La Montagna di luce/23. Lotte di giganti e di titani

23. Lotte di giganti e di titani

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23. Lotte di giganti e di titani
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23.

LOTTE DI GIGANTI E DI TITANI


Tutti i principi indiani, che hanno ancora conservati i loro Stati, non hanno dimenticata la loro passione per gli spettacoli selvaggi, sanguinari e costosissimi.

Quantunque gl'inglesi abbiano tentato a più riprese di mettere un freno a quella passione che costa sempre un bel numero di vite umane, anche oggidì spendono somme enormi per darsi il piacere di far schiacciare i loro sudditi dagli elefanti resi furiosi espressamente, mediante un nutrimento speciale, o di farli sventrare dai corni formidabili dei rinoceronti o di vederli massacrarsi a colpi di boxe.

Il guicowar di Baroda, che è il più splendido ed il più ricco di tutti questi principi mantenutisi ancora indipendenti, ha una vera frenesia per quei sanguinari spettacoli e spende ogni anno parecchi milioni di rupie. Ma anche gli altri, se non sono così generosi come quel principe, il quale distribuisce di frequente delle collane di diamanti o di perle del costo di centomila rupie ai suoi lottatori, non lesinano, purché quei divertimenti riescano impressionanti e drammatici.

Tutti mantengono alle loro corti vere compagnie di satmarivallas incaricati di dare la caccia agli animali scatenati nei circhi, bande di pehlwhan, lottatori reclutati fra i popoli più coraggiosi dell'India e che devono massacrarsi sotto gli occhi del principe e saper morire con grazia come gli antichi gladiatori romani; poi buffoni, giocolieri, danzatrici, suonatori ecc.

Hanno poi serragli dove stanno chiusi gli animali destinati a lottare nei circhi: elefanti giganteschi, rinoceronti, tigri e bufali e non di rado anche dei leoni fatti venire dalla Persia e delle pantere provenienti dalle isole della Sonda.

Il rajah di Pannah, non meno ricco di quello di Baroda, mercé le sue inesauribili miniere di diamanti, al pari degli altri principi aveva il suo aghur ossia circo, i suoi lottatori, i suoi satmarivallas, i suoi cacciatori, i suoi buffoni ed i suoi animali da combattimento.

Allo squillo di tromba del capitano della guardia, il chiacchierìo dei palchi e delle gallerie era subito cessato, mentre dalle due estremità del circo facevano la sua entrata due elefanti.

Erano due colossi della specie, due coomareah, animali meno alti dei merghee, ma più massicci, colla tromba più larga, le gambe più corte di questi ultimi e dotati d'una forza straordinaria, terribile. Onde non si ferissero erano stati privati delle loro gigantesche zanne.

Entrambi erano montati da un cornac, uomini scelti, d'un coraggio provato, destinati quasi sempre a lasciare la loro vita in quelle lotte emozionanti e pericolose al sommo grado, perché di rado sfuggono ai colpi di tromba che si avventano i pachidermi in furore.

Erano quasi nudi e unti d'olio di cocco per poter sfuggire alle strette.

Gli elefanti, appena entrati, avevano mandato due barriti così formidabili, da far tremare perfino le gallerie ed i palchi.

Erano entrambi visibilmente eccitati, perché i loro occhietti mandavano lampi ed agitavano nervosamente le loro proboscidi.

Per renderli furiosi, gl'indiani li nutriscono per due o tre mesi, quasi esclusivamente con burro e zucchero.

Allora diventano irascibili, non riconoscono quasi più il loro cornac il quale corre ad ogni istante il pericolo di venire ucciso da un colpo di proboscide o lanciato contro le tettoie, e si scagliano contro tutti gli animali che vedono.

I due pachidermi, appena scortisi, si erano subito precipitati l'uno contro l'altro, senza che i loro cornac avessero bisogno di aizzarli.

– Sarà una lotta interessantissima – disse Toby. – Che urto!... Altro che i bufali!...

– E vedremo l'abilità dei due cornac – disse Indri. – Se non sono molto destri e perdono il loro sangue freddo, finirà male per essi.

I due elefanti si erano incontrati nel mezzo al circo, urtandosi furiosamente colle loro poderose fronti e sollevando nembi di polvere.

Entrambi facevano sforzi sovrumani per respingersi. S'alzavano sulle zampe posteriori lasciandosi poi cadere bruscamente di peso ed intrecciavano le loro proboscidi, tentando di atterrarsi.

Di quando in quando, scorgendo i cornac, avventavano su di essi terribili colpi di proboscide che se li avessero colti li avrebbero sfracellati.

I due conduttori però erano lesti a gettarsi indietro, balzando sui mostruosi dorsi dei pachidermi, dando prova d'un sangue freddo poco comune e d'una agilità da sfidare le scimmie e gli acrobati.

La lotta fra quei due giganteschi animali, diventava sempre più furibonda. Né l'uno né l'altro accennavano a cedere il campo quantunque entrambi dovessero essere storditi dai colpi di testa e di proboscide.

Ad un tratto però, il più piccolo, nel momento che si rialzava sulle zampe deretane, ricevette in mezzo al petto un così tremendo colpo di testa, che tutto il suo corpo risuonò come un immenso tamburo.

Ripiegò bruscamente la proboscide, lasciandola poi pendere inerte, quindi cadde sulle ginocchia mandando un rauco barrito.

Il suo cornac, con un volteggio ammirabile, era balzato a terra, rifugiandosi dietro l'enorme massa.

Era sfuggito miracolosamente ad una morte più che certa, perché il vincitore aveva cominciato ad avventare sul caduto colpi di proboscide sempre più tremendi, onde impedirgli di rialzarsi e di riprendere la lotta.

Completamente stordito, il vinto non cercava nemmeno di sottrarsi a quella grandine. Scrollava i suoi enormi orecchi e mandava barriti sempre più lamentevoli.

– Finirà per ucciderlo – disse Toby.

– Non gliene lasceranno il tempo – rispose Indri. – Ecco i satmarivallas.

Le due barriere del circo si erano aperte e dodici indiani montati su focosi cavalli si erano slanciati verso il vincitore, urlando ed agitando banderuole rosse.

Erano tutti begli uomini, di forme perfette, con turbanti a vivaci colori e calzoni assai stretti onde non offrire alcuna presa alle trombe dei pachidermi.

Anche i loro cavalli non avevano né sella, né gualdrappe, anzi per maggior precauzione erano stati privati della coda.

Il colosso, vedendo piombarsi addosso tutti quegli uomini, abbandonò l'avversario e si mise a caricarli, avventando colpi di tromba a destra ed a manca.

Erano però cariche inutili perché i satmarivallas, con volteggi fulminei si mettevano subito fuori di portata da quei colpi mortali.

Mentre il vinto pachidermo veniva fatto uscire, altri dodici uomini, ma a piedi, si erano pure precipitati nel recinto.

Erano armati di lance e andavano, con un coraggio incredibile, a pungere l'elefante per renderlo maggiormente furioso.

Il povero animale, stordito dalle grida e dai volteggi di quei ventiquattro satmarivallas, di quando in quando si arrestava aspirando rumorosamente l'aria ed agitando gli orecchi per rinfrescarsi, poi incessantemente aizzato, riprendeva le sue cariche, cercando di spazzare via quei tormentatori a colpi di proboscide.

Trasportato dalla propria foga, sovente andava a urtare contro la cinta, minacciando di rovesciare i grossi pali e di travolgere anche i palchi e le gallerie.

I cavalieri intanto continuavano i loro volteggi con una intrepidità da far fremere perfino Toby.

Facevano inalberare i loro focosi destrieri proprio dinanzi all'elefante, ondeggiando le bandiere fiammeggianti, poi con un vigoroso colpo di sperone e uno slancio fulmineo, si sottraevano alla proboscide.

– Che impareggiabili cavalieri! – esclamò Toby, mentre la folla entusiasmata prorompeva in grida ed applausi.

– Sono tutti maharatti, – rispose Indri, – ossia i migliori cavalieri dell'India.

– Mi pare impossibile che nessuno rimanga sul terreno.

– Nel caso che la tromba li raggiunga, non saranno certamente essi che lasceranno la pelle, bensì i cavalli. Balzano a terra anche in corsa e senza rompersi le gambe.

Intanto l'elefante, giunto al parossismo del furore, continuava ad inseguire tutti, barrendo spaventosamente. Sudava come se gli venissero versati sul dorso dei mastelli d'acqua e provava dei sussulti così forti che il suo cornac faticava a mantenersi al suo posto.

Finalmente, esausto, andò a ritirarsi contro una delle barriere dove si lasciò cadere pesantemente sulle ginocchia, mandando un ultimo barrito di rabbia impotente.

A sua volta il colosso era stato vinto.

Mentre i satmarivallas ricevevano dalle mani del rajah i premi loro destinati, consistenti in vesti di seta ed in borse ripiene di rupie, alcuni servi, dopo d'aver rinfrescato il pachiderma, con mastelli d'acqua fredda, lo conducevano fuori dalla cinta.

Dopo un breve riposo, durante il quale numerosi valletti, sfarzosamente vestiti, avevano portato agli invitati bibite, dolci, gelati, tabacco e betel, entrarono nel circo due giganteschi indiani dalle muscolature potenti, unti d'olio di cocco e quasi nudi, non avendo indosso che un cortissimo languti.

Nella mano destra impugnavano una bosce colle punte d'acciaio e acutissime, armi terribili perché danno sovente la morte all'uno o all'altro lottatore.

– È il nuki-kakusti – disse Indri che aveva già assistilo parecchie volte, a Baronda, a quella lotta barbara e sanguinaria.

I due ercoli, ubriachi di bang – specie di oppio liquido – erano entrati cantando le loro precedenti imprese.

– Io sono forte come un elefante ed ho atterrato Garbari, il campione del Misore ed ho ucciso con un colpo solo Gualiwar, il più formidabile lottatore del Berar.

– Io sono più solido dell'acciaio, – rispondeva l'altro, – ed ho fermato un bufalo tenendolo per le corna ed ho abbattuto una giovenca con un pugno. Chi oserà affrontare il terribile Guneri?

– Sarà Bir, il poderoso Bir che al terzo colpo farà mordere la polvere a Guneri.

– Ed io al primo ti costringerò a chiedere grazia o ti ucciderò.

Si erano arrestati a tre passi l'uno dall'altro, col braccio sinistro ripiegato sul petto ed il destro teso, sfidandosi collo sguardo.

Mentre si lanciavano insulti prima di lacerarsi le carni, nei palchi e nelle gallerie, ministri, ufficiali, cerimonieri, guardie e dame scommettevano con furore.

Chi parteggiava per Guneri, che era il più alto dei due ed il più agile, chi per Bir più tozzo, più muscoloso, e forse più forte dell'altro.

Anche il rajah scommetteva coi suoi ministri e coi suoi cortigiani, impegnando migliaia di rupie.

D'improvviso i due lottatori si scagliarono vibrando colpi di bosce così formidabili, da spaccare le costole anche a un rinoceronte.

Non erano però che finte per preparare le membra.

Guneri aveva subito dato indietro, balzando coll'agilità d'una tigre; Bir invece, sicuro di portare un colpo mortale, caricava con impeto, a corpo perduto.

Di quando in quando le bosce d'acciaio s'incontravano, mandando scintille.

I due giganti ricorrevano a tutte le astuzie per sorprendersi vicendevolmente.

Scartavano con velocità fulminea, si abbassavano bruscamente gettandosi quasi al suolo per poi scattare; piroettando sulle punte dei piedi cercando, con uno sgambetto, di sradicare l'avversario, poi tornavano a rimettersi in guardia ingiuriandosi e sfidandosi.

Bir, più impetuoso, non accordava un istante di tregua a Guneri e si studiava di cacciarlo addosso alla palizzata; questi si limitava a parare i colpi, rompendo di frequente.

Più astuto dell'altro, conservava le sue forze pel momento decisivo.

Ad un tratto però nell'indietreggiare scivolò su un mazzolino di fiori, gettato da una dama di corte. Bir, più pronto d'un lampo, gli scaricò in mezzo al petto un colpo così terribile, che tutte le cinque punta d'acciaio scomparvero nelle carni.

Un altro uomo sarebbe certamente caduto e forse per non più rialzarsi.

Bir invece, con una piroetta rapidissima sfuggì al secondo colpo che avrebbe dovuto spaccargli il cranio, fece uno scarto, poi a volta assalì, mandando un urlo di belva ferita.

La sua bosce piombò sulla fronte dell'avversario, lacerandogli la pelle fino agli occhi ed inondandogli il volto di sangue.

Ciechi di furore, si erano subito afferrati l'un l'altro col braccio sinistro, mentre col destro si tempestavano di colpi, straziandosi il petto, i fianchi, le cosce.

Il sangue zampillava da tutte quelle ferite e formava sotto i piedi dei due atleti una vera pozza che andava rapidamente allargandosi.

Tutti gli spettatori erano balzati in piedi, incoraggiando con urla ed applausi ora l'uno ed ora l'altro. Anche il rajah si era levato.

Toby, da vero inglese, abituato alle crudeli lotte della boxe, contemplava con vivo interesse quel selvaggio spettacolo.

Ad un tratto Bir stramazzò al suolo come un bue che viene atterrato da un colpo di mazza. Aveva ricevuto un colpo in mezzo al cranio che lo aveva completamente stordito.

Guneri, quantunque sanguinasse da dieci ferite, posò un piede sul corpo dell'avversario e levò la destra armata della bosce, pronto a vibrare il colpo di grazia.

Bastava che il rajah gridasse: maro (colpisci) e per Bir era finita.

Forse il principe stava per pronunciare la sentenza di morte del disgraziato, quando Toby scattò in piedi gridando:

– Altezza, grazia per lui!...

– La festa è data in vostro onore, – rispose il rajah, – spetta quindi a voi, mister Toby Randal, a decidere la sorte di Bir.

– Gli accordo la vita – rispose il cacciatore.

– Viva il cacciatore di tigri!... – gridò la folla. – L'uomo bianco è generoso come un rajah.

Mentre quattro servi portavano via il corpo sanguinante del povero Bir, il suo avversario si diresse, barcollando, verso il palco del rajah per ricevere il premio della vittoria: una borsa di seta contenente cinquecento rupie ed una pezza di seta rossa trapunta in oro.

Lo spettacolo era finito.

Il rajah s'alzò facendo colla destra un amichevole saluto a Toby e ad i suoi compagni, e rientrò nel palazzo seguìto dai suoi ministri, dai suoi favoriti e dalle sue guardie.

– Andiamocene anche noi – disse Toby. – A questa sera il gran colpo; o riusciremo o ci lasceremo la vita.

– Non hai paura, amico? – chiese Indri, guardandolo affettuosamente.

– No, Indri – rispose Toby.

– Riusciremo?

– Ne ho la convinzione.

– A quanto si stima il diamante?

– A due milioni di lire, mi hanno detto.

– Preparerò un cheque di tre milioni pagabile a Baroda dal mio banchiere, il persiano Zeyd-Omara e lo collocheremo al posto della Montagna di luce perché noi non siamo ladri. Il rajah potrà accontentarsi.

– Ti rovini, Indri.

– Sono più ricco di quello che tu credi, Toby, eppoi il mio onore vale più dei miei milioni.

– Ti credo, amico. Hai architettato il tuo piano?

– Sì e sarà Bandhara che farà il colpo, mentre noi ci occuperemo del rajah.

– Nessuna violenza, Indri.

– Bandhara si limiterà ad addormentare i guardiani del Kohinoor, se ve ne saranno.

– E appena fatto il colpo andiamocene a rotta di collo.

– Bangavady sarà pronto e quell'elefante non si lascerà raggiungere dai cavalieri del rajah. Fuori dallo Stato non avremo più nulla da temere ed in ventiquattro ore possiamo varcare le frontiere.

Quando rientrarono nel bungalow trovarono Dhundia il quale pareva in preda ad un vero furore. Asseriva d'aver girata tutta la città ed i dintorni colla speranza di trovarli, avendo saputo che erano ritornati dalla loro partita di caccia.

– Avete almeno ucciso il rinoceronte che devastava le piantagioni del vostro amico? – chiese a Toby, con una leggera punta d'ironia.

– È caduto alla prima scarica – rispose imperturbabilmente il cacciatore. – La mia palla gli aveva attraversato il cervello entrandogli per un occhio.

– Sempre famoso cacciatore voi – disse il briccone, con un sorriso beffardo. – Ed a quando la caccia alla Montagna di luce?

– Questa sera – disse Indri. – Siamo invitati dal rajah e approfitteremo della festa per carpirgli il diamante.

– Oh!... – fece, Dhundia, trasalendo.

– Verrai con noi o t'incaricherai di prepararci la fuga?

– Sarà meglio che mi occupi di Bangavady – riprese il traditore, dopo alcuni istanti di riflessione.

Poi aggiunse fra sé:

– Così avrò tempo d'avvertire Sitama.