La Bohême italiana/Capitolo XI. Un figlio della bohéme

Capitolo XI. Un figlio della bohéme

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Capitolo XI. Un figlio della bohéme
Capitolo X. In cerca d'un romanziere Capitolo XII. L'artista barbuto

CAPITOLO XI.

Un figlio della bohème.


Trovare dei bohémiens della nostra specie, come dissi già, non era cosa facile, pure noi non disperammo e ci mettemmo subito in cerca degli artisti necessari.

Durante la nostra fermata presso il romanziere, Ferrol aveva ideato un grandioso progetto e volevamo metterlo in esecuzione. Si trattava di presentare all'Esposizione di Parigi centoquattordici miniature, riassumenti i fasti principali della storia di Napoleone I. Un lavoro enorme che avrebbe spaventato chiunque, ma non certo l'abile miniatore.

Ci occorrevano quindi degli altri artisti per condurre a termine la grande impresa in tempo utile.

Come però ho detto, la cosa non era molto facile. A Torino artisti ve ne sono in gran numero e di valenti; a noi erano però necessarii dei tipi speciali, dei veri bohémiens. Solamente il caso poteva fornirceli e perciò ci affidammo ciecamente al destino, e non avemmo a pentircene.

Desideravamo specialmente dei miniatori per mandare ad effetto il grande progetto ideato da Ferrol.

Avevamo percorso Torino in tutti i sensi, senza scoprire quelli che cercavamo, quando una sera, passando pel giardino di Carlo Felice scorgemmo, seduto su una panchina, un giovanotto molto allampanato e molto magro, indizio sicuro che non viveva di capperi. Indossava un vestito assai pulito, quantunque d'una moda un po' passata, e sotto il cappello a cencio gli sfuggiva un ciuffo monumentale.

Quel tipo, assolutamente artistico, aveva l'aria di un artista a spasso ed alle prese con l'appetito. Probabilmente aveva già dovuto sostenere delle grandi battaglie col pezzo di pane, a giudicarlo dal suo ciuffo molto brizzolato.

Fumava, con una cert'aria malinconica, una corta pipa di legno e pareva assorto in profonde meditazioni.

— Cosa fa lì quel giovane? — si chiese Ferrol. — Mi pare che sia molto pensieroso, anzi troppo per la sua età.

— Che sia l'uomo che cerchiamo? — chiesi io. — Io ho sempre avuto buon naso e sento che quello lì deve essere un artista.

— Aspetta, — mi disse ad un certo momento il miniatore. — Quella faccia non mi è nuova. —

Il giovinotto non si era nemmeno accorto della nostra presenza. Continuava a fumare, cogli sguardi fissi nel vuoto.

— Io l'ho veduto ancora in qualche luogo, — disse Ferrol, che frugava e rifrugava nella sua memoria, senza poter nulla scavare di concreto.

In quel momento vedemmo il giovanotto scuotersi, quindi cacciare una mano in tasca e levare delle monete.

Le livellò sulla panchina facendo alcuni mucchi, poi disse:

— Questi per la stanza; otto soldi per la cena; due per la candela; due per la carta; uno per arrotare le forbici: anche questa sera si sbarcherà il lunario; e domani?...

Alzò filosoficamente le spalle, riaccese la pipa che gli si era spenta durante quella lunga contabilità; poi si alzò, dicendo:

— Andiamo a lavorare; forse la serata sarà buona.

— Va a lavorare, — mi disse Ferrol. — Che cosa andrà a fare?

— Lavoro notturno, — diss'io. — Che faccia il becchino?

— O che sia qualche giuocatore notturno?

— Vuoi che lo seguiamo?

— Andiamo pure, — disse Ferrol. — Son curioso di vedere dove va a finire. —

E ci mettemmo tutt'e due dietro al giovanotto, convinti di aver trovato il nostro uomo.

Egli se ne andava a lenti passi, mandando in aria buffi di fumo, e sempre concentrato nei suoi pensieri. Probabilmente faceva ancora i conti della sua magra cassa.

Eravamo giunti in via Roma, quando lo vedemmo entrare nell'American Bar.

— Se va al caffè, deve essere un giuocatore nottambulo, — mi disse Ferrol.

— Non sono ancora convinto, — risposi io.

— Vuoi che lo seguiamo ancora?

— Prenderemo una tazza di moka, — diss'io. — Possiamo permetterci questo lusso. —

Entrammo prendendo posto ad un tavolino. Il nostro giovanotto s'era seduto all'estremità della sala, tirando fuori un album ed un paio di forbici.

— Tu devi aver ragione, — mi disse il miniatore. — Quel giovanotto deve essere un membro della grande famiglia.

— L'hai veduto ancora?

— Sì, eppure non ricordo dove. —

Il giovinotto aveva alzato gli occhi e osservava attentamente le persone che occupavano i tavolini. Accortosi che noi lo guardavamo, si alzò e avvicinatosi, a noi ci disse:

— Desiderano qualche ritratto tagliato colle forbici? Garantisco la somiglianza perfetta.

— Siete un artista? — gli chiese Ferrol.

— Sì, un artista, che ha sempre appetito, — rispose l'allampanato giovanotto, con un pallido sorriso.

— Un bohémien, allora.

— E che bohémien! — ci rispose il giovanotto.

— Che cosa sapete fare?

— Un po' di tutto, anche mangiare quando ho dei denari in tasca.

— Vediamo queste silhouettes a punta di forbice, — disse Ferrol.

Il giovanotto si piantò sulle gambe prendendo una posa artistica e preso un pezzetto di carta nera, tagliò destramente un profilo che rassomigliava perfettamente a quello del mio amico.

Dopo d'averlo ingommato su di un cartoncino bianco, ce la porse, dicendo con un certo sorrisetto beffardo:

— Rassomiglianza inconfutabile per soli cinquanta centesimi. Il colmo del buon mercato per concorrenza d'appetito.

— Straordinario, — disse il miniatore.

— E già mi frutta una costoletta, — disse l'artista.

— Dovete guadagnarne molte in una sera.

— Vedono, come son grasso, — disse il giovinotto. — Ne prendo tante, che certe sere i miei denti sono costretti ad un riposo forzato. —

Ebbi una ispirazione.

— Vuole venire, con noi? —

Il giovinotto mi guardò con certi occhi che parevano volessero dire: che questi siano degli impresarii?

— E dove? — mi chiese, poco dopo.

— In campagna.

— Ed a fare che cosa?

— Abbiamo bisogno d'artisti per fondare una famiglia di pazzi.

— Coi pazzi, qualche volta si può star bene, — mi rispose egli, ridendo.

— Sa dipingere?

— Sì.

— Allora lo reclutiamo.

— E dove si va? — insistette.

— In campagna.

— È stato sempre il mio desiderio. Mi piacciono le praterie e anche le fattoresse che hanno il buon vino.

— Lo aspettiamo.

— Il luogo?

— Al Cavallo Rosso.

— Lo conosco. Vi sono stato una volta; poi ho dovuto sloggiare per mancanza di mezzi. Non possedevo che due lire e dovevo spenderne quattro al giorno. Era un lusso esorbitante per le mie forze.

— Cenerà con noi, — disse Ferrol.

— Una cena che cade dal cielo non si può rifiutare a questi lumi di luna. Costano già troppo care.

— Pensiamo noi alla spesa. —

L'artista se ne andò ballando e facendo scoppiettare le dita. Sia che l'emozione avesse paralizzato il suo braccio od irrugginito di colpo le sue forbici, mandò a carte quarantanove la sua fotografia ambulante e si fece servire un vermouth per stuzzicarsi l'appetito. Forse contava su una cena pantagruelica che gli mettesse intorno un po' di polpa.

Qualche ora dopo noi uscivamo tutt'e tre per rientrare qualche minuto più tardi al Cavallo Rosso. La nostra recluta pareva allegrissima e non finiva di ringraziarci della nostra compagnia.

— Sono quattro mesi che sono sempre solo, — ci diceva. — Non sono mai stato capace di scovare un amico, nè qui, nè a Milano, nè a Napoli. Già, gli amici costano qualche soldo ed a me non ne rimane mai uno in fondo alle mie tasche.

— Ne avevo un po' il sospetto, — disse Ferrol. — Lei è così magro! Ingrasserà in campagna. —

Egli ci guardò con un po' di diffidenza

— Loro vogliono scherzare, — ci disse poi.

— Non crede a quanto le abbiamo detto?

— La proposta mi sembra così splendida che stento molto a crederla seria. Mi scusino, signori, ma con me la fortuna fu sempre così malvagia.... Non è stata abbondante che di fame, e che abbondanza! Eppure non rimpiango la mia vita avventurosa. Un vero capitolo da romanzo, glielo assicuro.

— Che noi udremo con piacere, tra due bottiglie di barbèra, — disse Ferrol.

— Articolo pericoloso, — disse l'artista. — Ne ho bevuto così poco del vino, in tre anni! La mia borsa ben di rado mi permetteva di assaggiarne. —

Cenammo allegramente. L'artista non si era fatto pregare e aveva lavorato di denti con un appetito sorprendente. Forse da parecchio tempo non si era trovato ad un festino eguale.

Quando fu sturata la prima bottiglia, egli caricò la sua pipa, e pregato da noi si mise a raccontarci i suoi casi.

La vita di questo povero bohémien, è così interessante che non voglio defraudarne i lettori. Io credo che di fronte agli eroi di Murger, nulla avrebbe avuto da perdere.

Si faceva chiamare Alfonso il Magro ed era bolognese. A sedici anni aveva intrapreso la lotta per l'esistenza, pieno di fatale fiducia sull'esito finale e con tre sole lire in tasca.

L'arte lo chiamava, — diceva lui — e si era gettato risolutamente nel mare artistico. Aveva imparato un po' a dipingere, non tanto da potergli bastare per aprirsi una porta, pure avendo molto ingegno e anche una buona dose di fegato; una bella mattina si era trovato a Milano.

Non aveva appoggi, non conoscenze; come ho detto, il suo patrimonio consisteva in tre sole lire. Un altro si sarebbe spaventato; Alfonso il Magro non si diede nessun pensiero.

L'arte non mancava mica a Milano, anzi abbondava. Tutto stava a saperla prendere per la coda o per le corna.

Il giorno dopo si era trovato senza un soldo. L'arte non gli aveva procurato nemmeno un semplice toscano da cacciarsi in bocca.

Eppure questo intrepido bohémien non disperò ancora. Prese alloggio in una cantina, promettendo di pagare ogni quindici giorni, e si mise a girare come un pazzo, in cerca dell'arte.

Il suo primo guadagno furono centocinquanta lire ricavate da un mazzo di carte, da lui disegnate. Per poco non divenne pazzo, credendosi un piccolo milionario; quando però fece i conti col cantiniere si vide sfumare la fortuna sotto gli occhi.

L'indomani non aveva in tasca che quarantasette soldi. E dire che con quell'inaspettato colpo di fortuna aveva accarezzata l'idea di fare persino un viaggetto di piacere sul lago Maggiore!...

Non potendo andarsene fino a Bellaggio si accontentò di mangiare due soldi di pane e tre di cacio sulla riva del Naviglio.

L'acqua c'era anche là e non doveva essere troppo differente da quella del lago.

Ed eccolo di nuovo alle prese coll'appetito e senza un sigaro. Avesse almeno avuto un misero toscano! Per un momento aveva avuto l'idea di andarsene all'estero, poi vi aveva rinunciato per un motivo molto grave. Le sue scarpe minacciavano di mostrare i denti e poi non aveva tabacco. Colle ruote guaste non si sentiva in grado di sfidare le nevi delle Alpi.

Un mese dopo eccolo disegnatore in uno stabilimento. Che colpo di fortuna! Due e venticinque al giorno! C'era da morire d'indigestione! Da quel giorno sdegnò perfino il cacio. Ne aveva mangiato perfino troppo in quel lungo mese quaresimale. Anzi aveva perfino temuto di diventare un formaggio anche lui.

Ahimè, la fortuna non era fatta per lui! Anche quella miniera si esaurì pel semplice motivo che non rendeva abbastanza per poter tirare innanzi. Qualche giorno gli era mancato non solo il cacio, ma anche il pane quotidiano.

Chissà, forse era diventato sprecone. I moti di Maggio lo decidono ad abbandonare l'ingrata città che dava (diceva lui) più piombo che pane e se ne va in cerca di fortuna a Bologna.

Anche là il povero artista s'accorge che vi sono per le vie più sassi che pani. Dipinge quadri istantanei, fonda un giornale, che muore di sfinimento dopo pochi giorni, rattoppa vecchie pitture, e in cambio dimagrisce.

Allora, disperato, butta via i pennelli e diventa.... direttore proprietario d'una compagnia di canzonettiste. È vero che manteneva la sua truppa a cipolle e patate per poter sbarcare il lunario, pure campavano tutti senza pericolo di morire. Anzi aveva scoperto che le patate gli facevano molto bene.

A Ravenna l'artista fa un nuovo cambiamento. Scioglie la compagnia e un mese dopo si trova segretario del dottor Wandohobb, il celebre suggestionista negro, medium orientale, medico del Sultano di Zanzibar e di altri regnanti africani.

Anche quella era arte, un po' nera se si vuole, ma pur sempre arte. Anzi il bohémien ci prese tanto gusto da debuttare sotto il nome di M.r Alphonse Falnoso, oriundo dell'isola della Guadalupa. Credo che si spacciasse per creolo o figlio di piantatori di tabacco.

Molti probabilmente lo ricordano ancora il magro M.r Falnoso, pittore istantaneo.

Disgraziatamente anche col moro non ebbe fortuna. I due colori, così diversi, non dovevano andare d'accordo molto a lungo. Il nero piantò il bianco nella bellissima Napoli e senza un soldo in tasca.

Fortunatamente il sole era così caldo, che non occorreva nè una casa, nè un caminetto e poi si sa che a Napoli, con un soldo, si hanno dei maccheroni o almeno dei fichi d'India.

Pel nostro futuro collega, che aveva pranzato anche con meno, era molto, tanto anzi, che temeva di fare qualche indigestione.

La vita passata a Napoli fu nondimeno un altro romanzo.

Certi giorni gli era mancato persino quel soldo. Il fumo del Vesuvio e l'incantevole panorama del golfo, pare impossibile, non erano stati sufficienti ad empirgli le budella.

Fra digiuni e qualche rara maccheronata, anche a Napoli non morì. Avrebbe potuto però in un tempo più o meno lungo andarsene a riposare al cimitero se il dottor Moro non fosse ricomparso a tempo a trarlo dal mal passo.

Il suggestionista aveva rimpianto lungamente il suo segretario, e trovatolo a Napoli lo aveva ripreso dopo una scorpacciata di pizza.

Ahimè! Anche quella seconda fortuna fu di breve durata. Il bianco ed il nero, si capisce, non potevano andare d'accordo, ed ecco che a Roma avviene il secondo distacco, in causa d'un maledetto vestito male confezionato.

Il povero bohémien questa volta decide di lasciare l'ingrato paese e di tornarsene verso il settentrione a rimorchio d'una compagnia di comici.

A Torino lascia nuovamente l'arte per darsi ad una nuova industria: le fotografie istantanee a punta di forbice. Magro compenso a tanto ingegno.

Ed ecco come trovammo il nostro artista.

Bisogna dire che il caso ci aveva serviti a dovere.