La Palingenesi di Roma/La Rinascita/I. La storia e l'antichità nella mente del Machiavelli
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I.
LA STORIA E L’ANTICHITÀ
NELLA MENTE DEL MACHIAVELLI.
Niccolò Machiavelli, dopo il ritorno dei Medici a Firenze, nel 1513, si era ritirato in villa senza impiego politico, e si consolava della sua triste vita, partita fra l’osteria e i lavori dei campi, studiando Tito Livio. Ma ogni tanto faceva una scappata a Firenze, dove trovava un cenacolo di fedeli ammiratori del Savonarola, amici suoi sin dal tempo della repubblica, che si radunavano negli Orti Oricellari, e con essi leggeva commovendosi a quella rievocazione di glorie repubblicane, le storie di Tito Livio. In questo gruppo il Machiavelli cominciò a commentare in modo nuovo le decadi ed entrò « in quella via » che non era « stata per ancora da alcuno pesta ».
Perchè, si domanda il Machiavelli, gli uomini ricorrono agli antichi per tutte le arti e per tutte le scienze, e non li studiano quando si tratta di politica? Perchè non si ristudiano con intelligenza le storie? In verità, essi non sanno « trarne, leggendole, quel senso, nè gustare di loro quel sapore che le hanno in sè » 1.
Siccome gli uomini « nacquero, vissero e morirono sempre con un medesimo ordine » 2 « gli è facil cosa a chi esamina con diligenza le cose passate, prevedere in ogni repubblica le future, e farvi quei rimedi che dagli antichi sono stati usati » 3. Perciò « ho giudicato necessario scrivere sopra tutti quelli libri di Tito Livio, che dalla malignità dei tempi non ci sono stati interrotti, quello che io, secondo le antiche e moderne cose, giudicherò essere necessario per maggiore intelligenza di essi » 4.
L’antichità in generale, ed in essa sopratutto Tito Livio, sono adunque assunti a maestri della politica contemporanea, mentre la politica contemporanea è adoperata per illuminare nei suoi punti oscuri la storia dell’antichità. Il metodo era doppio ed era nuovo; e diede risultati singolari, che dobbiamo studiare, perchè con il Machiavelli la storia antica rinasce dal suo sepolcro e ridiventa una viva forza spirituale della civiltà moderna.
Gli amici degli Orti Oricellari che primi lo conobbero, sembrano aver più ammirato che non capito questo metodo, poiché i commenti liviani del Machiavelli esaltavano in loro soltanto il fervore repubblicano, e, come se fossero stati scritti e detti solo per insegnar l’arte di fondare, ordinare e reggere una repubblica nei tempi moderni, riempivano quegli spiriti ardimentosi, ma angusti, di invidia e nostalgia per la fortunata sorella di Roma; li accendevano forse anche incitandoli a restaurare uno stato repubblicano nella Firenze medicea (così forse due uditori degli Oricellari, Zanobi Buondelmonti e Cosimo Rucellai, gettandosi in una disgraziata congiura contro i Medici, pensarono di avere tradotto in pratica gli insegnamenti di Niccolò Machiavelli). Ma a torto, perchè il metodo del maestro non era monopolio della politica repubblicana. L’antichità era vasta, gli storici numerosi, le Deche stesse oceaniche e multiformi. Nel mondo classico era lecito studiare con uguale profitto le istituzioni tiranniche e le istituzioni monarchiche. E il Machiavelli voleva studiare repubbliche e monarchie, tanto che ritornando da Firenze, dove aveva commentato Livio negli Orti Oricellari, alla sua campagna, a quell’Albergaccio di cui parla nelle sue lettere, scriveva il Principe, ossia un trattato sull’arte di fondare e reggere una monarchia, attingendo anche per questo agli esempi dell’antichità. « Deve il Principe leggere le istorie ed in quelle considerare le azioni degli uomini eccellenti, vedere come si sono governati nelle guerre » 5.
Non tutti gli storici e non sempre i posteri hanno capito la vera natura di questo eclettismo politico del Machiavelli. Si ripete spesso che nei Discorsi il Machiavelli condensò la sua dottrina sul governo delle republiche, e nel Principe quella sul governo dei principati tirannici, esaltandoli ambedue come i regimi ideali. E poichè le due opere furono scritte press’a poco nel tempo stesso, questa contemporaneità gli è stata imputata come atto di mala fede, quasi che scrivendo il Principe, egli avesse rinnegato o tradito i Discorsi, e viceversa. Ma, innanzi tutto, l’opposizione delle due opere è arbitraria, perchè non è lecito assegnare la teoria della repubblica ai Discorsi e quella della tirannia al Principe, con quel taglio netto che è d’uso: tra Il Principe e i Discorsi c’è tanta continuità e coerenza di pensiero, che son quasi un’opera sola. E tu non senti nessun distacco passando dal primo al secondo.
Fin dalle prime pagine dei Discorsi, il Machiavelli dichiara che Repubblica o Tirannia fa lo stesso. Imbevuti delle dottrine politiche del secolo XIX, noi non possiamo più capire questa indifferenza a scegliere due forme di governo, di cui l’una, secondo noi, deve essere il male, se l’altra è il bene. Ma il Machiavelli, vivendo quattro secoli fa, pensava che tutti gli ordinamenti statali hanno dei difetti e delle qualità. Nella sua teoria della trasformazione dei governi, 6 che anticipa quella di Vico, non si fa illusione sulla bontà di nessun ordinamento. Crede però che certe situazioni richiedono questo o quel governo, come più conveniente e adattabille. Esamina così le condizioni degli Stati e i momenti storici in cui possono fondarsi e reggersi delle repubbliche o delle tirannie, e avverte « che colui che vuol fare dove sono assai gentiluomini una repubblica, non la può fare se prima non gli spegne tutti » 7. E se vuol fare un Principato « dove è assai egualità » trova altri ostcaoli invincibili. Cosicché conclude: « costituisca, adunque una repubblica, colui dove è o s’è fatta una grande equalità; altrimenti farà una cosa senza proporzione e poco durabile » 8. Poco dopo scrive un lungo capitolo sulle congiure « acciocché i principi imparino a guardarsi da questi pericoli, e che i privati più timidamente vi si mettino, anzi imparino ad essere contenti a vivere sotto quell’impero che dalla sorte è stato loro preposto » 9. E cita questa sentenza di Tacito: « gli uomini debbono desiderare i buoni prìncipi e comunque siano fatti tollerarli ».
Chi direbbe che questi pensieri sono stralciati dai Discorsi sulla prima Deca, le cui primizie furono riservate agli ultimi discepoli di Savonarola, e che passa per un libro repubblicano? E come attribuire a un teorico della repubblica quella poca stima delle masse che il Machiavelli esprimeva a Francesco Guicciardini scrivendogli « voi sapete e sallo ciascuno che sa ragionare di questo mondo, che i popoli sono vari e sciocchi »? 10. O quella dottrina svolta pure nei Discorsi, per cui, se si vuol ricorreggere una repubblica, che non regga più per la corruzione morale e politica, « è necessario venire allo istraordinario, come è alla violenza ed all'armi, e diventare innanzi ad ogni cosa, principe di quella città, e poterne disporre a suo modo » 11.
Il Principato è dunque necessario e quindi legittimo quanto la repubblica. Non c’è nel Machiavelli parzialità per l’uno o per l’altra, o contemporanea glorificazione di tutti e due. Benché la divisione non sia netta, nei Discorsi si può trovare la teoria della repubblica, perchè il protagonista è il popolo, nel Principe la teoria del principato, perchè si parla specialmente dei principi. Infatti incomincia dicendo: « Io lascerò dietro il ragionare delle repubbliche, perchè altra volta ne ragionai a lungo », 12 alludendo senza dubbio ai Discorsi. Ma questa è la divisione teorica di due diversi ordinamenti, non il cozzo di due dottrine contrarie.
- ↑ (1) Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio. Proemio.
- ↑ (2) Discorsi, I, 11.
- ↑ (3) Discorsi, I, 39.
- ↑ (4) Discorsi, Proemio.
- ↑ (1) Principe, XIV,
- ↑ (1) Discorsi, I, 2.
- ↑ (1) Discorsi, I, 55.
- ↑ (2) Discorsi, I, 55.
- ↑ (3) Discorsi, III, 6.
- ↑ (4) Cfr. Discorsi, I, 2; I, 38; I, 57.
- ↑ (1) Discorsi, I, 18.
- ↑ (2) Principe, II.