La Montagna di luce/17. Il piccolo Sadras

17. Il piccolo Sadras

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17.

IL PICCOLO SADRAS


Sadras, fedele alla parola data, non aveva lasciato i cespugli che gli servivano di rifugio.

Da quel nascondiglio aveva potuto assistere alle diverse fasi della festa notturna e vedere anche Bandhara a mescolarsi fra quella folla urlante e ubriaca di bang.

Poi, non senza provare una stretta al cuore, perché cominciava ad amare il suo nuovo padrone, lo aveva veduto entrare nella pagoda nel momento in cui si spegnevano i falò.

– Va a perdersi – aveva mormorato il bravo ragazzo.

Quando vide entrare anche i giocolieri ed i sapwallah e chiudersi la porta del tempio, Sadras, non potendo più trattenersi, era uscito dal suo nascondiglio, strisciando verso la gradinata.

Una irresistibile curiosità, lo spingeva verso la pagoda. Voleva vedere cosa stava per accadere nell'interno e se il suo padrone si esponeva a qualche pericolo.

Trovandosi dinanzi a tutti quegli ubriachi che russavano sonoramente, chi sdraiati sulle gradinate ed altri attorno alla statua di Holica, Sadras aveva battuto prudentemente in ritirata, per paura di svegliarne qualcuno e di venire sorpreso.

Si allontanò cautamente girando attorno all'immensa pagoda, colla speranza di trovare qualche apertura che gli permettesse di entrare.

Giunto sotto una finestra che si apriva a sette metri dal suolo, si era fermato a guardarla.

La luce dei torcieri si rifletteva sui vetri colorati, facendoli scintillare vivamente.

– Se potessi giungere lassù – mormorò.

La scalata non era difficile, perché anche all'esterno le pareti erano adorne di colonnati, di statue, di bassorilievi, di teste di leone e soprattutto di elefanti incrocianti bizzarramente le loro trombe.

Sadras era agile come una scimmia e dotato d'una forza non comune pei ragazzi della sua età.

S'aggrappò alla proboscide di un elefante che s'univa ad un capitello sostenente una statua raffigurante Rama, e si mise a salire, puntando i piedi nudi contro le screpolature della parete.

Superata felicemente anche la statua, s'afferrò al margine d'un capitello e issandosi a forza di braccia poté finalmente giungere alla finestra alla quale mancavano parecchi vetri.

Proprio in quel momento Bandhara bruciava la sua cartuccia.

Col cuore stretto da un'angoscia inesprimibile, il ragazzo poté assistere alla terribile lotta terminata così malamente pel povero cornac e udire anche perfettamente le ultime parole pronunciate dal fakiro.

Atterrito, madido di freddo sudore, il ragazzo aveva abbandonata la cornice, si era lasciato scivolare lungo la statua, poi lungo la proboscide, toccando il suolo.

Non aveva più che un pensiero: quello di correre in cerca dei cacciatori e di avvertirli di quanto era accaduto.

Era l'unico mezzo per poter salvare Bandhara.

Attraversò sempre correndo il bosco, poi i giacimenti diamantiferi dirigendosi verso una fattoria che si trovava a breve distanza dalla città e dove era conosciuto, avendo servito qualche mese durante la raccolta del cotone.

Quantunque fossero appena le due del mattino, Sadras non esitò a battere il gong sospeso sopra la porta.

– Mi necessita un cavallo pel mio nuovo padrone – disse al servo che era accorso ad aprirgli. – Darò a te dieci rupie se me lo noleggi per ventiquattro ore.

La cifra era troppo elevata per lasciarsela sfuggire. Il servo, senza prendersi la briga di andare a svegliare il padrone e conoscendo d'altronde il ragazzo, non esitò un solo momento.

– Il proprietario non mi rimprovererà di certo di avergli fatto guadagnare una manata di rupie – disse. – Attendimi pochi minuti, piccolo Sadras.

Un momento dopo apriva uno dei cancelli della fattoria, conducendo a mano uno di quei cavallucci di razza irlandese chiamati poney, introdotti dagli inglesi anche in India.

– Andrai lontano? – chiese il servo, intascando le rupie.

– Non storpierò il tuo cavallo, te lo prometto.

Balzò in sella senza servirsi delle staffe e allentò le briglie, partendo a corsa sfrenata.

Come la maggior parte degl'indiani del Bundelhand, Sadras era un buon cavaliere. Si era abituato fin da piccino a scorrazzare gli altipiani sul dorso di quei focosi cavallucci e non vi era pericolo che la sua corsa terminasse in un capitombolo.

Riattraversò i terreni diamantiferi e filò verso il settentrione, dove scorgevansi confusamente una linea di collinelle indicanti le grandi miniere, quelle che le frequenti invasioni del terribile mangiatore d'uomini avevano rese così pericolose da costringere i lavoranti ad abbandonarle.

Sadras non sapeva dove si fossero accampati i cacciatori, ma era certo di trovarli in qualche luogo.

Aveva già attraversate le colline e anche parte della seconda zona diamantifera, quando sul margine d'un bosco scorse due falò che fiammeggiavano fra le tenebre.

– Che sia l'accampamento dei cacciatori? – si chiese, rallentando la corsa, per accordare un po' di riposo al poney. – Non possono essere che essi, perché più nessuno frequenta questi paraggi dopo la comparsa della bâg.

Guardando più attentamente, scorse presso i fuochi un carro di dimensioni enormi e delle ombre umane.

– Devono essere i cacciatori – mormorò.

Eccitò nuovamente il poney e si diresse a quella volta superando delle montagne sassose che si stendevamo dinanzi alla foresta.

Già non distava che qualche centinaio di passi, quando un uomo comparve dinanzi ad uno dei falò, gridando:

– Chi vive?

– Un amico del cacciatore bianco – rispose il ragazzo, balzando agilmente a terra.

Lo sikkari che era di guardia s'avanzò verso di lui, tenendo la carabina puntata.

Vedendo quel fanciullo non poté trattenere un gesto di stupore.

– Chi ti manda, ragazzo? – chiese.

– Un amico del gran cacciatore – rispose Sadras.

– E non hai avuto paura a venire qui, di notte ed inerme? Questo è territorio del mangiatore d'uomini.

– Io non ho paura. Dov'è il cacciatore bianco? Ho un messaggio urgente per lui.

– Non è ancora tornato.

– È necessario che io lo veda subito.

Lo sikkari raggiunse i suoi compagni informandoli del desiderio del ragazzo.

– A quest'ora anche la seconda tigre deve essere stata uccisa – disse il capo dei battitori. – Non avete udito quei colpi di fucile?

– Sì – risposero tutti.

– Allora possiamo andare incontro ai cacciatori.

– O fare dei segnali – disse un altro. – Udendo delle scariche comprenderanno che qualche cosa di grave deve accadere qui e non tarderanno a venire.

– Fateli subito – disse Sadras. – Il cacciatore bianco vi sarà riconoscente perché ciò che devo comunicargli è un affare della massima importanza.

Gli sikkari scaricarono in aria le loro carabine, uno alla volta, poi, dopo un minuto d'intervallo, ripeterono le scariche.

Un momento dopo, in mezzo alla foresta echeggiavano, uno dietro l'altro, tre spari.

– Se ci rispondono devono aver compreso che noi li richiamiamo – disse il capo dei battitori. – Forse a quest'ora sono già in marcia. Ripetiamo i segnali.

Alle quattro detonazioni risposero ancora le carabine dei cacciatori e questa volta molto più vicine.

– Vengono – disse il capo.

Non erano trascorsi venti minuti dall'ultimo sparo, quando si videro uscire dalla foresta Toby, Indri, e Dhundia trascinando la seconda tigre.

Il capo degli sikkari s'affrettò a muovere incontro a loro.

Sahib, – disse, rivolgendosi a Toby – è giunto or ora un ragazzo da Pannah e che ha un messaggio urgente da consegnarti.

– Da parte del rajah? – chiese Toby.

– Lo ignoro: ecco il fanciullo.

Sadras si era avanzato verso i cacciatori salutandoli con un profondo inchino.

– Chi ti manda? – chiese Toby, guardandolo attentamente.

– Un uomo che mi prese ieri ai suoi servigi e che mi disse essere un amico del cacciatore bianco.

– Come si chiama?

– Non lo so, ma leggendo il biglietto che mi ha dato, forse lo saprai, sahib.

– Dammelo.

Sadras si frugò nella fascia che gli stringeva i fianchi ed estrasse una carta piegata in quattro.

– Lasciami leggere da solo – disse volgendosi a Indri. – M'immagino di che cosa si tratta.

Si diresse frettolosamente verso il campo e sedutosi presso uno dei fuochi, lesse ansiosamente il biglietto.

Non conteneva che poche righe, ma dicevano abbastanza per spaventare l'intrepido cacciatore.


«Sahib – aveva scritto il cornac – qualcuno ci ha traditi e lo scopo della vostra impresa è conosciuto dal fakiro. Vi sono dei nemici che vegliano su di voi e che spiano tutti i vostri atti.

«Ho scoperto il rifugio del fakiro e questa sera vado a trovarlo. Se mi uccidono, vendicatemi.

«Bandhara.»


Leggendo quelle righe, Toby si era passato due volte la destra sulla fronte, per tergersi il sudore che gliela bagnava.

– Siamo stati traditi! – mormorò, coi denti stretti. – E ci si sorveglia! Allora Indri è perduto. Lo aveva sospettato, ma chi sarà questo traditore? Parvati l'infame ministro del guicowar? O sarà invece quel Dhundia che tutte le volte che lo guardo mi fa l'effetto d'un rettile? Ho fatto bene ad agire così e forse non avrò a pentirmene d'essere stato prudente e sospettoso.

Si guardò intorno.

Indri fingeva di occuparsi della tigre; Dhundia invece, seduto un mucchio di sassi, guardava il cacciatore come se avesse cercato di sorprendere sul viso di lui le diverse emozioni dell'animo.

– Si direbbe che mi spia – mormorò Toby. – Stiamo in guardia.

Piegò il foglio, se lo mise in tasca, poi s'accostò a Indri, dicendogli:

– È un biglietto che mi manda un mio amico. Mi invita ad andarlo a trovare per una partita di caccia.

– Dove si trova? – chiese l'ex favorito, guardando fisso il cacciatore e sorridendo.

– A quattro miglia da qui, al di là delle miniere di Kamarga. Avendo saputo che io sono venuto qui, desidera di vedermi e di valersi della mia carabina per sbarazzarlo d'un rinoceronte che gli guasta le piantagioni.

– E ci andrai?

– E verrai anche tu, Indri.

– E chi porterà al rajah le pelli delle tigri?

– Se ne incaricherà Dhundia – rispose Toby.

– Non desiderate che io vi accompagni? – chiese questi, un po' piccato.

– La vostra presenza è più utile in Pannah che alle miniere – rispose Toby. – Rappresenterete il cacciatore bianco presso il rajah fino al nostro ritorno.

– Durerà molto la vostra assenza?

– Qualche giorno.

In quel mentre Toby si sentì toccare per dietro.

Era Sadras.

– Cosa vuoi ancora ragazzo? – chiese il cacciatore, quasi con noncuranza.

– Devo parlarti, sahib.

– So cosa vuoi dirmi – rispose Toby. – Vuoi venire con me?

– Sono ai tuoi ordini, sahib.

– Quando partite? – chiese Dhundia, che era diventato di cattivo umore.

– Subito – disse Toby. – Se il rajah vi riceverà, gli direte che presto vedrà anche me.

– E partite senza prendere un po' di riposo?

– Sono abituato alle veglie e credo che anche Indri lo sia del pari.

– Dormiremo più tardi nel bungalow del tuo amico – rispose, l'ex favorito del guicowar, il quale aveva già compreso che Toby doveva avere qualche grave motivo per affrettare quella partenza.

– Allora partiamo – disse il cacciatore. – L'alba sta per sorgere e faremo una superba passeggiata.

Fece caricare sul poney di Sadras dei viveri e delle munizioni, si gettò la carabina ad armacollo ed invitò Indri a seguirlo.

Gli sikkari intanto aggiogavano i buoi al carro per far ritorno a Pannah.

Dhundia, dopo d'aver raccomandato a Indri di tornare presto, essendovi più gravi interessi presso il rajah che nelle foreste dell'altipiano, si era sdraiato sui cuscini della ruth, coll'intenzione di fare una buona dormita.

Sadras, vedendo Toby dirigersi verso la foresta invece di piegare attraverso i terreni diamantiferi, gli si era accostato, dicendogli:

Sahib, la pagoda non si trova da quella parte.

– Seguimi per ora – rispose il cacciatore.

– A quale pagoda allude? – chiese Indri che cominciava a non comprendere più nulla. – Che il tuo amico abiti un tempio?

– Silenzio, Indri – rispose Toby. – Fra poco saprai tutto.

Camminò senza più parlare fino al margine della foresta, scrutò attentamente le piante, poi si cacciò in mezzo alle macchie.

– Guarda se il ruth si è mosso – disse allora a Indri.

– Ha già lasciato il campo e sta attraversando i terreni diamantiferi.

Il cacciatore cercò un posto ben riparato dai raggi del sole, il quale stava allora alzandosi, batté la macchia tutta all'intorno per accertarsi che nessuno potesse sorprenderli, poi si sedette e diede a Indri la lettera di Bandhara, dicendogli semplicemente:

– Leggi.

Appena dato uno sguardo a quelle righe, l'ex favorito del guicowar si era lasciato sfuggire un grido, mentre la sua pelle abbronzata si scoloriva rapidamente.

– Traditi!... – esclamò con voce soffocata. – Io sono perduto!...

– Non lo sei ancora, mio buon amico – disse Toby, con voce energica.

– Se si conosce lo scopo del mio viaggio, io sono rovinato.

– No, Indri, perché noi daremo battaglia a questi nemici misteriosi che tramano nell'ombra per rovinarti. Ascoltiamo ora questo ragazzo che può darci delle preziose informazioni. Dove hai lasciato l'uomo che ti ha data questa lettera?

– Nella pagoda, sahib. Da una finestra ho assistito alla lotta e non ho lasciato quel posto finché non l'ho veduto cadere oppresso dal numero.

– Bandhara preso! – esclamarono Indri e Toby ad una voce.

– È forse il nome del mio padrone? – chiese Sadras.

– Sì, e narraci tutto, perché noi non sappiamo ancora cos'è avvenuto del tuo padrone – disse Indri.

Quando Toby e l'ex favorito appresero ciò che era toccato a Bandhara, ad entrambi sfuggì la medesima frase:

– Bisogna salvarlo!

– Io sono pronto a guidarvi alla pagoda – disse Sadras.

– E come faremo noi a lottare contro tanti nemici, decisi a tutto? – chiese Indri. – E hai rimandato anche Dhundia!... Era almeno un uomo di più.

– L'ho allontanato perché sospetto di lui – disse Toby, con accento grave. – Sento per istinto che intorno a noi ronza un traditore.

– Ed a quale scopo Dhundia mi tradirebbe?

– Lo ignoro, ma io diffido di lui. Se quell'uomo fosse d'accordo con Parvati?

– Toby, tu mi apri gli occhi.

– Non precipitiamo dei giudizi per ora. Non abbiamo alcuna prova che possa confermare i nostri sospetti, tuttavia sono più contento che quel Dhundia sia più lontano che vicino. Ecco perché ho inventata la storiella del cacciatore mio amico.

– Grazie, Toby. Tu sei coraggioso e prudente, il vero uomo che mi era necessario per compiere la mia difficile impresa. E cosa fare ora? Se i miei nemici avessero già informato il rajah del mio progetto?

– Ci avrebbe fatti arrestare – disse Toby. – Se siamo ancora liberi, significa che nessuno ha osato parlargli.

– Io vorrei sapere il motivo che spinge quel fakiro contro di me.

– Forse Bandhara lo sa ed ecco il perché noi dovremo fare il possibile per strapparlo dalla sua tomba.

– Nel frattempo potrebbe morire.

– Resisterà alla fame qualche settimana e anche di più ed in sette od otto giorni si possono compiere anche dei miracoli – disse Toby.

– Ed il rajah?

– Ci vedrà quando piacerà a noi.

– E Dhundia?

– Che ci cerchi, se lo vuole.

– Gli riuscirà facile perché un uomo bianco non sfugge facilmente in una città abitata quasi esclusivamente da indiani.

– Mi camufferò da indiano, Indri, così perderanno le mie tracce. Lasciamo ora in pace la Montagna di luce e occupiamoci di Bandhara; quella non fuggirà mentre questi può morire e portare nella tomba dei segreti importanti.

– Cosa mi consigli di fare?

– Tornarcene subito a Pannah per altra via, cambiare pelle e poi recarci alla pagoda.

– Senza assoldare degli uomini che ci possano aiutare? – chiese Indri.

– Preferisco agire da solo – rispose Toby. – Io non ho paura né dei sapwallah, né dei giocolieri e tanto meno di quel furfante di fakiro. Quando poi avremo liberato Bandhara, colpiremo tutti coloro che conoscono il nostro segreto e li ridurremo all'impotenza.

– Un'impresa così difficile che mi spaventa, Toby – disse Indri con voce triste.

– Se non li avremo schiacciati tutti, non potremo fare il colpo contro la Montagna di luce, perché la minima delazione costerebbe la morte a me ed a te.

Si volse verso Sadras il quale li aveva ascoltati in silenzio.

– Come ti chiami? – gli chiese Toby.

– Sadras, sahib.

– Sei affezionato al tuo nuovo padrone?

– Sì, perché egli era buono e generoso.

– Conosci gli uomini che lo hanno fatto prigioniero?

– Due li riconoscerei anche fra mille.

– Chi sono?

– Uno è un incantatore di serpenti di statura gigantesca; è quello che ha atterrato il mio padrone e che lo ha portato nel sotterraneo. So che si chiama Barwani.

– E l'altro? – chiese Indri.

– È un giocoliere.

– Ed il fakiro lo hai veduto?

– Sì, ma non so se potrei ravvisarlo.

– Questo ragazzo è d'una intelligenza straordinaria e saprà renderci preziosi servigi – disse Toby. – Rientriamo in Pannah, Indri, trasfiguriamoci in modo da renderci irriconoscibili, poi agiremo. Ah!... Mi dimenticavo i miei due servi. Devono essere rimasti al bungalow del rajah. Sono due uomini preziosi e d'un coraggio esperimentato.

– Vi è Dhundia al bungalow – disse Indri.

– S'incaricherà questo ragazzo di avvertirli che ho bisogno di loro e senza che Dhundia se ne accorga. Parliamo e dimentichiamo che Bandhara fra poche ore sarà alle prese colla fame. Cane d'un fakiro!... Avrò la tua pelle!...

Fecero salire Sadras sul poney onde non stancarlo troppo, e si misero in marcia attraverso i terreni diamantiferi, procedendo con passo rapido.

Non seguivano però la via tenuta dal ruth, desiderando rientrare in città dalla parte opposta onde non farsi notare da qualcuno degli sikkari o dai compagni del fakiro.

A mezzogiorno, quando il calore torrido del sole aveva rese le vie deserte, i due cacciatori e Sadras entravano in città, passando attraverso un bastione franato in parte nel fossato.

– Conosci qualche venditore di vestiti? – chiese Toby al ragazzo.

– Sì, sahib – rispose questi.

– Allora cerchiamo innanzi a tutto un alloggio e che non sia troppo di lusso.

Sadras, avvertito delle loro intenzioni, li condusse in uno dei sobborghi dove vi erano varie capanne di bambù, coi tetti di foglie di coccotiero.

Toby fece chiamare il proprietario e ne appigionò una che sorgeva isolata in mezzo ad un orticello coltivato ad indaco.

– Mi è necessaria per deporre qui le mie armi e le mie munizioni – aveva detto al proprietario. – Sono troppo pericolose per tenersi in casa, con tanti servi inesperti e curiosi.

Pagò il doppio della somma richiesta e prese senz'altro possesso.

Mezz'ora dopo Sadras, il quale aveva ricondotto il poney alla fattoria, ritornava con due indiani carichi di vestiti d'ogni colore e d'ogni dimensione.

Toby, che amava mostrarsi generoso nella sua qualità d'europeo, comperò l'intero assortimento che doveva servire, diceva lui, ai suoi sikkari, quindi si mise a fare la scelta.

Erano abiti già usati, ma ancora in ottimo stato. Vi erano costumi di maharatti, di sceikki, di misoriani, di sipai, di beisi od agricoltori e di sudra, ossia da servi.

Toby si trovò un bellissimo turbante giallo a righe azzurre ed un vestito da pengiabese che doveva attagliarsi a meraviglia al suo corpo massiccio e poderoso, mentre Indri levava dall'ammasso un vecchio costume da sceikko che doveva aver servito a qualche capo di questi arditi e bellicosi montanari.

– Cominciamo la nostra trasformazione – disse il cacciatore.

Sadras era nuovamente uscito per tornare poco dopo con vari vasi e scatole contenenti tinture e pomate di varie specie e alcuni rasoi.

Toby appese uno specchietto alla parete e con pochi colpi di rasoio fece cadere le basette ed i baffi, mentre Indri gli rasava la testa, non avendo gl'indiani l'abitudine di portare i capelli lunghi.

Ciò fatto si lavò parecchie volte in una catinella contenente una tintura bronzina che aveva dei superbi riflessi ramigni.

Quando gli parve che la pelle fosse diventata sufficientemente oscura, indossò il costume che aveva scelto.

– Cosa ti pare, Indri? – chiese.

– Non ho mai veduto un pengiabese così splendido – disse l'ex favorito. – Non ti mancano che gli anelli d'oro agli orecchi.

– Quel bravo ragazzo me ne ha portati vari. Non saranno d'oro, però l'illusione sarà perfetta. Credi che il fakiro possa riconoscermi?

– Se non ti fossi dipinto e vestito in mia presenza, non ti riconoscerei nemmeno io – rispose Indri, il quale stava tingendosi il volto di nero.

– E tu, piccolo Sadras?

Il ragazzo si mise a ridere.

– Direi che non ti ho mai veduto prima di questo momento, sahib – rispose.

– Allora posso sfidare quel briccone di fakiro. Ascoltami ora, piccolo Sadras.

– Parla, sahib.

– Sai dove si trova il bungalow che noi abitavamo?

– Sì, vi sono stato con Bandhara.

– Io ho due servi colà che rispondono ai nomi di Thermati e di Poona, due valorosi che ci saranno di molto aiuto nella nostra difficile impresa. Tu devi condurmeli qui, ma Dhundia deve ignorare che sono io che li desidero.

– Non mi farò vedere da lui, sahib – rispose il ragazzo.

– Sei capace di compiere questa non facile commissione?

– Conta su di me, sahib. I tuoi uomini verranno qui e nessuno lo saprà.

– Va', ragazzo; tu sei più astuto e più abile d'un uomo. Ed ora – disse, volgendosi verso Indri – andiamo a fare colazione ed ad architettare il nostro piano.