La Bohême italiana/Capitolo IX. I tristi giorni della bohéme
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CAPITOLO IX.
I tristi giorni della bohème.
Padroni della casa, non vi fu più freno, tanto più che per un caso straordinario eravamo diventati ricchi.
Ferrol aveva fatto delle pergamene e la cassa sociale erasi nuovamente rinsanguata. C'erano dei bei biglietti da cento che altro non chiedevano che di passare in altre mani, specialmente in quelle dei trattori. Figuratevi se noi eravamo disposti ad accontentarli! Era il nostro più ardente desiderio, malgrado le malinconiche riflessioni dell'onesto Quintino. Io non so per quale motivo, da quando la cassa s'era ingrossata, l'amico era stato preso da un accesso incurabile di economia, affatto incompatibile coi nostri temperamenti.
Tanto per festeggiare la partenza dell'irascibile maestro, furono diramati molti inviti ad amici torinesi ed anche a delle amiche. Artiste però, intendiamoci. Se sapessero dipingere questo non lo ricordo bene; mi sembra però che sapessero scrivere.... alla meglio!
In quel pranzo fu sfoggiato un tale sfarzo che per poco il cassiere non si ammalò. Dio!... Che buco fu fatto nella cassa!... Se l'amico Quintino, che ora trovasi nelle foreste dell'Amazzonia, potesse leggere queste righe, si sentirebbe ancora rizzare i capelli!
Lo sperpero delle nostre ricchezze non finì lì. Quella povera cassa aveva un gran da fare ad accontentare i nostri insaziabili desiderii.
I biglietti di banca ballavano disperatamente e quei birboni passavano, con una velocità vertiginosa, in altre mani.
Quintino si desolava. Da mattina a sera predicava l'economia e se ne stava delle ore continue dinanzi alla cassa, contemplando, con occhi malinconici, i pochi biglietti che ancora rimanevano.
In paese si faceva un gran parlare della famiglia artistica. Non sapendo a cosa attribuire la nostra ricchezza s'era persino sparsa la voce che noi fabbricavamo... i biglietti falsi!...
La diceria si era talmente accreditata, che quando andavamo dal trattore o dal tabaccaio, i nostri biglietti subivano un esame minuzioso.
Vi fu anzi un momento in cui avemmo il timore di veder comparire i Reali Carabinieri.
Le donnette invece asserivano che noi avevamo venduto le nostre anime al diavolo, in cambio di non so quale somma favolosa e che eravamo in relazione stretta cogli spiriti. La cosa era corroborata dal fatto che anche dopo la fuga del frate, non avevamo dimenticati i fantasmi. Alla notte, quando ci prendeva l'allegria, ci abbandonavamo a delle ridde scapigliate, vestiti da fantasmi.
Rotolavamo barili, trascinavamo catene, facevamo svolazzare lenzuoli dalle finestre, illuminavamo il tetto della casa. Il pronipote di Spartaco, poi, si divertiva a fare il fantasma sul fico del nostro giardino!...
Ahimè! Tutto ha fine in questo mondaccio, e anche la nostra cassa finì.
Un brutto giorno Quintino, colle lagrime agli occhi, ci diede il triste annuncio che non rimaneva che un pezzo da cinque lire!
E non era tutto. Quello stesso giorno la padrona di casa, con una lettera fulminante, ci invitava ad andarcene non volendo più aver che fare con dei matti della nostra specie!...
Il disastro era completo! I nababbi di ieri ripiombavano nella miseria.
— Lavoreremo, — disse Ferrol, il più filosofo di tutti. — La stagione non è ancora cattiva.
— E la casa? — chiese Quintino.
— Torneremo in Via delle Scuole. Là c'è sempre posto per noi. Andiamo a godere gli agi della Grissinopoli.
— Ben detto! — disse il pronipote di Spartaco. — La campagna non è più fatta per noi.
— E poi questa casa era umida, — aggiunse Ferrol.
— Ed incomoda, — disse il pronipote di Spartaco.
— Siamo stati dei veri stupidi a venire fra questi villani.
— Roba da chiodi!... — aggiunse Quintino.
— Evviva la città! Abbasso la campagna!...
—Sì, morte alla campagna! — tuonò il pronipote di Spartaco.
— Passeremo delle belle serate nel nostro vecchio studio, — disse Ferrol. — Non vi ricordate le allegre cene che vi abbiamo fatte?
— Sì, a base di pomodoro, — disse Quintino, ridendo.
— Assieme a sommi artisti!!!
— Hai ragione, — disse il pronipote di Spartaco. — Fuggiremo da questa casa indecente.
— La lasceremo all'istante, — concluse il miniatore.
La sera, portando con noi l'ultimo pezzo da cinque lire, abbandonammo quella casa, giurando di non farvi più mai ritorno. Tutti accertavano che se ne andavano volontieri; io però ci avevo i miei dubbi. Anzi sorpresi Quintino a sospirare. Certo, egli pensava alle cene ed ai pranzi che avevamo divorati là dentro ed anche all'insalatina dell'orto.
Il nostro ritorno al solaio di Via delle Scuole fu un po' triste. Ferrol, accortosi che noi eravamo un po' preoccupati, fece la proposta di dare fondo alle nostre ultime cinque lire.
— A quale scopo serbare simili miserie? — diss'egli. — Meglio farle sparire. —
E questo povero biglietto di banca fu condannato inesorabilmente a unanimità di voti. Perfino Quintino si era pronunciato per la condanna!
Godendo un po' di credito, battemmo le tasche degli amici per rifornire la nostra soffitta. Comperammo dei cavalletti da dipingere, delle altre sedie, una tavola, e rimontammo il nostro museo.
Meno male che ci erano rimasti i letti. Diversamente saremmo stati costretti a dormire sulle sedie o sui pochi manti della grande tragica, che non avevamo potuto vendere.
Il novembre ed il dicembre trascorsero in alternative or tristi, or liete. Qualche giorno la cassa si rimpinguava: qualche altro rimaneva completamente a secco.
Certe volte facevamo dei pranzi luculliani ed altre eravamo costretti ad accontentarci di qualche aringa condita solamente con un'abbondante dose di buon umore.
Questo, ve lo assicuro, non mancava mai, nemmeno quando non possedevamo tanto da comperarci le candele.
Il lavoro intanto diventava sempre più scarso; aumentava invece, in modo inquietante, il freddo. Già parecchie sedie erano state spietatamente sacrificate, per scaldarci un po' le mani.
Il Natale fu tristissimo per noi. Senza l'ebrea, non so se avremmo potuto comperare il pranzo. La casa era rimasta vuota e non avevamo legna da gettare nella stufa. Con otto lire, ricavate da una vecchia tenda turca, fu rimediato a tutto.
Quintino economizzò quelle poche lire così bene, da offrirci, la sera, un delizioso moka.
Col nuovo anno la famiglia andò in dissoluzione. Il pronipote di Spartaco se n'era già andato, forse per non dividere più oltre le nostre miserie; poi se n'era pure andato il nostro Quintino.
Egli s'era impegnato con un giornalista transatlantico, di seguirlo nell'Amazzonia assieme alla spedizione Franzoi, e con suo grande rincrescimento aveva dovuto abbandonarci.
La partenza di quel valoroso bohémien, fu per noi un colpo fierissimo. Il nostro solaio ci parve fosse diventato più freddo della Siberia.
Ah!... Bravo e fedele amico, quante volte io e Ferrol, nelle tristi e lunghe serate invernali, ti abbiamo rimpianto!... Tu avevi portato con te un lembo dei nostri cuori, il migliore.
Per consolarci della sua assenza e per rallegrare un po' la nostra soffitta.... andai a cercarmi una Mimì artista.
Quella brava ragazza divise coraggiosamente con noi le cattive giornate, sempre serena, sempre sorridente.
Ci faceva da cuoca, quando poteva farlo, ci accomodava la biancheria e ci teneva di buon umore quando combattevamo coll'appetito. Solamente una cosa non poteva soffrire.
Quando ci udiva rimpiangere Quintino, si arrabbiava, dicendoci:
— Non ci sono forse io? —
Quando venne la primavera, la nostra Mimì cambiò improvvisamente umore. Sentiva forse il bisogno di aspirare aure migliori? Io lo credo. Forse era anche stanca di dividere le nostre miserie.
Un giorno rientrando nella nostra soffitta, non la trovammo più. Sul tavolino aveva lasciato questo semplice biglietto:
«Vado in America in cerca di Quintino».
Essa ci aveva abbandonati precisamente come la Mimì di Murger!.... Aveva avuto torto a lasciarci, perchè pochi giorni dopo un inaspettato colpo di fortuna, riempiva la nostra cassa in modo da scoppiare.