il generale. — Vieni!... Vieni!...

— Che vuoi tu?... No! Lasciami morire! Ormai appartengo alla morte.

— Ma io non voglio che tu muoia, non lo voglio. Senti, Rosa del Dong-Giang: io infrango un avvenire splendido, io abbandono la patria pericolante, io mi disonoro, io muoio per tutti eccettuato che per te. Vieni, Tay-See, vieni, tutto t'ho perdonato!

— No, no — diss'ella con disperata energia. — Lasciami morire, Tay-Shung; sono stanca di lottare contro il destino che mi perseguita, sono stanca di vivere!... Non posso amarti, lo sento, e se anche volessi non potrei: il mio cuore si ribellerebbe contro la volontà. Lasciami dunque morire, giacché morrà anche lui!

— Lui!... Ancora quell'uomo, ancora quel maledetto!... — urlò Tay-Shung, scuotendola con rabbia. — Lo ameresti ancora?...

Tay-See non rispose e chiuse gli occhi comprimendosi fortemente il seno colle mani come volesse fermare i precipitosi battiti del cuore.

— Senti, Rosa del Dong-Giang, — riprese egli cambiando tono, — senti, disgraziata donna! Tu lo ami, tu vorresti salvarlo: ebbene, dimmi che non lo amerai mai più, ed io lo farò fuggire.

Tay-See riaprì gli occhi e lo guardò vivamente commossa.

— Io lo condurrò fuori di Bien-hoa, gli darò un rapido corsiero e lo lascerò raggiungere i suoi compatrioti... ma guai a lui se ardisse ritornare qui... mi sentirei capace di sbranarlo coi miei denti.

Tay-See crollò mestamente il capo e non rispose.

— Ebbene? — chiese il generale con ansietà.

— Lasciami morire — mormorò lei. — Tutto sarebbe inutile, poiché egli non accetterebbe mai la sua libertà a tal prezzo. Mi ama troppo!

— Ah! Nemmeno la morte vi separerà dunque?

— No!

— Io t'uccido!...

Aveva tratta dal fodero la scimitarra, e si era precipitato verso di lei.

— Uccidimi — disse Tay-See, lasciandosi cadere sulle ginocchia. — Lo raggiungerò in cielo.

— Ma io ti seguirò anche nella tomba, e anche lì ti tormenterò.

Stava per vibrare il colpo, quando, al di fuori, s'udì rimbombare il gong. L'arma gli cadde di mano.

— L'alba!... L'alba!... — esclamò con ispavento.

Si gettò sulla infelice, l'afferrò per le braccia e la sollevò.

— È l'alba, è l'alba, Tay-See! — disse. — Vieni, prima che arrivino. Ti perdono tutto, ti farò felice, vieni, Tay-See, vieni!

La disgraziata si dibattè disperatamente cercando di sfuggirgli.

— Lasciami, — diss'ella, — lasciami, che io non voglio vivere più.

— No! Ti porterò con me anche se non vorrai. No, non devi morire, io non lo voglio!

L'abbracciò a mezzo corpo e si slanciò verso la porta. Tay-See mandò un urlo disperato.

— Aiuto! Aiuto!...

Tay-Shung s'arrestò mugulando come una tigre.

— Ho sete di sangue! — disse con voce cupa. — Vieni, maledetta, vieni che io voglio vederti morire col tuo spagnolo. Adesso ti odio, ti disprezzo, ti maledico!

In quel momento giungevano i guerrieri trascinando Josè strettamente legato.

Nell'udire la voce di Tay-Shung e nel vedere Tay-See fra le braccia di lui, si sentì il sangue montare alla testa.

Con una improvvisa scossa, atterrò gli uomini che lo conducevano e scagliossi, a testa bassa, contro Tay-Shung che aveva raccolto la scimitarra. Ca Bong e i suoi uomini si gettarono in mezzo.

— Miserabile!... Miserabile!... — urlò lo spagnolo.

Tay-Shung gli si avvicinò.

— Voglio vederti morire con lei — disse. — E quando sarete morti, quando l'elefante vi avrà stritolati, verrò a danzarvi attorno e a sogghignare come il genio del male. Al recinto!... Al recinto!...

I guerrieri afferrarono Josè pei polsi e lo trascinarono via malgrado la sua disperata resistenza. Ca Bong lo seguiva, portando, fra le sue braccia, Tay-See, che non dava più segno di vita.

Il mattino era triste, il cielo grigio, nuvoloso, tetro, carico di nuvoloni. Una pioggia sottile sottile cadeva lentamente, bagnando le strette vie della cittadella, mentre un ventaccio freddo scendeva dai monti del settentrione, scuotendo le grandi foglie degli alberi e agitando le banderuole delle guglie e delle terrazze, che cigolavano lugubremente.

Il corteo, ingrossato di guerrieri e di cavalieri, uscito dalla cittadella, si diresse verso il recinto eretto nel mezzo d'una pianura.

Una folla enorme, accorsa da tutti i dintorni, si era già aggruppata all'intorno.

Vi erano vecchi, vi erano garzoni, vi erano fanciulli, vi erano donne. Tutta la popolazione di Bien-hoa era là!

Un lungo mormorio, paragonabile al muggito del mare udito in lontananza, accolse l'arrivo dei condannati. Josè, nel vedere tutti quegli occhi fissi su di lui, alzò fieramente la testa.

— Ah! — esclamò egli con amarezza. — Voi volete vedere il mio sangue. Vi mostrerò come sa morire uno spagnolo e...

S'arrestò e impallidì orribilmente.

— Tay-See! — mormorò con istrazio.

— Eccola la tua amante! — gli disse una voce.

Si volse e vide, pochi passi distante, Tay-Shung.

— Sii maledetto! — rispose lo spagnolo, tendendo verso di lui il pugno chiuso. — Sii maledetto! E lo spettro di Tay-See ti tormenti fino nella tomba!

Tay-Shung tacque. Indietreggiò a lenti passi e tremante, pallido, cupo, salì nel suo palco dove si lasciò cadere sulla propria stuoia. Gran copia di sangue scendevagli dalle labbra straziate dai denti.

Un colpo di gong rimbombò coprendo i mormorii della folla. Josè fu trascinato nel recinto ed ai suoi piedi gettarono Tay-See che non era ancora rinvenuta.

Egli si curvò sull'amante e le baciò le labbra che erano già fredde come quelle di un cadavere. Un singhiozzo gli lacerò il petto.

— Dio!... Dio!.. — esclamò con voce rotta. — Non v'è più speranza!... Coraggio, Tay-See... nella tomba troveremo la felicità che ci fu negata quassù dal mio e dal tuo Dio!...

Si rialzò e i suoi occhi caddero su di un gigantesco elefante, che barriva strepitosamente, agitando la formidabile sua proboscide. Nel mirare quell'animale tutto il suo coraggio svanì. Ebbe paura!

— No!... No!... — esclamò egli. — Non voglio morire!...

Girò attorno uno sguardo smarrito.

— Abbiate pietà di lei!... Abbiate pietà della Rosa del Dong-Giang!... Salvatela, salvatela!

Mille braccia si tesero minacciosamente verso di lui e mille urla coprirono la sua voce.

— A morte l'adultera!...

— A morte il bianco!

— A morte i nemici della patria nostra!

Lo sventurato alzò le braccia verso Tay-Shung che erasi aggomitolato sulla sua stuoia.

— Tay-Shung! — gridò. — Salvala!...

Il generale aprì le labbra come volesse parlare, ma nulla si udì. La folla, diventata minacciosa, urlava con maggior forza.

— A morte l'adultera!...

— A morte il bianco!

— A morte i nemici della patria!...

Josè tentò un colpo disperato. Afferrò Tay-See e si slanciò contro i guerrieri tentando di salvarsi con una fuga precipitosa, ma cadde sulle ginocchia.

Due kemays lo afferrarono e lo tennero fermo finché il quan-an ebbe letta la sentenza. Un secondo colpo di gong rimbombò facendo tacere i mormorii della folla e ritirare i guerrieri.

Josè, sentendosi libero, si trascinò vicino a Tay-See, abbandonata sulla sabbia.

— Mia adorata, guardami un'ultima volta — disse con voce straziante.

Un formidabile barrito fu la sola risposta che ottenne. L'elefante gli stava presso e agitava la proboscide, pronto ad afferrarlo e stritolarlo.

Ormai tutto era finito: ancora pochi istanti e dei due infelici non sarebbe rimasto che un informe ammasso di carne sanguinolenta.

D'improvviso, al di fuori del recinto, si udirono alcune grida, poi rimbombarono parecchie fucilate.

Gli spettatori balzarono in piedi come un solo uomo, mentre alcune voci urlavano:

— Il nemico! Il nemico!

Alcune trombe — le trombe degli europei — suonavano la carica e pochi istanti dopo un grosso drappello di soldati spagnoli, superata rapidamente la palizzata, si rovesciava nel recinto, sparando fucilate contro gli spettatori.

Una confusione inenarrabile accadde. Uomini, donne, ragazzi, atterriti da quell'improvviso irrompere del nemico, che credevano ancora accampato sulle lontane sponde del Tan-binch-giang, fuggirono precipitosamente, atterrando le palizzate, urtandosi, calpestandosi, empiendo l'aria di grida e di gemiti.

Tay-Shung, pazzo di furore, non badando al pericolo, balzò come una tigre in mezzo ai fuggiaschi e, seguito da pochi guerrieri, si avventò contro gli spagnoli che s'avanzavano correndo verso Josè e Tay-See.

— Fuoco su costoro! — comandò una voce.

Una scarica partì dalle file spagnole: Tay-Shung ed alcuni guerrieri colpiti in pieno petto dalle palle nemiche, caddero insanguinati sulla sabbia, mentre gli altri fuggivano precipitosamente dietro la folla.

Allora un cocincinese, apertosi il passo fra i soldati, fece indietreggiare l'elefante e si gettò sopra Josè tagliandogli rapidamente le corde che lo stringevano.

— Thay-Mit! — esclamò lo spagnolo balzando in piedi.

— Sì, sono io — rispose il cocincinese. — Mentre fuggivo con Kia, vi avevo veduto trasportare a Bien-hoa prigionieri, e, immaginandomi la sorte che vi aspettava, sono corso a chiedere aiuto ai vostri compatrioti. Sono felice di avervi salvato.

— Grazie, Thay-Mit.

Poi si volse e sollevò Tay-See che era rinvenuta.

— Mia adorata, siamo salvi! — esclamò stringendosela freneticamente al petto.

— Josè! Josè! — balbettò ella.

Un ufficiale spagnolo — il comandante del drappello — si avvicinò a loro.

— Garcia! — esclamò Josè.

— Sì, il tuo amico Garcia che è ben contento di averti salvato — rispose l'ufficiale. — Affrettiamoci; la cannoniera, che ci ha condotti sin qui, è pronta a ripartire; non bisogna aspettare che i cocincinesi si radunino e piombino su di noi.

— Vieni, Tay-See, vieni! — disse Josè sollevandola fra le braccia.

— E Tay-Shung? — chiese ella.

— Credo che sia morto.

— Morto!... Morto!... Lasciami vedere un'ultima volta quell'infelice che non aveva altra colpa che di avermi troppo amata.

In quell'istante ritornava Thay-Mit.

— Tay-See, — diss'egli con voce commossa, — quell'uomo non è ancor morto e desidera vederti prima di spirare.

— Vive!... — esclamò ella. — Ah! Josè, vieni che io voglio rivederlo!

E trascinò con sé lo spagnolo verso un gruppo di soldati in mezzo ai quali, sostenuto dal fedele Ca Bong, l'infelice guerriero rantolava, colpito a morte da due palle, che gli avevano attraversato il petto.

Tay-See si appressò e s'inginocchiò accanto a lui mormorando a più riprese:

— Perdono!... Perdono!...

Il moribondo, nel vederla, si scosse e le afferrò le mani con suprema energia.

— Tay-See... — mormorò egli, con voce rotta. — Lascia che io... ti miri un'ultima... volta... Muoio felice... perché tu non avresti potuto... amarmi mai...

— Perdono, Tay-Shung, perdono!... — ripetè ella singhiozzando.

— Sì... sì... mia Rosa del Dong-Giang... ti perdono... perché hai tanto sofferto...

S'interruppe, s'alzò sulle ginocchia, e tese la mano verso Josè che gliela strinse.

— La farai... felice — rantolò poscia. — Che Buddha vegli su di voi... e quando sarete entrambi... lontani di qui... nei paesi dell'occidente... non dimenticatevi... dell'infelice... Tay-Shung.

Gettò le braccia attorno al collo di Tay-See, la guardò a lungo, accostò le labbra a quelle di lei, poi stramazzò al suolo.

Era morto.

Quindici giorni dopo, mentre il re Tu-Duc firmava la pace cedendo alla Francia tutta la Bassa Cocincina, un vascello spagnolo lasciava Saigon lanciandosi sulle azzurre acque dell'Oceano Indiano. Quel vascello portava in Europa due coppie felici: Josè e Tay-See, Thay-Mit e Kia.