La Bohême italiana/Capitolo VI. I bohémiens in campagna
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CAPITOLO VI.
I bohémiens in campagna.
Quindici giorni dopo, la famiglia artistica abbandonava i solai di Via delle Scuole per andarsene in campagna.
Non volendo mostrarci al verde al nostro maestro, a sua insaputa avevamo liquidato buona parte dei nostri averi.
Approfittando della sua assenza, Quintino aveva fatto venire l'ebrea della zimarra vendendole i nostri scialli turchi, le nostre stoviglie, quattro sedie che ancora ci rimanevano, due tavole, tre cavalletti da pittura e certe anticaglie di poco valore, ricavando in tutto la cospicua somma di quarantaquattro lire.
Ad un antiquario poi avevamo venduto una pergamena del miniatore e due quadri, ricavandovi altre trentadue lire, e poi Quintino si era disfatto, non senza dolore, dei suoi tulipani che le tenaglie infuocate avevano fatti crescere prosperosi, non ostante il freddo intenso.
Perfino Pumietto, la nostra piccola scimmia, era stata liquidata per nove lire e sette soldi.
Ferrol che voleva un gran bene al piccolo quadrumane, dapprima si era opposto, poi aveva ceduto dinanzi alla ragione finanziaria ed alla solenne promessa di regalargli, alla prima occasione, un pappagallo. Oh, doveva aspettarlo un bel pezzo quel volatile americano!...
La famosa villa di Cavuretto, consisteva in una casettina a due piani, situata al principio della borgatella, in una posizione pittoresca. La campagna promessa veramente era molto piccola: un giardinuccio che sembrava un corridoio tanto era stretto, con un fico e tre viti.
Vi era però una cantina piena di botti. Non erano piene, questo si capisce, tuttavia avevamo molte buone intenzioni intorno a quei numerosi recipienti.
Se Fra Angelico armava, avrebbe pensato lui a riempirle. Sapevamo già che ci teneva anche lui al dolce succo di papà Noe, tanto per non fare torto alle sacre scritture!
Quintino aveva subito trovato che la cucina era oscura e che si prestava poco all'arte culinaria; il pronipote di Spartaco aveva brontolato contro l'orto trovandolo troppo umido e povero di piante; fra Angelico aveva messo subito a posto entrambi con una frase molto semplice e persuasiva:
— Ho pagato io e basta. Andate a cercarvi una villa migliore, se non vi accomoda. —
Cominciava a fare da vero padrone ed eravamo appena in principio!
Ebbi subito il timore che fra maestro e scolari non la dovesse durare molto. Eravamo però decisi a non subire alcuna supremazia da parte di nessuno.
Due giorni dopo, ossia appena assettata la nostra villa, fra Angelico cominciò a far tuonare la sua voce. Era venuto in campagna a lavorare e non intendeva affatto di perdere il suo tempo.
Fu una salva di proteste:
— Io devo fare il cuoco, — gridò Quintino.
— Io non lavorerò finchè non avremo del rigatino, — gridò Ferrol.
— Ed io non prenderò un pennello finchè la cantina è vuota, — diss'io.
— Ed io finchè non sarà spuntata l'insalata che ho seminata ieri, — disse il pronipote di Spartaco.
E faceva ancora freddo!...
Fra Angelico, dinanzi a quella inaspettata resistenza uscì dai gangheri e minacciò di ritornarsene a Roma sull'istante. Lo lasciammo strepitare e andammo all'osteria a giuocare un tressette magistrale.
Diavolo! Non eravamo mica venuti in campagna per lavorare come cani! A fare i papiri egiziani c'era del tempo!
L'indomani la questione si riaccese più violenta che mai e, per paura che il frate scappasse davvero, cominciammo a fare qualche cosa. Una ragione gravissima ci aveva indotti a cedere.
Le ottanta lire ricavate dalle nostre liquidazioni erano sfumate e non avevamo nemmeno tanto da comperarci il tabacco. Quel briccone di Quintino in tre pranzi le aveva fatte andare tutte in fumo. È vero però che avevamo mangiato a crepapelle, il frate compreso.
Essendo ormai il frate il nostro cassiere, bisognava cercare di non costringerlo a scappare. Se avesse lasciato la sua cassa a noi, non se ce ne sarebbe importato molto della sua fuga; ma avendo molti dubbi su questo punto, non ci conveniva a farlo uscire nuovamente dai gangheri.
Dunque cominciammo a metterci al lavoro per fabbricare quei famosi papiri egiziani che, a dire del frate, dovevano farci tutti ricchi come nababbi.
Per un paio di giorni tutto andò bene; al terzo vi fu un tentativo di ribellione pel semplice motivo che il maestro era tutto d'un tratto diventato d'una rigorosità incredibile.
Non ci lasciava un momento di sosta; ci aveva levato il rigatino colla scusa che annebbiava i nostri cervelli e ci misurava il tabacco. Dieci sole pipate per ciascuno in dodici ore di lavoro!
Il quarto giorno ridusse anche le spese della cucina e soppresse il vino. La burrasca scoppiò terribile, verso la fine del pranzo.
— Maestro!... Tu sei un tiranno!... — gridò Ferrol, facendo volare un paio di piatti.
— Ed io non berrò mai di questa porcheria, — urlò Quintino, spaccando la bottiglia dell'acqua. — Fuori il vino!...
— È una ribellione questa? — disse Fra Angelico che era diventato livido per lo spavento.
— E che finirà male per te, maestro!... — gridò il pronipote di Spartaco, saltando sul tavolino.
— Volete uccidermi? — chiese il povero frate, preparandosi a scappare.
— Non sappiamo che farne del tuo sangue, — disse Ferrol, con accento tragico. — Non è vino.
— Ma ti taglieremo la barba, — disse il pronipote di Spartaco.
— La venderemo al nostro parrucchiere che ne cerca una.
— E compreremo tanti pomodori, — disse Quintino.
— E poi ti venderemo la tonaca e prenderemo il tabacco che tu ci neghi, tiranno!... — aggiunse Ferrol.
— Io sono il padrone qui, — azzardò il povero frate. — Voi mi costate troppo.
— Lo spilorcio! — gridarono i bohémiens con indignazione.
Fra Angelico spaventato dalla brutta piega che prendevano le cose, credette miglior consiglio di scapparsene via, rifugiandosi al caffè vicino. Noi fummo pronti a chiudere la porta.
— Era quello che volevo, — disse Ferrol. — Ora faremo una visita alla cantina.
Il maestro non è tipo da contentarsi dell'acqua. A Roma non ne beveva mai, e ci teneva al vino dei Castelli, specialmente dopo le carciofolate.
— Che abbia fatto portare qui del vino a nostra insaputa? — chiese il pronipote di Spartaco.
— Ne sono certo, — rispose il miniatore.
— Andiamo a perlustrare la casa, — suggerì Quintino.
Assicuratici che il maestro si trovava sempre al caffè, incominciammo le nostre ricerche gettando sossopra tutta la casa. Visitata la cantina non trovammo che le bottiglie vuote; i piani superiori non diedero maggiori risultati.
Avendo il frate scelta una camera situata sotto il tetto e che riceveva la luce da un abbaino, mi venne un sospetto.
— Tu, Quintino, che hai un'abilità speciale per arrampicarti sui tetti, va' a fare un'esplorazione fra le tegole, — gli dissi.
— I tetti li conosco, — mi rispose il cuoco della famiglia. — I miei tulipani vegetavano all'aperto, presso le grondaie. —
Salì sull'abbaino e scomparve. Poco dopo la nostra attenzione fu attirata da un grido di trionfo.
— Venite! — gridava Quintino. — Ho trovato il morto!...
In un momento eravamo tutti sul tetto.
Quintino aveva scoperto, dietro un camino, un rispettabile bottiglione coperto di ragnatele, della capacità di una decina di litri.
Osservatolo attentamente ci accorgemmo che era mezzo pieno.
— Briccone d'un maestro! — esclamò Ferrol. — E voleva che noi bevessimo acqua!...
— Saccheggiamo la cantina, — disse il pronipote di Spartaco. —Imparerà ad ingannare gli amici.
— Io vorrei sapere quando ha portato quassù questo morto, — disse Quintino.
— Avrà profittato di qualche nostra scappata, — rispose Ferrol. — Forse quel giorno che noi abbiamo fatto quelle dieci partite a tressette.
— Ne faremo altrettante attorno a questo bottiglione, — suggerì il pronipote di Spartaco.
— E lo vuoteremo tutto, — aggiunse Quintino.
— E poi? — chiesi io — Il maestro andrà in bestia e scapperà via.
— E ci lascerà senza denari, — disse Ferrol.
— Penseremo poi a trovare qualche rimedio, — disse il pronipote di Spartaco.
Mandammo a cercare un mazzo di carte e dei bicchieri e senza occuparci d'altro ci accomodammo sui tetti, a fianco del bottiglione, cominciando una partita di scopone.
Mezz'ora dopo, nessuno pensava al frate. Credo anzi che nessuno più si ricordasse di lui. Tutti però erano concordi nel riconoscere che il bottiglione aveva subìto un alleggerimento considerevole.
Il vino del maestro era squisito, vero barbèra, e scappava via con una rapidità incredibile.
Prima di sera noi ballavamo la tarantella sull'orlo del tetto con un fracassamento straordinario di tegole, a rischio di capitombolare nella via.
Il bottiglione però era quasi vuoto.
Ferrol che non aveva gli occhi del tutto annebbiati e le idee non interamente confuse, mise fine alla pericolosa gazzarra gettandoci uno ad uno nel solaio, non ostante le proteste di Quintino, il quale assicurava di aver veduto un altro morto dietro un secondo camino.
Quando Fra Angelico fece ritorno, noi eravamo già tutti sotto le coltri, pensando al modo di cavarci d'impaccio. Non bisognava lasciargli sospettare che il fiasco era stato vuotato da noi. Se l'avrebbe preso troppo a cuore e sarebbe certamente scappato via portando con sè la cassa.
— È necessario trovare un mezzo qualunque per allontanare qualsiasi sospetto a nostro riguardo, — disse Ferrol, che più di tutti ci teneva a non guastarsi coll'amico.
— Andiamo a gettare in istrada il bottiglione, — suggerì Quintino.
— Un simile morto non può cadere da solo, — osservai io.
— Può credere che sia stato il vento, — disse il pronipote di Spartaco.
— Vi è una calma assoluta al di fuori, — osservò giudiziosamente Ferrol.
— Facciamo i gatti, — disse Quintino. — Siamo nella stagione dei loro amori.
— Splendida idea! — esclamò il pronipote di Spartaco. — Una baruffa di gatti con relativo concerto.
— E rottura del bottiglione, — aggiunse Quintino.
Dopo esserci accertati che il maestro dormiva e molto profondamente, salimmo a piedi nudi sul solaio e di là, approfittando di un altro abbaino, saltammo sul tetto.
Un momento dopo lassù pareva che si fosse radunato un esercito di gatti. Erano miagolii che salivano alle stelle, soffi che parevano mandati da una macchina a vapore e grida che non si sarebbe potuto sapere da quali gote uscissero. Da gatti no certamente, questo ve lo assicuro.
Quei notturni concertisti facevano volare perfino le tegole e battagliavano con tanto furore che per poco Quintino non cadde dalla grondaia.
Ad un certo momento il bottiglione capitombolò nella via con un fracasso tale, da far balzare in piedi il maestro.
Un sandalo, sapientemente tirato da Fra Angelico, andò a rompere il naso al pronipote di Spartaco.
Fu il segnale d'una fuga generale, ma già ormai il nostro scopo era stato ottenuto.
Il povero bottiglione giaceva in mezzo alla via, in non so quanti pezzi ed il nostro onore era salvo.