La Biennale di Dakar/Dak'Art e l'arte contemporanea africana

Biennale di Dakar

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Introduzione Il contesto senegalese della Biennale di Dakar

La Biennale di Dakar è un ottimo punto d’osservazione per comprendere alcuni meccanismi dell’arte contemporanea africana. Fin dalla sua prima edizione Dak’Art fu un luogo d’incontro internazionale nel 1992 le esposizioni rivolsero essenzialmente l’attenzione all’Occidente1, mentre dal 1996 gli sforzi degli organizzatori si concentrarono nell’arricchire i collegamenti tra gli artisti e gli operatori del settore africano e nell’inserirli all’interno del circuito mondiale dell’arte. La Biennale di Dakar ha oggi un’esperienza di quattro edizioni consacrate all’arte contemporanea africana, con la partecipazione di un vasto numero di artisti e con il coinvolgimento di critici, curatori e galleristi internazionali; Dak’Art ha inoltre la particolarità di presentare un panorama dell’arte contemporanea africana estremamente eterogeneo, grazie alla diversità delle sue mostre ufficiali e grazie al vivace contributo delle esposizioni parallele.

Il mondo dell’arte contemporanea africana

Il mondo dell’arte contemporanea africana è costituito dai suoi artisti, ma anche dalle numerosissime persone e istituzioni che lavorano in questo settore e che lo promuovono, in Africa e in Occidente.

L’interesse internazionale per gli artisti africani Documenta di Kassel e la Biennale di Venezia

Gli artisti africani partecipano oggi alle grandi mostre ed espongono nelle gallerie del mondo. Documenta di Kassel e la Biennale di Venezia hanno confermato nelle loro ultime edizioni questo cambiamento l’Occidente è interessato agli artisti di tutti i continenti e l’arte contemporanea è oggi considerata a pieno titolo “non esclusivamente occidentale”.

Nel 2002 Documenta XI2 presentò la selezione del curatore di origine nigeriana Okwui Enwezor, che diede spazio ad artisti di tutto il mondo documentando la società post-coloniale3. Okwui Enwezor – curatore tra l’altro della Biennale di Johannesburg del 1997 – organizzò per Documenta non soltanto un’ampia mostra a Kassel, ma gestì il suo mandato quinquennale creando anche delle Platform, ovvero dei simposi realizzati in continenti diversi. Queste piattaforme offrirono un’ampia immagine dell’arte mondiale, spostandosi e dimostrando che l’Occidente non è l’unico centro, ma ne esistono tanti4.

Anche la 50° Biennale di Venezia presentò nel 2003 artisti africani o di origine africana; il direttore Francesco Bonami coordinò infatti la mostra internazionale di Venezia affidando a più curatori la realizzazione di diverse esposizioni e tra queste anche Fault Lines/Smottamenti5 di artisti africani e di origine africana, organizzata da Gilane Tawadros in cooperazione con il Forum for African Arts; anche altri artisti africani furono invitati alla Biennale del 20036 all’interno delle mostre internazionali o dei padiglioni oltre all’Egitto7, anche il Kenya8 allestì uno spazio e l’Olanda espose opere di artisti residenti nel paese ma di varie origini e nazionalità9; gli Stati Uniti e la Gran Bretagna organizzarono invece le personali di Fred Wilson (1954) e Chris Ofili (1968), entrambi di origine africana. Il cambiamento di tendenza diventa più chiaro confrontando questi eventi con le loro precedenti edizioni il numero di artisti africani o di origine africana è infatti aumentato in modo estremamente significativo e, col tempo, le loro opere sono state svincolate dalle mostre esclusivamente nazionali.

Il cambiamento appare evidente osservando le diverse edizioni di Documenta di Kassel e della Biennale di Venezia il numero degli artisti africani che attualmente hanno accesso a queste importanti vetrine è aumentato in modo estremamente significativo rispetto al passato.

Documenta IX del 1992 fu diretta da Jan Hoet e offrì una selezione soltanto delle sculture di Ousmane Sow (1935, Senegal) e di Mo Edoga (Nigeria/Germania); Documenta X del 1997 – curata da Catherine David – espose all’ultimo momento10 i video di Oladélé Ajiboyé Bamgboyé (1963, Nigeria) e di William Kentridge (1955, Sudafrica), ma invitò diversi critici del mondo dell’arte contemporanea africana ai dibattiti11.

Per quanto riguarda la Biennale di Venezia, nel 1922 alla Biennale di Venezia XIII parteciparono i “paesi africani” (Angola, Casai, Alto Congo, Basso Congo, Foci del Congo, Camerun, Alto Nilo e Lago Manganica) in una mostra a cura dei professori Carlo Anti e Aldo Brandino Mochi all’interno delle sale straniere ed internazionali; nello stesso anno fu anche allestita un’esposizione storica di scultura nera12. L’Egitto fece il suo ingresso a Venezia XXIV nel 1948 con il commissario Mohamed Maghi Bey (direttore dell’Accademia d’Egitto di Roma)13, mentre il Sudafrica partecipò alla Biennale XXV (1950) coordinato da John Paris, direttore della Galleria Nazionale Sudafricana14; nel 1958 (edizione XXIX) la Tunisia presentò i suoi artisti con il commissario Elmekki Hatim, nel 1960 (edizione XXX) anche la Liberia e nel 1968 il Congo Kinshasa (edizione XXIV) a cura della Società Africana di Cultura (Presenza Africana)15. Nel 1990 (edizione XLIV) furono allestite le opere di artisti dalla Nigeria e dallo Zimbabwe, nello spazio “paesi africani” a cura di Kinskasa Holman Conwill e Grace Stanislaus e fu organizzata l’esposizione Contemporary African Artists dello Studio Museum di Harem (Stati Uniti)16. Nel 1993 (edizione XL, diretta da Achille Bonito Oliva) i “paesi africani” rappresentati nelle sale straniere del Padiglione Venezia con il commissario odinatore Susan Vogel furono la Costa d’Avorio (a cura di Gerard Santoni) ed il Senegal (a cura di Ousmane Sow); Thomas McEvilly ed il Museum for African Art di New York allestirono l’esposizione itinerante Fusion West African Artists at the Venice Biennale, con Moustapha Dimé (1952, Senegal), Tamessir Dia (1950, Mali/Costa d’Avorio), Ouattara (1957, Costa d’Avorio/Francia/Stati Uniti), Gérard Santoni (1943, Costa d’Avorio) e Mor Faye (1947-1984, Senegal)17. Nel 1995 (edizione XLVI) fu organizzata un’altra esposizione itinerante coordinata da curatori occidentali, mentre il direttore della Biennale Jean Clair non inserì nessun artista africano nelle mostre internazionali, così come fece Germano Celant nel 1997 (edizione XLVII)18. Nel 1999 (edizione XLVIII) Harald Szeemann presentò all’interno dell’esposizione d’aPERTutto l’installazione di Georges Adéagbo (1943, Benin) che vinse una menzione d’onore della giuria ed il video d’animazione di William Kentridge (1955, Sudafrica). Nel 2001 (edizione XLIX) lo stesso direttore Harald Szeemann espose in La Platea dell’Umanità le sculture di Sunday Jack Akpan (1940, Nigeria) ed i video di Tracey Rose (1974, Sudafrica) e di Minnette Vari (1968, Sudafrica); nella Piattaforma del pensiero furono collocate le sculture di Seni Camara (1945, Senegal), John Goba (1944, Sierra Leone), Peter Wanjau (Kenya), Cheff Mway (1931, Kenya), Jean Baptiste Ngnetchopa (1953, Camerun) e le fotografie di Ousmane Ndiaye Dago (1951, Senegal); durante la Biennale del 2001 fu anche presentata tra le mostre parallela Authentic/Ex-Centric Africa in and out of Africa curata da Salah Hassan e Olu Oguibe in collaborazione con il Forum for African Arts19. Ery Camara fu tra i membri della giuria internazionale della Biennale di Venezia del 2001, mentre Koyo Kouoh tra i membri dell’edizione del 200320.

Osservando gli artisti e i critici coinvolti nelle grandi mostre di Documenta di Kassel e della Biennale di Venezia si può notare che esistono dei collegamenti tra le presenze africane e la Biennale di Dakar il legame non è diretto, ma spesso si tratta degli stessi protagonisti.

La prima edizione d’arte della Biennale di Dakar del 1992 nacque in contemporanea con l’invito dell’artista senegalese Ousmane Sow a Documenta IX di Kassel; Ousmane Sow espose nel Festival Mondial des Arts Nègres del 1966, alla Biennale di Dakar del 1992 e fu membro del Comitato Scientifico di Dak’Art dal 1996 al 2000 e del Comitato Internazionale nel 1998. John Goba e Ouattara Watts (più noto semplicemente come Ouattara) parteciparono a Dak’Art nel 1992, Tamsir Dia nel 1996, 1998 e nel 2002, Oladélé Ajiboyé Bamgboyé e Bodys Isek Kingelez nel 1998, Ousmane Ndiaye Dago nel 1998 e nel 2002, Tracey Rose nel 2000 e Moataz Nasr nel 2002. L’opera di Pascale Marthine Tayou fu oggetto di una personale nel 1996, quella di Antonio Ole nel 1998 e quella dell’artista cubano Kcho (invitato alla Biennale di Venezia nel 1999) nel 1998. All’interno degli eventi paralleli della Biennale di Dakar, Georges Adéagbo fece una performance nel 1996, le opere di Frédéric Bruly Bouabré furono esposte in una collettiva di artisti della Costa d’Avorio nel 1998 e William Kentridge proiettò nel 2000 i suoi video e diresse un laboratorio di cinema d’animazione al Centro Culturale Francese di Dakar.

Tra i critici e curatori, Clémentine Deliss fu presente alla Biennale del 1992 come inviata della rivista “Third Text” e durante Dak’Art 1996 organizzò negli eventi paralleli l’Atelier Tenq e la pubblicazione “Métronome”. Achille Bonito Oliva (direttore della Biennale di Venezia nel 1993) fu invece il presidente del Comitato Internazionale di Dakar nel 1998. I curatori Salah Hassan e Olu Oguibe dell’esposizione parallela alla Biennale di Venezia del 2001 Authentic/Ex-Centric Africa in and out of Africa presentarono il progetto di mostra ed il Forum for Contemporary Arts durante la Biennale di Dakar del 2000, in un colloquio con il direttore artistico della Biennale di Venezia Harald Szeemann; due degli artisti di Authentic/Ex-Centric esposero a Dak’Art Godfried Donkor nel 1998 e Berni Searle nel 2000. Salah Hassan fu anche invitato ad intervenire all’interno dei dibattiti sulle Biennali Internazionali nel 2002, diretto da Koyo Kouoh. Ery Camara fu il presidente del Comitato Internazionale della Biennale di Dakar del 2002.

Confrontando la Biennale di Dakar con i grandi eventi internazionali è anche importante notare l’assenza di alcuni celebri artisti africani all’interno delle mostre di Dak’Art. Il problema è dovuto da una parte al sistema di selezione dei partecipanti (vincolati dalla presentazione di un dossier di candidatura) e dall’altro al desiderio di diversi artisti noti in particolare in Occidente di non partecipare ad esposizioni focalizzate esclusivamente sull’Africa.

Il problema della modalità di selezione degli artisti a Dak’Art è in parte attenuato dalla presenza delle Esposizioni Individuali (che permettono a curatori internazionali di scegliere gli artisti invitati con una certa libertà) e degli eventi paralleli. E’ anche vero che il compito della Biennale di Dakar – essendo una mostra che promuove l’arte contemporanea africana – è forse più quello di esporre artisti meno noti internazionalmente che di omaggiare artisti di fama già consolidata. Yinka Shonibare, Meschac Gaba, Ghada Amer e Kendell Geers restano comunque tra i più celebri assenti della Biennale di Dakar.

Lo sviluppo dell’arte contemporanea africana

Gli artisti africani che hanno accesso alle grandi mostre e alle gallerie occidentali sono comunque ancora pochi e quelli che ne hanno la possibilità sono spesso residenti fuori dal continente; in Africa le strutture che hanno la capacità di promuovere gli artisti a livello internazionale sono infatti estremamente rare. Va comunque sottolineato che l’arte contemporanea africana ha una sua storia (fatta di protagonisti, istituzioni, pubblicazioni ed esposizioni) ed una sua critica d’arte21, che negli ultimi dieci anni è cresciuta e si è sviluppata in modo particolarmente significativo, sia in Occidente che in Africa. Il continente non è dunque nuovo (da scoprire e vuoto), non è immobile (legato cioè soltanto alle sue tradizioni ancestrali), né isolato, né esclusivamente povero22.

Tra gli anni Venti e gli anni Sessanta, l’arte contemporanea africana cominciò a svilupparsi alcuni artisti africani esposero in Occidente e scuole, laboratori d’arte e musei furono aperti in diversi paesi dell’Africa; i centri europei e statunitensi presentarono in particolare mostre d’arte coloniale e collettive di scuole d’arte africane ed i professori di questi istituti erano essenzialmente occidentali. In questi anni diverse società africane di cultura furono fondate, come quella di Parigi nel 1955 e quella americana nel 1957.

Nel 1962 Frank McEwen diresse il primo congresso internazionale di cultura africana (ICAC) a Salisbury in Rodesia (oggi Harare, capitale dello Zimbabwe), all’interno del quale furono organizzate tre esposizioni23. L’evento che però diede una forte scossa all’arte e alla cultura africana fu il primo Festival Mondial des Arts Nègres del 1966, la colossale manifestazione organizzata a Dakar dall’allora presidente del Senegal Léopold Sédar Senghor il Festival radunò occidentali ed africani per mostrare al mondo quanto l’Africa fosse interessante. Oltre a diventare un evento mitico il Festival fu anche un ottimo promotore delle collezioni di arte africana, facendo aumentare le quotazioni e le vendite (nonché i furti sul continente). Altri festival provarono poi ad imitare la gloria del primo, ma nessuno riuscì ad ottenere un simile rimbombo. Ci provarono in Algeria ed ancora in Nigeria, ma nessun successo. Il continente bisbigliava qualche mostra all’estero, qualche acquisto di collezionisti e turisti, qualche nuova scuola e galleria. Per dare una scossa a questi piccoli semi, bisognò attendere “i maghi della terra”.

L’esposizione Magiciens de la Terre fu organizzata nel 1989 da Jean-Hubert Martin, che radunò opere dai cinque continenti, mescolando artisti di fama internazionale con artisti scoperti dai suoi collaboratori. In pratica gli assistenti di Martin (tra i quali André Magnin) – facendosi consigliare da antropologi ed etnografi – se ne andarono a spasso per gli Stati più remoti della terra a caccia di talenti, ovvero di “maghi”. Trovarono una pittrice di case del Botswana, un eccentrico costruttore di bare, dei fantasiosi pittori… e portarono tutti in mostra a Parigi, nel prestigioso centro Pompidou. La mostra fece esplodere una miriade di critiche, aprì un nuovo mercato e si rivelò un ottimo annaffiatoio tutti i piccoli semi dell’arte contemporanea africana che erano già stati piantati in passato, cominciarono a crescere, per dichiarare che non erano per niente d’accordo con la visione dell’esposizione. La mostra sollevava infatti alcune questioni centrali erano solo questi gli artisti dell’Africa? Per essere un artista africano bisognava per forza vivere in una capanna ed essere “scoperto” o si poteva vivere in città e magari collaborare con una galleria di New York? Era necessario che fosse l’Occidente a promuovere l’arte africana o ci poteva pensare l’Africa? E soprattutto, perché Magiciens de la Terre sembrava essere la sola e prima mostra d’arte contemporanea non-occidentale, quando da tempo degli artisti africani già esistevano ed esponevano?

Per rispondere a queste domande e per proporre visioni diverse da quella presentata in Magiciens de la Terre, aumentarono le riviste (tra le quali la francese “Revue Noire”, la statunitense “NKA” e la spagnola “Atlantica”) e si moltiplicarono le esposizioni in Occidente ed in Africa. In Africa in particolare furono organizzate delle nuove Biennali, che si aggiunsero a quella del Cairo la Biennale di Dakar dal 1992, quella di Johannesburg in Sudafrica (con solo due edizioni nel 1995 e nel 1997) e quella della fotografia africana in Mali dal 199424; il Festival del Cinema Africano (FESPACO25) del Burkina Faso dal 1972 e il Salone dell’Artigianato (SIAO26) dal 1988, il Mercato della Spettacolo Africano (MASA27) della Costa d’Avorio dal 1993 e, dal 1995, gli incontri della coreografia a Luanda e poi ad Antananarivo28.

Oggi in Africa esistono musei, gallerie d’arte e progetti per artisti; le infrastrutture e le capacità di promozione internazionale di queste istituzioni sono meno sviluppate che in Occidente, ma il panorama è comunque sempre più ricco29. Nel Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria di Dak’Art e tra gli invitati a dibattiti e conferenze sono stati inseriti anche responsabili di centri d’arte e gallerie africane, come Marième Samb Malong della galleria MAM del Camerun, Abrade Glover direttore della galleria Artists Alliance del Ghana, l’artista El Anatsui professore di arte all’università Nsukka in Nigeria, il collezionista senegalese Amadou Yassine Thiam, la conservatrice del museo d’arte d’Algeri e del Museo del Louvre Malika Dorbani ed il direttore del National Arts Council delle Seychelles Peter Pierre-Louis nella giuria del 2000; Ali Louati (direttore della Maison des Arts di Tunisi) ed il collezionista del Togo Edem Kodjo nel 1998, mentre la conservatrice del Museo di Marrakesh Sakira Rharib nel 2002. La direttrice dello Spazio Vema di Dakar Bineta Cisse e la storica dell’arte Simone Guirandou-Ndiaye direttrice della galleria Arts Pluriels di Abidjan30 sono state invitate ai dibattiti della Biennale del 1996.

Magiciens de la Terre

Magiciens de la Terre del 1989 resta una delle esposizioni d’arte contemporanea africana più conosciute, citate ed imitate. E’ importante notare che soltanto tre artisti di Magiciens de la Terre parteciparono alla Biennale di Dakar (Bodys Isek Kingelez, Chéri Samba e Cyprien Tokoudagba nel 1998) ed il curatore Jean-Hubert Martin non fu mai invitato tra i membri della giuria. Molte esposizioni – compresa Dak’Art – presero infatti le distanze da questa mostra francese, cercando un approccio diverso; Magiciens de la Terre resta comunque un evento fondamentale per comprendere l’evoluzione dell’arte contemporanea africana e della sua percezione.

L’idea di Magiciens de la Terre31 nacque nel 1983 quando Claude Mollard propose a Jean-Hubert Martin, divenuto poi direttore del centro Pompidou, il progetto di un’esposizione internazionale legata alla Biennale di Parigi. Francois Barré, presidente della Grande Halle de la Villette, suggerì poi di legare la realizzazione del progetto al suo centro, essendosi ormai conclusa la storia della Biennale con la sua terza edizione. Con il sostegno finanziario della Scaler Foundation, di André Rousselet a nome di Canal + e con Jack Lang al Ministero della Cultura, l’esposizione divenne l’evento artistico della celebrazione del Bicentenario della Rivoluzione. La mostra fu focalizzata sugli artisti dei paesi non occidentali e le ricerche cominciarono nel 1984 con Jean-Huber Martin (divenuto poi Commissario Generale dell’esposizione) e con il Comitato di Concezione, formato da Jan Debbaut, Mark Francis (poi Commissario Delegato) e Jean-Louis Maubant. Si unirono a loro come commissari aggiunti Aline Luque e André Magnin. L’esposizione fu quindi presentata tra il 18 maggio e il 14 agosto del 1989 a Parigi, promossa dal Museo Nazionale d’Arte Moderna Centre Georges Pompidou e dalla Grande Halle La Villette. Gli artisti africani che parteciparono a Magiciens de la Terre furono Sunday Jack Akapan (1940 circa, Nigeria) con grandi sculture in cemento, Dossou Amidou (1965, Benin) con delle maschere colorate, Frédéric Bruly Bouabré (1923, Costa d’Avorio) con fantasiosi disegni a matitia, Seni Camara (1939 circa, Senegal) con sculture antropomorfe, Mike Chukwukelu (1945, Nigeria) con sculture fatte di tessuto e pupazzi, Efiaimbelo (1925 circa, Madagascar) con statue su lunghi bastoni, John Fundi (1939, Mozambico) con delle sculture, Kane Kwei (1924-1992, Ghana) con bare/sculture, Bodys Isek Kingelez (1948, Congo Kinshasa) con modelli di città, Agbagli Kossi (1934-1991, Togo) con sculture di uomini e serpenti, Esther Mahlangu (1935, Sudafrica) con i disegni geometrici con i quali decora le case, Henry Munyaradzi (1933, Zimbabwe) con sculture di testi, molto lineari e semplici, Chéri Samba (1956, Congo Kinshasa) con la sua pittura tanto vicina al fumetto, Twins Seven Seven (1944, Nigeria) con intricati disegni di personaggi, natura e animali, Chief Mark Unya e Nathan Emedum (Nigeria) con sculture di fili di lana e Cyprien Tokoudagba (1954, Benin) con disegni e sculture geometriche di uomini e animali.

Secondo i testi in catalogo, dopo una riflessione sui metodi e sui criteri, la selezione degli artisti cominciò con visite agli atelier, investigando sui luoghi d’arte e sulle comunità artistiche, partendo da indagini bibliografiche, contatti con etnografi, mercanti d’arte, esperti locali e altri artisti. Individuati dei gruppi, i ricercatori incaricati passarono poi alla scelta dei nomi, isolando i protagonisti più interessanti (come raccontano nel catalogo Mark Francis32 e André Magnin33). Gli artisti, che avevano comunque tutti un contatto con l’Occidente e la sua cultura, vennero così individuati cercando opere che comunicassero valori metafisici, “un senso” (da qui la scelta di “Magiciens” nel titolo, evitando di usare la parola “arte” che è un concetto estraneo a molte culture). Furono adottati gli stessi criteri che si usano per artisti occidentali, applicandoli con la flessibilità richiesta da contesti diversi i criteri furono l’originalità e l’invenzione rispetto al contesto culturale; la relazione dell’artista con il suo ambiente, adesione o critica; la corrispondenza tra le idee dell’artista e la sua opera ed il cammino dell’artista che lo conduce a radicalizzare le sue idee, traducendole in forme attraverso procedure estreme e l’attenzione al processo creativo più che alle qualità formali delle opere, per sottolineare la diversità creativa e le sue molteplici direzioni. Furono generalmente scartati gli artisti che si ispirano al “primitivismo”, non volendo essere un’esposizione basata sulla similitudine formale, e non furono incluse opere sulla cui autenticità si avevano dubbi, opere che per la nostra percezione e le nostre conoscenze risultavano mal comprese o incomprese queste opere infatti, secondo Martin34, risultavano “invisibili”, perché non era possibile un approccio (non avendo certi segni un rapporto con qualcosa di conosciuto o essendo le caratteristiche stilistiche estranee al nostro gusto occidentale). Non furono nemmeno incluse le opere inscindibili dal loro ambiente e opere che apparivano con contenuti marginali rispetto ai nostri occhi di occidentali o che erano marginali nel loro contesto. Furono inseriti anche artisti occidentali per non ghettizzare gli artisti dei paesi terzi, collocandoli ingiustamente in una categoria etnografica. Le opere ovviamente furono poi scelte con il gusto e la sensibilità soggettiva dei ricercatori. Jean-Hubert Martin35 sostiene infatti che se si fosse cercato di dare oggettività e assolutezza a queste scelte si sarebbe caduti nell’incomprensione da parte del pubblico. L’esposizione doveva quindi cristallizzare delle tendenze, delle aspirazioni e delle sensazioni latenti, presentando delle opere che avessero il ruolo dello sconosciuto e del riconoscibile, senza la pretesa di essere eclettici ed esaustivi. I problemi più difficili da risolvere furono legati alle etichette schematiche occidentali che non erano applicabili a certe situazioni locali (come gli oggetti decorativi o artigianali che in altre culture hanno significati e contenuti legati alle credenze comunitarie e al senso del sacro). La comprensione di certe opere risultava a volte difficile poiché slegate dal loro contesto; a volte invece venivano apprezzati e valorizzati dei lavori per un nuovo significato dato dai ricercatori. Fu così lasciato il compito dell’interpretazione a chi faceva parte della cultura presa in esame. Gaudibert36 mette in luce nel suo testo i problemi di giudizio legati da una parte al pericolo di vedere gli artisti “altri”, epigoni e pallidi imitatori degli artisti occidentali e al pericolo di essere giudicati paternalistici o neo-colonialisti se si sostengono i propri artisti, con l’accusa di sfruttare un alibi esotico; d’altra parte, sottolinea Gaudibert, esiste un problema di valutazione legato all’oggettiva difficoltà di giudicare culture molto diverse dalla nostra. E’ quindi necessario, secondo Gaudibert, tenere presente la collocazione decentrata degli artisti (nel rapporto centro e periferia analizzato nel testo di Soulillou37), senza però rinunciare a dei criteri di qualità creatrice; la situazione è più delicata, nota Gaudibert, quando si tratta di giudicare artisti legati ad una suscettibilità nazionale, alla fierezza dell’indipendenza e a dei modelli occidentali dominanti. Le riflessioni presenti nell’esposizione si basarono su due principi quello della relatività delle culture e quello dell’evoluzione costante dei comportamenti, non necessariamente un’evoluzione che significa progresso. Nonostante si possa credere, con uno sguardo superficiale, che attualmente ci sia un’uniformità e un appiattimento delle mentalità e dei costumi, in realtà – nota Jean-Hubert Martin38 – la resistenza e l’affermazione delle culture autoctone si è moltiplicata e intensificata, anche grazie alla televisione. La presenza di nuovi influssi e l’adozione di nuovi modelli, con una circolazione orizzontale delle idee, delle immagini, delle persone, degli artisti e una circolazione verticale nella somma e nello sviluppo di tradizioni che si adattano, si arricchiscono, si diversificano (Gaudibert39), non necessariamente distruggono l’integrità e la purezza locale (Mark Francis40), ma sono caratteristiche della situazione culturale attuale dominata dall’interazione. Partendo dall’analisi e dalla critica delle idee comunemente ammesse sull’arte dei paesi del Terzo Mondo, l’esposizione cercò di mostrare la creatività di artisti contemporanei fuori dal mondo occidentale (differenze, non diversità come sottolinea Homi Bhabha41), senza inserirli nella categoria della sopravvivenza di tradizioni ancestrali, ritenuta completamente anacronistica. Secondo la distinzione di Thomas McEvilley42 tra esposizione modernista ed esposizione postmoderna, Magiciens de la Terre fu un esempio di esposizione postmoderna. Partendo dal presupposto che un’esposizione è una proposizione che suggerisce la qualità degli elementi esposti e la loro importanza, secondo McEvilley un’esposizione definisce la storia ponendo come universale la validità del suo contenuto e influenzando il gusto. McEvilley mostra come le esposizioni su opere di culture diverse venissero organizzate inserendo gli oggetti esposti in categorie occidentali (in spazi museali che davano il senso della sacralità) per dimostrare una superiorità del gusto del gruppo al potere (quindi gli occidentali colonialisti) e ponendo gli occidentali come gli unici interpreti validi degli oggetti del mondo. Questo approccio modernista, che sottomette i popoli stranieri, viene così contrapposto ad un approccio postmoderno, che pone la posizione occidentale ad un livello paritario con le altre, dimostrando che le categorie, i criteri e il gusto non hanno una validità innata, ma sono legati al loro contesto, insistendo sulle differenze ed eliminando le gerarchie. In Magiciens de la Terre l’autore notò infine le contraddizioni nella distinzione bipartita tra autori Occidentali e non-Occidentali, (cinquanta e cinquanta nell’esposizione, suddivisione sproporzionata rispetto alla popolazione dei due gruppi) e non approvò il metodo operato per la scelta degli artisti (selezionati da ricercatori occidentali e non da specialisti locali), ma volle sottolineare l’approccio postmoderno di un’esposizione che voleva mostrare la situazione dell’arte contemporanea in tutte le sue frammentazioni e diversità. L’obiettivo dell’evento fu quindi elaborare i criteri e le teorie di una cultura di dialogo interculturale, pluriculturale e transculturale, in cui nessuna cultura fosse ritenuta superiore, ampliando il significato dell’aggettivo “internazionale” che veniva riferito a tutto il globo, non solo all’Europa Occidentale, agli Stati Uniti e al Giappone (Gaudibert43), e portando gli artisti dei paesi del terzo mondo a partecipare alla vita artistica come protagonisti contemporanei (senza generalizzazioni sui loro problemi), togliendoli dal silenzio al quale li ha relegati l’Occidente.

Senza dubbio Magiciens de la Terre fu un evento di grande visibilità, che ebbe il merito di mostrare che anche l’arte contemporanea africana può accedere ai centri d’arte più prestigiosi ed essere in dialogo con artisti di tutto il mondo44. Secondo Okwei Enwezor e Olu Oguibe45, la mostra ritorna continuamente e ancora oggi nelle discussioni critiche (specialmente per quanto riguarda l’opera degli artisti contemporanei di discendenza non-europea), a causa della visione postmoderna che all’epoca stava cominciando ad avere un influsso, mettendo in discussione il modernismo che non accettava contaminazioni estetiche e che aveva un suo preciso schema di valori esclusivi; in teoria Magiciens de la Terre voleva essere postmoderna, in pratica il metodo era ancora legato al modernismo e la selezione era basata più sull’eterogeneità che sulle idee propriamente postmoderne (gli artisti non-occidentali in confronto a quelli occidentali apparivano casi curiosi).

La questione del metodo e dei criteri nella scelta degli artisti restava dunque aperta; la diversità di critici e di curatori permisero alle successive esposizioni internazionali di presentare selezioni di tutti i tipi alcuni continuarono ad esporre e commercializzare gli artisti della famiglia Magiciens de la Terre, altri focalizzarono l’attenzione sulla ricerca nei singoli paesi, altri ancora si occuparono di promuovere i protagonisti dell’arte africana a pari livello con i protagonisti occidentali; lo sforzo della Biennale di Dakar si può collocare in quest’ultimo gruppo, con tutti i limiti che la mostra ancora dimostra. Alcuni artisti di Magiciens de la Terre, insieme ad altri, furono inseriti nella collezione di Jacques Soulillou, grazie alle ricerche di André Magnin46. Sarenco ed Enrico Mascelloni organizzarono ad Orvieto l’esposizione Il ritorno dei Maghi – Il Sacro nell’arte africana contemporanea47 con uno spirito e con uno stile molto simile a quello della quasi omonima mostra del 1989, ma con maggiore attenzione verso gli artisti dell’Africa orientale48. Alla Biennale di Lione del 200049, lo stesso Jean-Hubert Martin presentò una nuova selezione di artisti africani50, tra i quali solo Esther Mahlangu aveva partecipato a Magiciens de la Terre (a Lione Esther Mahlangu creò un’opera in collaborazione con Sol le Witt).

Le Riviste

Le riviste specializzate nella cultura dei paesi non-occidentali ebbero ed hanno tutt’oggi un ruolo centrale nella promozione dell’arte contemporanea africana. Numerosi responsabili e giornalisti di queste pubblicazioni hanno partecipato alla Biennale di Dakar, come inviati, ma anche come membri dei dibattiti e del Comitato Internazionale. Le riviste radunano molti dei protagonisti della critica d’arte contemporanea africana e sono promotrici di pubblicazioni, esposizioni e conferenze, attraverso le loro case editrici o istituzioni.

Tra le riviste storiche che si occupano di cultura africana, si possono citare “Présence Africaine” (fondata a Parigi nel 1947 da Alioune Diop e oggi solo casa editrice), “African Forum” (fondata dall’American Society of African Culture e pubblicata dal 1965 al 1967), “Cultural Events in Africa” (fondata a Londra nel 1965 con annunci e recensioni di mostre in Gran Bretagna e in Africa)51 e “African Arts”. “African Arts” è legata all’Università della California e fu fondata nel 1967; Polly Nooter-Roberts – attualmente presidentessa del Art Council African Studies Association e di “African Arts” – è stata membro del Comitato Internazionale di Dak’Art 199652.

La rivista francese “Revue Noire” ebbe un ruolo importante nella promozione della cultura contemporanea africana e fu molto legata alla Biennale di Dakar. La rivista pubblicò 34 numeri tra il 1991 ed il 1999; nel 1999 “Revue Noire” continuò le sue attività come casa editrice e come rivista on-line53, ma interruppe la pubblicazione cartacea del trimestrale. Fin dall’inizio la rivista si caratterizzò per un’edizione prestigiosa e per monografie e dossier tematici per paese o per argomento, più focalizzati sulla rappresentazione fotografica di una splendida Africa (vivace e artistica) che sull’approfondimento critico. La rivista è comunque ancora oggi un importante strumento per conoscere la situazione artistica di molti paesi, con attenzione a tutte le arti arti visive (tra le quali anche la fotografia), architettura, danza, teatro, letteratura, moda e cinema54; durante la Biennale di Dakar del 1996, “Revue Noire” organizzò la mostra Les Artistes africains et le Sida, ovvero Gli artisti africani e l’AIDS. La rivista fu fondata da Jean Loup Pivin, Simon Njami, Bruno Tilliette e Pascal Martin Saint Léon; col tempo fecero parte del comitato di redazione anche Pierre Gaudibert, Jacques Soulillou, André Magnin (soltanto per il primo numero), Francisco d’Almeida, Everlyn Nicodemus, N’Goné Fall (assistente di redazione dal 1994 e poi direttrice di redazione dal 1999), Clementine Deliss, Etienne Féau e Isabelle Boni-Claverie. I collaboratori della rivista cambiarono a seconda del tema e del paese preso in esame55; tra questi si possono ricordare Yacouba Konaté56 e Brahim Alaoui57. Jean Loup Pivin fu membro del Comitato Internazionale di Dakar nel 199658, Simon Njami59 nel 20007 e N’Goné Fall nel 200260.

Altre riviste che promuovono la cultura contemporanea africana sono la britannica “Third Text”, la spagnola “Atlantica”, la statunitense “NKA, Journal of Contemporary African Art”, la francese “Africultures” e l’italiana “Africa e Mediterraeneo”. “Third Text” è la rivista quadrimestrale pubblicata dalla londinese Kala Press e fondata da Rasheen Araeen già nel 1987, alla quale collaborano tra gli altri Olu Oguibe, Everlyn Nicodemus, Colin Richards, Gerardo Mosquera e Gilane Tawadros61. “Third Text” ha il sottotitolo “Third world perspectives on contemporary art and culture” che ben spiega il suo interesse per l’arte non-occidentale, per gli artisti della diaspora e per i temi della globalizzazione, del dialogo e dell’internazionalità; nel 1993 la rivista pubblicò un numero speciale sull’arte africana, coordinato da Olu Oguibe e con interventi anche di Ulli Beier, El Anatsui, John Picton e Clementine Deliss. “Atlantica” è il trimestrale del Centro Atlantico de Arte Moderno (CAAM) di Las Palmas de Gran Canaria, nata nel 1990 con lo stesso obiettivo del centro, ovvero promuovere il dialogo tra Africa, Americhe ed Europa. La rivista ha pubblicato saggi critici, recensioni e progetti d’artista; hanno collaborato con la rivista anche Antonio Zaya (direttore), Octavio Zaya (editore associato), Orlando Britto Jinorio, Ery Camara, Eugenio Valdés Figueroa, Simon Njami, Clementine Deliss, Olu Oguibe, Okwui Enwezor, Salah Hassan, Colin Richards, Clive Kellner, Achille Bonito Oliva, Francesco Bonami, Gerardo Mosquera, Hou Hanru, Rhaseed Araeen, Candice Breitz e Rosa Martinez. “NKA, Journal of Contemporary African Art” è legarta alla Cornell University e fu creata da Okwui Enwezor, Salah Hassan e Olu Oguibe nel 1994; fanno parte del Comitato Scientifico anche Gerardo Mosquera, Colin Richards, David Koloane; tra i collaboratori della rivista vi sono Candice Breitz, Octavio Zaya, Clive Kellner, Kendell Geers, Francesco Bonami e Khaled Hafez. “Africa e Mediterraneo” – dal 1999 sotto la direzione editoriale di Sandra Federici – si occupa in particolare di arte, cultura e società Africana con dossier tematici e saggi di esperti nel settore; la pubblicazione e la casa editrice a lei collegata è curata dalla cooperativa Lai-momo, che promuove anche progetti culturali, insieme all’associazione senza scopo di lucro “Africa e Mediterraneo” fondata nel 2002. In particolare la cooperativa Lai-momo ha realizzato progetti innovativi sul fumetto africano con partner internazionali raccogliendo il materiale e i contatti, creando un premio, pubblicando dei cataloghi e dei testi di supporto didattico e organizzando numerose mostre in Italia. Per quanto riguarda l’arte, ha anche allestito mostre di scultori dello Zimbabwe, di pittori eritrei, di artisti del Mozambico e di fotografi africani. L’esposizione Transafricana è stata organizzata da “Africa e Mediterraneo” in collaborazione con Mary Angela Schroth (collaboratrice della rivista e curatrice della Sala 1 di Roma). Andrea Marchesini Reggiani di “Africa e Mediterraneo” e della cooperativa Lai-momo ha visitato la Biennale di Dakar del 2000 e del 2002. Vi sono anche molte pubblicazioni on-line l’olandese “Africaserver.nl”62 legata al Visual Museum of Contemporary African Art63 fondato da Fons Geerlings e Maarten Rens nel 2001; “Africancolour.com”64 creata e gestita dal 2000 dall’artista olandese Carla Van Beers; la tedesca “Universes in Universe”65 focalizzata sull’arte e la cultura di tutti i paesi non-occidentali (con recensioni, schede degli artisti, bibliografie, informazioni su istituzioni, gallerie, organizzazioni e finanziamenti). Tra i responsabili di altre riviste pubblicate in Occidente che hanno partecipato alla Biennale di Dakar tra i membri del Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria vi è anche Chantal Ponbriand nel 1998 (della rivista canadese del Québec “Parachute”); la rivista francese “Beaux Arts” ha pubblicato il catalogo della Biennale di Dakar del 1992 e “Cimaise” quelli del 1996 e del 1998.

Le riviste di arte contemporanea africana in Africa sono spesso riviste on-line, come la sudafricana “Arthrob”66 fondata da Sue Williamson o come l’egiziana “Cairo Art Index”67 fondata da Brian Wood e Iman Issa. Esistono poi alcune pubblicazioni legate a gallerie ed istituti, come “Gallery” in Zimbabwe (creata nel 1994 della Delta Gallery Publications) o come “New Culture A Review of Contemporary African Arts” in Nigeria (fondata nel 1978 dal New Culture Studies di Ibadan)68. In Zimbabwe, la rivista “Gallery” è diretta da Barbara Murray, che fu curatrice della Galleria Nazionale dello Zimbabwe e assistente alla galleria Tengenenge; inizialmente nel paese vi fu la rivista “Insight” (una pubblicazione di otto pagine in bianco e nero, di qualità, ma irregolare nelle sue uscite) prodotta dalla Galleria Nazionale, seguita poi dalla pubblicazione più generica e meno specializzata “The Artist” ed infine da “Southern African Arts”, con solo due numeri ed una diffusione modesta. “Gallery” della galleria Delta nacque quindi per soddisfare la necessità di una rivista di critica, che stimolasse il dibattito e l’interesse per l’arte nazionale e della Africa australe, senza essere esclusivamente legata alla galleria Delta69.

Organizzazioni e curatori

Esistono poi organizzazioni e curatori indipendenti che promuovono l’arte contemporanea africana, svolgendo ricerche sulla situazione artistica in Africa o finanziando e curando progetti d’arte (esposizioni, incontri internazionali, residenze d’artista, opere site specific); sovente queste organizzazioni e questi curatori sono collegati alla Biennale di Dakar.

L’OCPA – Observatory of Cultural Policies in Africa è nato nel 2002 ed è diretto da Pierre Dandjinou ed è essenzialmente legato all’UNESCO (con finanziamenti anche dell’Organisation for African Unit e dalla Fondazione Ford). L’Associazione Culture e Developpement70 ha sede a Parigi ed è presiduta da Etienne Féau, con Francisco d’Almeida come delegato generale. L’AICA – Associazione Internazionale dei Critici d’Arte è stata coinvolta nella Biennale di Dakar attraverso finanziamenti e con la presenza del suo rappresentante francese Marie-Claude Volfin all’edizione del 1996. L’organizzazione francese Afrique en Créations, parte dell’AFAA – Association Français d’Action Artistique e del Ministero degli Esteri Francese, finanzia numerosi eventi in Africa e dal 1996 sostiene la Biennale di Dakar, con particolare attenzione al design. Danièle Giraudy – conservatrice dei Musei di Francia – fu membro del Comitato Internazionale di Dak’Art 1998, mentre Céline Savoye – commissario generale della Biennale di Design di Saint-Etienne 2002 – nel 2002. Anche la Comunità Francese del Belgio finanzia la Biennale di Dakar e Daniel Sotiaux, uno dei suoi delegati, fu nella giuria del 1996; France Borel, direttrice della Scuola Nazionale di Arti Visive CAMBRE di Bruxelles71, fu membro del Comitato Internazionale di Dak’Art 2002, mentre nel 1998 lo furono il gallerista Lucien Billinelli e la designer Diana Porfirio, sempre di Bruxelles. In Belgio esistono anche le organizzazioni Africalia e Camouflage72.

Tra le gallerie che promuovo gli artisti africani si possono ricordare quella di Dany Keller di Monaco di Baviera73 (diretta dalla stessa Dany Keller che fu nel Comitato Internazionale di Dakar nel 1996), l’Espacio C di Camargo in Spagna curato da Orlando Britto Jinorio74, l’October Gallery di Londra e la Bluecoat di Liverpool75 il cui direttore Brian Biggs è stato invitato ai dibattiti di Dak’Art 1996 insieme a William Karg, della Galleria d’arte contemporanea africana di New York. In Italia la Sala 1 di Roma, diretta da Mary Angela Schroth76, ha organizzato esposizioni d’arte contemporanea africana, mentre le gallerie Fabbrica Eos77 e Lia Rumma78 di Milano e la galleria Spazia di Bologna promuovono alcuni artisti africani. L’associazione senza scopo di lucro COSV di Milano ha allestito nel 2002 una mostra di artisti del Kenya, mentre la critica d’arte e curatrice Martina Corgnati pubblica articoli ed espone artisti di tutta l’Africa spesso in collaborazione con Sarenco ed Enrico Mascelloni79. Bruno Corà, direttore del Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato80 fino al 2002, è stato membro del Comitato Internazionale di Dak’Art 2002, insieme al curatore indipendente spagnolo Pep Subiros81, mentre Alfons Hug (curatore alla Hauses der Kulturen des Welt di Berlino82) fu invitato nel 1998 e David Elliott (direttore del Museo di Arte Moderna di Stoccolma) presiedette la giuria nel 2000.

In Canada esiste anche la Fondation Daniel Langois pour l’art, la science et la technologie di Montréal83 che durante la Biennale del 2002 (all’interno del forum sulle nuove tecnologie) presentò i finanziamenti per i progetti artistici legati allo sviluppo informatico, destinati ad organizzazioni africane; questa fondazione sta attualmente sostenendo Il Centro culturale multimediale Kheur Thiossane di Sicap Liberté II a Dakar, in collaborazione con Artfactories (un network di centri culturali multidisciplinari84) e Mains d’Œuvres (un centro multidisciplinare nei pressi di Parigi85). Anche la critica e curatrice canadese Sylvie Fortin (che fu tra i membri della giuria della Biennale di Dakar del 1992 e lavorerà per la Galleria d’Arte di Ottowa) nel 1999 fu coinvolta nel simposio di Montreal intitolato Contact Zone African Art and New Technologies, sostenuto dall’ISEA. ISEA sta per Inter-Society for the Electronic Arts86 un’organizzazione senza scopo di lucro internazionale nata nel 1988 in Olanda e poi trasferita a Montreal nel 1995. L’organizzazione promuove lo sviluppo dell’arte elettronica; nel 1997-98 ricevette un contributo dalla stessa Fondazione Daniel Langlois e nel 1999 promosse il progetto Afrique Virtuelle/Virtual Africa, che tra le sue azioni ebbe anche l’attività Dakar Web. Dakar Web fu un laboratorio di formazione ed iniziazione alle nuove tecnologie che si svolse a Dakar (nello spazio Metissacana) dall’1 al 24 febbraio e fu gestito da tre artisti canadesi, Eva Quintas, Michel Lefebure e Catherine McGovern. Dominque Fontane, curatrice del Museo Canadese delle Civilizzazioni del Québec, fu membro del Comitato Internazionale di Dak’Art nel 1998.

La critica d’arte africana

Il concetto di arte contemporanea “africana” si basa ovviamente su una categoria geografica implica una selezione in base al continente d’origine o di residenza degli artisti, presuppone una distinzione tra arte africana e arte occidentale e genera diverse prospettiva, ovvero la prospettiva di chi è in Africa e chi no, tra chi è africano e chi no ed infine tra chi è al centro e chi no. Occuparsi di “arte contemporanea africana” significa dunque essere coinvolti non soltanto in dibattiti legati alla critica d’arte, ma anche legati alle logiche di mercato, alla globalizzazione e alla giustizia. Per questo motivo coloro che si occupano di arte contemporanea africana sono critici, curatori ed istituzioni molto diverse tra loro, con punti di vista estremamente discordanti.

Le categorie

L’Africa dell’arte contemporanea è estremamente vasta, ricca ed eterogenea, anche a causa dei suoi movimenti migratori. Per cercare di individuare delle caratteristiche comuni nella produzione di questo immenso e variegato continente, critici e curatori hanno cercato di limitare il campo utilizzando diverse categorie. Focalizzare l’attenzione su un evento – come può essere la Biennale di Dakar o come potrebbe essere la Biennale di Johannesburg o la presenza degli artisti di origine africana alla Biennale di Venezia o a Documenta di Kassel – offe la possibilità di studiare l’arte contemporanea africana dal semplice punto di vista dell’evento stesso, limitando il campo d’indagine e permettendo di valutare le scelte e gli orientamenti degli organizzatori, dei critici invitati e degli artisti in esposizione. Le esposizioni di artisti africani sono infatti obbligate a fare delle scelte ed i criteri sono punti di vista che focalizzano l’attenzione su alcuni aspetti della produzione degli artisti. Le mostre tematiche suggeriscono già alcune priorità.

Per esempio l’esposizione Primitivism in 20th Century Art87, a cura di William Rubin del 1984 focalizzò l’attenzione sul rapporto tra arte non-occidentale e l’Occidente stesso, utilizzando un termine come “primitivismo”, estremamente combattuto dalla critica d’arte africana per la sua connotazione negativa. Lo sviluppo e l’importanza delle città apparve invece evidente nella mostra di Pep Subiros Africas The Artist and the City – A Journey and an Exhibition88 del 2001, mentre l’attenzione alla religione è centrale nella Biennale della Pittura Islamica di Teheran89 e nel progetto e negli studi di Polly Nooter-Roberts90. L’aspetto razziale, oltre ad essere presente nella scelta del titolo stesso del primo Festival Mondial des Arts Nègres91 del 1966, appare anche nella Biennale dell’Arte Contemporanea Bantu di Libreville in Gabon92.

Anche le pubblicazioni sulla storia dell’arte contemporanea africana offrono chiavi di lettura per la comprensione del panorama africano. I testi focalizzano l’attenzione sulle diverse generazioni di artisti, sulla loro formazione e nazionalità, sul legame con la tradizione, sulla situazione delle donne, sull’indagine dell’identità e del territorio e sul ruolo della colonizzazione e le sue conseguenze postcoloniali93.

André Magnin e Jacques Soulillou in Contemporary Art of Africa94 del 1996 valorizzano il legame con la tradizione; il testo di Teresa Macrì Postculture95 del 2002 sottolinea le conseguenze della colonizzazione e analizza la caratteristica migratoria dell’arte africana nel periodo postcoloniale. In molte storie dell’arte africana, la centralità è data alla suddivisione in generazioni di artisti, alla loro nazionalità e alla loro formazione (scuole, movimenti, artisti autodidatti), come nei testi fondamentali di Ulli Beier del 196896, Pierre Gaudibert del 199197 e di Jean Kennedy del 199298 e di Sidney Littlefield Kasfir del 199999. Women and Art in South Africa100 del 1996 di Marion Arnold e Dialogue of the Present – 18 Contemporary Arab Women Artists101 del 1999 a cura di Siumee H. sono due esempi di testi focalizzati sul ruolo delle donne nell’arte africana. African Art A Contemporary Source Book102 di Osa Egonwa è invece una pubblicazione molto particolare, creata per degli studenti, senza approccio geografico, ma attenta ad un’estetica africana e anche ad un’indagine del suo contesto.

La critica ha tentato di classificare l’arte contemporanea africana distinguendo anche diverse correnti, in base alla formazione degli artisti, agli stili e al pubblico a cui sono destinate le opere.

Per André Magnin e Jacques Soulillou103 l’elemento tradizionale è fondamentale e contiene un significato spirituale profondo che nutre gli artisti dal nord al sud del continente, insieme ad un senso della comunità che è ancora importante nell’arte contemporanea africana, seppur mutato nel tempo. Il testo Contemporary Art of Africa suddivide gli artisti in tre gruppi territorio (con artisti come Efiaimbelo, John Fundi, Seni Camara, Cyprien Tokoudagba, Esther Mahlangu, Georges Lilanga e Robert Farris Thompson) frontiera (con artisti come Kane Kwei, Sunday Jack Akpan e John Goba) e mondo (con artisti come Cheri Samba, Moke, Cheik Ledy, Willie Bester, Richard Onyango, Bodys Isek Kingelez e Frédéric Bruly Bouabré). All’intero di ciascun gruppo gli artisti sono poi suddivisi tra artisti che rientrano in alcuni movimenti (scuole, tendenze, generi…) e artisti che si muovono in modo individuale. Un suddivisione molto comune è quella in tendenza ispirata alla tradizione, tendenza modernista e arte popolare, come suggerisce V.Y.Mudimbe104. Critici come Salah Hassan, Olu Oguibe e Okwei Enwezor hanno poi proposto nel catalogo della mostra Authentic/Ex-Centric105 la categoria di concettualismo anche nell’arte contemporanea africana.

La Biennale di Dakar – non avendo un solo direttore artistico e presentando numerose mostre ed eventi – permette di osservare tutte queste categorie nelle sue diverse esposizioni, all’interno dei dibattiti e nelle opere degli artisti stessi; in questo modo Dak’Art si collega ad un più vasto panorama dell’arte contemporanea africana.

La categoria geografica

Gli artisti africani partecipano alle grandi mostre ed espongono nelle gallerie del mondo in quanto “artisti africani”, piuttosto che come semplici “artisti”. La loro provenienza è un criterio di analisi e valutazione l’indicazione del paese d’origine è sottolineata, invece che trascurata a favore della semplice qualità delle opere. La categoria geografica è comunque un aspetto che caratterizza l’arte contemporanea in generale.

L’indicazione del paese d’origine degli artisti è sottolineata nelle esposizioni internazionali. La Biennale di Venezia – con la sua organizzazione in padiglioni nazionali – ne è un esempio particolare con alcune eccezioni, come l’Olanda che nel 2003 ha presentato un’esposizione di artisti “da tutto il mondo” residenti nel paese o come le mostre internazionali della Biennale di Venezia che – organizzate per tema – cercano di unire gli artisti invece di dividerli, ma indicano sempre – a fianco delle opere – oltre al titolo, alla tecnica e al nome dell’autore, anche il loro paese d’origine.

Durante la Biennale di Dakar del 2002, Bruno Corà – curatore di una delle Esposizioni Individuali – ha provato a presentare i suoi artisti senza indicazioni geografiche le opere di Kounellis, Plensa e West sono state esposte senza alcun commento scritto. Il tentativo è stato però fallimentare poiché la mostra risultava difficilmente leggibile. I lavori degli artisti erano infatti più noti in Occidente che in Africa e – nella loro particolare collocazione di Dakar – assumevano significati diversi rispetto a quelli che avrebbero avuto in una galleria europea. L’indicazione geografica avrebbe aiutato le opere ad essere maggiormente comprensibili, situandole in un contesto (paradossalmente) esotico e quindi più accettabile. L’esempio migliore è quello offerto dall’opera di Jannis Kounellis, importante esponete dell’Arte Povera italiana Senza Titolo 2002 era composta da diversi sacchi di juta, contenenti spezie e cereali di colori diversi. L’opera esposta davanti o in una galleria occidentale avrebbe certamente sottolineato – anche per l’importanza riconosciuta dell’autore e per la sua storia – l’interesse di Kounellis per la rottura della tela e per una “pittura” creata con oggetti semplici, che cercano la bellezza e la creatività nelle cose ovvie, in un mondo strapieno di mercanzie, commerciale ed interessato solo a comprare e buttare. Dakar però non è strapiena di mercanzie, non è poi così commerciale e non è interessata solo a comprare e buttare; i sacchi di juta pieni spezie e cereali di colori diversi sono forse la sola cosa facilmente reperibile sul mercato e per questo è praticamente impossibile comprendere perché diventino nelle mani di Kounellis un’opera d’arte (come invece sarebbe evidente anche se ambiguo davanti o dentro una galleria occidentale). Il grande errore della mostra fu quindi la mancanza di un effettivo rapporto tra l’artista e il luogo.

Anche la Biennale di Dakar basa la sua prima selezione sulla categoria geografica la Biennale è finalizzata alla promozione dell’arte contemporanea africana e gli artisti invitati all’Esposizione Internazionale e al Salone del Design devono avere la nazionalità di un paese dell’Africa.

La categoria geografica della Biennale di Dakar è meno rigida di quanto possa sembrare. Dak’Art ha infatti aperto le porte nel corso del tempo anche ad artisti della diaspora (ovvero artisti delle comunità nere delle Americhe e dei Caraibi) e ad artisti di altri continenti, grazie alle Esposizioni Individuali organizzate da diversi curatori internazionali. Le esposizioni parallele offrono poi la possibilità ad artisti di tutte le nazionalità di esporre davanti al pubblico della Biennale, senza alcuna restrizione geografica.

I confini dell’Africa

Il concetto di “arte contemporanea africana” è quindi una categoria geografica, che ha posto e pone tutt’oggi diversi problemi. L’Africa è un continente di dimensioni e di varietà straordinarie, i cui confini sono tutt’altro che chiari il mondo dell’arte contemporanea africana non è infatti solo africano, non è stanziale e non è esclusivamente residente sul continente106. Come ovunque nel mondo, si muovono sia gli artisti che i critici e i curatori. Le mete più comuni degli africani in Occidente sono Londra, Parigi, New York, Amsterdam e Bruxelles studiano, lavorano, si trasferiscono, aprono centri d’arte e associazioni, espongono ed acquisiscono una nuova nazionalità. Allo stesso tempo anche numerosi occidentali risiedono nelle grandi capitali africane creano gallerie, collaborano con organizzazioni internazionali, comprano e collezionano opere d’arte, organizzano progetti di cooperazione, espongono ed acquisiscono anch’essi una nuova nazionalità. Il fenomeno non è certo recente. Questi continui movimenti interni ed esterni hanno caratterizzato tutta la storia del continente le migrazioni, le conquiste arabe, il colonialismo, la deportazione degli schiavi e la conseguente diaspora nera, l’immigrazione di comunità libanesi e asiatiche, la crescita delle città sono solo alcuni esempi che danno un’idea di quanto l’Africa e la sua storia non sia né immobile né omogenea107. La conseguenza di tutti questi spostamenti è la difficoltà di definire il mondo dell’arte africana, i suoi artisti e quali siano i criteri per identificarli, ovvero quale sia la definizione di africanità; allo stesso tempo gli spostamenti sono anche alla base delle riflessioni sul territorio e sull’identità degli artisti.

In Africa sono numerosi i responsabili di gallerie ed i critici d’arte occidentali o di origine occidentale. Ruth Schaffner è una gallerista statunitense che si è poi trasferita in Kenya; il suo ruolo è stato fondamentale della promozione degli artisti kenioti, attraverso la galleria Watatu di Nairobi (Ruth Schaffner è stata membro del Comitato Internazionale di Dak’Art nel 1996 ed è morta il 15/03/1996, prima dell’apertura della Biennale). Un altro gallerista da ricordare è il canadese William Wells della Townhouse Gallery, che svolge al Cairo un ruolo fondamentale nella promozione dei giovani artisti egiziani. Marie-Laure Croiziers de Lacvivier (membro del Comitato Internazionale di Dak’Art nel 1992) è promotrice d’arte africana ed è una collezionista (soprattutto di artisti senegalesi) franco-senegalese; è stata assistente ai programmi dell’UNESCO a Dakar dal 1964 al 1988 e poi si è dedicata all’arte, come consulente (lo è stata per Afrique en Créations) e come organizzatrice di mostre e di scambi culturali; nel 1997 è stata membro della giuria dei Giochi della Francofonia per la pittura. Ci sono poi artisti occidentali residenti in Africa un esempio è il ceramista di origine italiana Mauro Petroni che ha partecipato agli eventi paralleli della Biennale di Dakar ed ha coordinato quelli del 2002.

In Occidente vivono numerosi artisti108, critici/curatori109 e collezionisti africani o di origine africana; Camouflage di Bruxelles è un’organizzazione interessante e particolare. Camouflage è diretta dall’artista Fernando Alvim attraverso la sua casa di produzione Sussuta Boé Contemporary Art Producer e si definisce un satellite europeo di arte contemporanea africana; sotto il nome di European Satellite si svolgono infatti le esposizioni del centro Camouflage, la pubblicazione della rivista “co@rtnews”, il programma di residenza per artisti Area, l’archiviazione del materiale d’arte Autopsia e l’organizzazione di progetti internazionali; tra questi ultimi vi è la creazione di centri di promozione dell’arte africana (satelliti) in diverse nazioni e regioni dell’Africa Sudafrica (CCASA), Angola (TACCA), Kenya (CCAEA) e Senegal (CACAO, diretto da Koyo Kouoh). L’idea particolarmente interessante dell’European Satellite è di funzionare in Europa come un Centro Culturale Africano, ovvero nello stesso modo in cui può funzionare il Centro Culturale Francese a Dakar; l’arte contemporanea africana in Europa quindi viene promossa a livello istituzionale, con numerosissimi contatti internazionali e con l’obiettivo di collegarsi a centri d’arte prestigiosi europee110. L’artista dell’Angola Fernando Alvim è stato selezionato per l’Esposizione Internazionale della Biennale di Dakar del 1998, ma la sua opera – pubblicata sul catalogo – non è arrivata in tempo per la mostra; Fernando Alvim ha anche curato la collezione d’arte contemporanea africana di Hans Bogatzke111, che è stato membro del Comitato Internazionale nel 2000 e ha selezionato per le Esposizioni Individuale l’opera del sudafricano Kay Hassan.

L’aspetto economico

Il concetto ed i confini dell’arte contemporanea africana sono influenzati anche dalle priorità dei finanziatori. I finanziamenti possono determinare le caratteristiche delle esposizioni e dei progetti d’arte africana possono determinare se gli eventi devono coinvolgere esclusivamente artisti africani, se devono essere organizzati da istituzioni senza scopo di lucro africane oppure occidentali in collaborazione con quelle africane, se devono far partecipare il numero maggiore di persone, se devono ripercuotersi con effetti positivi sullo “sviluppo” del paese o del continente, se devono implicare le nuove tecnologie, se possono essere acquistati immobili… la maggior parte dei finanziamenti che promuovono l’arte contemporanea africana sono infatti legati a programmi di sviluppo del sud del mondo, piuttosto che a programmi di promozione dell’arte (solitamente nazionali) e ne consegue che l’aspetto che più interessa agli sponsor è l’“africanità” degli eventi, piuttosto che la semplice qualità artistica. L’arte contemporanea africana si mescola così con l’artigianato (contro la disoccupazione), con i disegni dei bambini (per l’ampia partecipazione) e con le opere di artisti mediocri selezionati unicamente in base al paese d’origine (per il ruolo attivo di tutti i paesi in via di sviluppo). In compenso il sistema ha anche i suoi vantaggi tra i privilegiati ci sono gli artisti che sanno come richiedere dei fondi presentando dei buoni progetti (l’importante è infatti che l’Africa produca, non che cosa) ed i curatori che espongono l’arte contemporanea africana.

La Biennale di Dakar è essenzialmente sostenuta dall’Unione Europea. Per quanto ci siano altri sponsor, l’Unione Europea è la fonte maggiore di sostegno ne consegue che se questa definisce delle priorità, Dak’Art esegue. Quando nel 1996 la Biennale stabilì di consacrasi esclusivamente alla promozione dell’arte contemporanea africana, l’Unione Europea fu uno dei promotori di questo cambiamento di rotta – per quanto molto felice ed apprezzato anche da numerosi critici – perché voleva destinare i suoi contributi esclusivamente agli artisti e agli operatori di settore dell’Africa112. Così come fa l’Unione Europea, anche altri finanziatori indicano le loro priorità Afrique en Création per esempio sceglie i paesi a cui destinare i fondi e lo stesso fanno le fondazioni che scelgono di promuove eventi e progetti specificatamente destinati all’Africa o organizzati in Africa (ad esempio la Fondazione Canadese Daniel Langlois che ha un programma che lega l’arte alle nuove tecnologie nei paesi in via di sviluppo)113. Il paese d’origine degli artisti e degli organizzatori degli eventi ha dunque un ruolo centrale nella ricerca di finanziamenti. Un altro esempio è la mostra Authentic/Ex-Centric114 allestita dal Forum for Contemporary Arts durante la Biennale di Venezia del 2001. I curatori Olu Oguibe e Salah Hassan presentarono il progetto a Dak’Art 2000 e, in un dibattito con Harald Szeemann (direttore della Biennale di Venezia del 2001), discussero la partecipazione dell’Africa alla Biennale italiana. Il paradosso deriva dal fatto che la Biennale di Venezia – essendo strutturata in padiglioni nazionali – non può contenere un padiglione africano, perché l’Africa non è una nazione; e poi che autorità ha il Forum for Contemporary African Arts per decidere quali artisti scegliere, quali curatori nominare e come rappresentare l’immensa Africa? Olu Oguibe, Salah Hassan e il Forum for Contemporary Africa Arts ottennero però di far inserire la loro esposizione tra gli eventi paralleli alla Biennale di Venezia e Harald Szeemann espose comunque degli artisti africani all’interno della sua selezione intitolata La Platea dell’Umanità. Se Olu Oguibe e Salah Hassan avessero proposto una mostra internazionale svincolata dall’Africa, probabilmente non avrebbero mai discusso dell’evento con Harald Szeemann, non sarebbero mai stati finanziati dalla Fondazione Ford e non sarebbero arrivati così vicino alla Biennale di Venezia, uno dei più importanti eventi di arte contemporanea del mondo. Authenic/Ex-Centric ottenne molto successo e, al di là di come arrivò a Venezia, fu un evento di buona qualità, con opere interessanti e con un ricco catalogo-pubblicazione.

L’aspetto economico è fondamentale per comprendere anche la commercializzazione dell’arte contemporanea africana in Occidente da parte di collezionisti e gallerie è infatti possibile acquistare opere d’arte in Africa ad un prezzo molto basso e rivenderle ad un prezzo estremamente superiore in Occidente115, fermo restando che è comunque necessario investire di più nella ricerca degli artisti e nella loro promozione. I collezionisti ed i galleristi hanno dunque un interesse nell’acquistare un’arte ancora poco conosciuta, poco costosa ed in crescita116.

Una mossa economica in questa direzione è la collezione di Jean Pigozzi (CAAC Jean Pigozzi Contemporary African Art Collection), nata dopo la visita alla mostra Magiciens de la Terre del 1989 e creata con l’aiuto del critico e curatore André Magnin durante le sue spedizioni di ricerca mell’Africa sub-sahariana. Dalla collezione nacque la mostra itinerante Africa Now del 1991117, le esposizioni The Jean Pigozzi Contemporary African Art Collection at the Saachi Collection del 1992118 e Big City Artists from Africa del 1995119 e la pubblicazione a cura di André Magnin e Jacques Soulillou Contemporary Art of Africa del 1996120. La collezione di Pigozzi (conservata a Ginevra e per questo spesso esposta da Paolo Colombo nelle sale del MAMCO e del Centro d’Arte Contemporanea della città121) fu poi in parte venduta dalla casa d’aste Sotheby’s di Londra il 24 giugno 1999122. L’asta di Sotheby’s registrò un prezzo di vendita molto superiore alle cifre stimate nella valutazione, raggiungendo prezzi quadruplicati per le fotografie di Malik Sidibe e Seidou Keita e per i fantasiosi dipinti di Georges Lilanga123.

L’autenticità

La curiosità per l’arte contemporanea africana (lontana, esotica e tutta da scoprire) e i finanziamenti a lei collegati possono essere d’aiuto anche alla promozione degli artisti e alla creazione di progetti tutt’altro che scadenti, ma partecipano anche alle creazione della categoria di “arte contemporanea africana”, che i critici stessi non sempre sostengono. Le incoerenze si moltiplicano da un lato alcuni critici, curatori, artisti ed istituzioni parlano di “arte contemporanea africana” per accedere ai finanziamenti e per promuovere gli artisti dell’Africa ed il loro inserimento nel circuito dell’arte internazionale; dall’altro dichiarano che gli artisti africani devono essere riconosciuti esclusivamente per il valore delle loro opere. Oppure sostengono che l’arte non è “geografica”, ma poi inveiscono (dai loro appartamenti di New York) contro i colleghi occidentali che non potranno mai capire l’arte di un mondo a loro così sconosciuto e che analizzano gli artisti africani come protagonisti esotici e lontani, senza ritenerli degni di accedere – alla pari degli artisti occidentali – al mondo internazionale dell’arte.

Il critico, curatore ed artista d’origine nigeriana ma residente negli Stati Uniti Olu Oguibe nel testo Art, Identity, Boundaries Postmodernism and Contemporart African Art124 comincia con il racconto di un’intervista ad Ouattara curata dal critico Thomas McEvilley, che esordisce con la domanda “Quando e dove sei nato?” (Ouattara è nato in Costa d’Avorio nel 1957, ma è vissuto in Francia e negli Stati Uniti dagli anni Ottanta) e continua con indagare più la vita che l’opera dell’artista. Olu Oguibe utilizza questo esempio per inveire contro la percezione della territorialità marginale dell’arte africana, contro un sistema che relega i suoi protagonisti nella periferia del mondo e che li trasforma in un oggetto esotico, di desiderio o da novella, senza collocare la loro opera nel contesto contemporaneo e senza legarla al loro autore. Il testo definisce quindi il punto di vista critico di Oguibe, mentre l’esposizione Authentic/Ex-Centric125 è un esempio di come i principi dell’autore siano applicati con numerose contraddizioni. E’ vero infatti che la mostra fu aperta ad artisti africani, d’origine africana, residenti sul continente o fuori, che le tecniche utilizzate dai protagonisti erano contemporanee e che il catalogo cercava di approfondire questioni critiche legate alle opere e non alle biografie, ma resta il fatto che la categoria “africana” è ben presente, con la pretesa di rappresentare addirittura l’“Africa” a Venezia e con la presunzione di poterlo fare, perché i curatori sono legati al continente grazie alle loro origini nigeriane e sudanesi (Olu Oguibe e Salah Hassan vivono negli Stati Uniti)126.

Quest’incoerenza e la difficoltà oggettiva di definire una categoria così vasta e poco omogenea come quella di “arte contemporanea africana” generano un dibattito su un altro concetto, quello di “autenticità”. In sostanza chi sostiene che l’arte – anche quella degli artisti africani – non può basarsi su categorie artistiche geografiche ritiene che l’arte contemporanea africana è tutta “autentica”; la categoria geografica di “arte contemporanea africana” diventa un insieme vasto ed irrilevante dal punto di vista artistico, perché basta avere un passaporto di un paese africano, basta avere origini africane o basta essere collegati in qualche modo all’Africa per rientrarvi: non c’è quindi una selezione in base all’“autenticità” degli artisti (legata anche al concetto di “africanità”), ma semplicemente una selezione in base alla qualità delle loro opere. La geografia dell’arte – per quanto presente – diventa un semplice settore d’interesse e di ricerca, che non ha un valore artistico in sé, né caratteristiche artistiche comuni. Per coloro che non credono nella ricerca di un’autenticità nell’arte contemporanea africana entra quindi in gioco una distinzione fondamentale: da un lato l’arte contemporanea africana esiste, come mondo dell’arte africana (con le sue gallerie e istituzioni, con le sue debolezze di mercato e di promozione internazionale e con i suoi finanziamenti specifici), come paesi di provenienza degli artisti e degli operatori del settore (con i loro vantaggi nell’accesso ai finanziamenti specifici e con la loro marginalizzazione rispetto all’Occidente) e come ambito d’analisi, di ricerca e d’interesse; d’altra parte l’arte contemporanea africana non esiste come categoria artistica (con un valore qualitativo in sé, con uno stile omogeneo e con un’autenticità che esclude degli artisti in base alla loro disomogeneità e alla confusione delle loro origini).

La Biennale di Dakar – proprio attraverso il tuo sistema di candidatura basato sulla nazionalità degli artisti e grazie alla sua eterogeneità – non pone alcun limite all’arte contemporanea africana e non cerca nelle opere un’autenticità africana; in particolare l’Esposizione Individuale curata da N’Goné Fall a Dak’Art 2002, sottolinea proprio l’eterogeneità dell’arte africana nella selezione dei suoi artisti e nel testo del catalogo che l’accompagna127, spingendosi ad affermare che non possiamo più riconoscere un artista africano perché non esiste più: questa definizione andava bene al tempo dell’arte anonima, delle maschere, dei gabinetti di curiosità e delle rivendicazioni politiche e sociali degli anni dell’indipendenza, ma non può più esistere perché la produzione artistica delle 54 nazioni africane non è la stessa e perché l’Africa non è un paese e come entità artistica e culturale non è mai esistita128. L’esposizione Authentic/Ex-Centric parallela alla Biennale di Venezia del 2001 ridicolizza il concetto di “autenticità” nel suo stesso titolo: anche se gli artisti selezionati sono residenti su tutti i continenti, sono autentici (authentic), perché l’arte africana non è chiaramente identificabile (excentric) e gli unici veri aspetti che la caratterizzano sono che gli artisti originari dell’Africa si sono mossi e si muovono e che spesso sono trascurati perché non-occidentali (ex-centric).

Il concetto di “autenticità” è invece fondamentale per chi analizza l’arte contemporanea africana cercando un’omogeneità continentale. Al fine di selezionare artisti autenticamente africani si scelgono quelli che hanno mantenuto la loro specificità culturale: quelli che abitano nel continente, che non hanno avuto rapporti con l’Occidente (artisti di villaggi piuttosto che di città)129, che sono autodidatti, che non viaggiano e che si esprimono con un linguaggio “africano”. Il concetto di “autenticità” si lega dunque a quello di “africanità” e a quello di “tradizione”130. Quest’arte contemporanea deve mostrare chiaramente i temi dell’Africa, deve essere creata con tecniche tradizionali (compreso il legame con l’arte popolare), deve essere spirituale e non deve mostrare contatti con l’Occidente o deve averne pochi131.

Olu Oguibe132 definisce il concetto di autenticità come una richiesta di identità, di segni distintivi e di distanza culturale; perché qualcosa sia autentico è necessaria la sua adesione ad una storia e ad una tradizione133. Secondo Everlyn Nicodemus134, per l’Occidente l’“africanità” sono forme tradizionali, arte d’aeroporto, colori brillanti, decori, maschere e feticci, tamburi e danze, ovvero tutto ciò che può soddisfare le aspettative di qualcosa di esotico. N’Goné Fall135 sostiene che per certe persone l’artista africano è un artista che recupera e ricicla degli oggetti trovati o che utilizza i colori dell’Africa (ocra e marrone) o i suoi segni (alfabeti o simboli del cosmo), qualcosa insomma che riconduca al fantasma dell’Africa “autentica”, perché l’identità è anche un’arma economica che mantiene il mondo nel suo equilibrio e nella sua lotta tra ricchi e poveri. Il concetto di autenticità compare nella mostra Magiciens de la Terre del 1989, ma già nel Festival Mondial des Arts Nègres di Dakar appare il desiderio di selezionare gli artisti in modo tale da confermare le teorie di Senghor sull’arte negra, sottolineando che gli autentici artisti africani hanno senso del ritmo ed una creatività innata136.

Centro e periferia

Espressioni come “autenticità”, “africanità” e “arte contemporanea africana” conducono ad un altro tema centrale affrontato dalla critica: la centralità dell’Occidente nell’analisi di ciò che non è occidentale. Quasi tutti i critici d’arte contemporanea africana hanno affrontato questa questione ed hanno ribadito la necessità di non vedere l’Africa come la periferia del mondo, attraverso visioni eurocentriche o etnocentriche. L’arte africana deve essere trattata con una sua terminologia adeguata (viene spesso ribadito che la parola “arte” nelle lingue africane non esiste), da critici preparati (accusando anche gli occidentali di non avere le categorie per poter comprendere l’arte africana) e senza segregarla nel contesto dell’antropologia o dell’etnologia.

Secondo Katy Deepwell137, il contesto all’intero del quale percepiamo l’arte contemporanea africana è determinato da fraintendimenti, disinformazione e punti di vista dogmatici, creati dal dibattito su modernismo e primitivismo, dal peso dell’antropologia e dal concetto di “altro etnico” che caratterizza chi non è occidentale. Per John Picton138, se siamo abituati a concepire l’Europa come il centro e a consegnare l’Africa alla periferia, forse dovremmo domandarci il centro di che cosa, la periferia di che cosa, chi colloca chi e di chi è il gioco. Secondo Olu Oguibe139 la critica d’arte occidentale (bianca e postmoderna) sugli artisti africani opera una forma di segregazione attraverso la richiesta di identità degli “Altri” (con domande come “dove sei nato?”) e indaga “the othering” per mantenere l’Africa fuori dai confini dell’Occidente; solo l’Occidente detiene quindi quello che Oguibe definisce “il diritto alla storia”140. Rasheed Areen – stanco della marginalizzazione degli artisti non-occidentali e della ricerca dell’esotico e del diverso nelle loro opere – grida nel suo articolo From Primitivism to Ethnic Arts “I’m no longer your bloody object in the British Museum”141.

Una categoria critica

L’esistenza di critici, curatori e istituzioni che parlano o che promuovono l’“arte contemporanea africana” è la prova che questa categoria comunque esiste, indipendentemente dalle motivazioni. Il problema è che si tratta di una categoria estremamente vasta e disomogenea, più legata alla storia della critica d’arte che alle caratteristiche degli artisti e dei movimenti d’arte africana. Anche gli sforzi già compiuti nella definizione e nell’analisi dell’arte contemporanea africana142, tendono infatti a presentare delle collezioni di saggi su vari argomenti: l’arte di un certo periodo in una nazione, un movimento di una determinata capitale, una particolare tecnica artistica, un protagonista dell’arte… valorizzando in questo modo la varietà e non omogeneità. Le dimensioni degli argomenti da trattare e la difficoltà di compiere studi in tutte le aree del continente impongono poi ulteriori specializzazioni degli studiosi, che si limitano normalmente a conoscere soltanto alcuni aspetti, epoche, tecniche, protagonisti o movimenti dell’arte africana contemporanea.

Il discorso potrebbe essere applicato anche all’arte africana in generale. Mentre però l’arte africana più antica è stata già molto studiata (da antropologi, etnologi, collezionisti, museologi e storici dell’arte), l’arte contemporanea è ancora poco documentata. La maggior parte delle fonti sono infatti orali per il semplice problema che le pubblicazioni in Africa sono estremamente esigue e che gli studi in Occidente sono ancora poco numerosi e spesso dispersi tra numerosissime biblioteche. Da questo punto di vista lo Smithsonian Institut di Washington DC sta svolgendo una funzione molto preziosa nel raccogliere e catalogare il materiale sull’arte africana, in particolare grazie al ricchissimo elenco bibliografico sull’arte contemporanea africana compilato dalla responsabile della biblioteca Janet Stanley143.

Grazie a nuove pubblicazioni, esposizioni, conferenze ed istituzioni, la critica d’arte contemporanea africana è sempre più vivace. La partecipazione degli artisti africani alle grandi mostre internazionali ha incoraggiato l’intensificarsi dei dibattito, delle ricerche ed un’analisi più approfondita del concetto stesso di arte contemporanea africana.

Oltre a singoli articoli di riviste e ai saggi nei cataloghi delle mostre, i testi di critica d’arte contemporanea africana si possono trovare in numeri speciali di riviste144 e in pubblicazioni specializzate, ancora pochi rispetto a quelli destinati all’arte contemporanea occidentale. L’AICA – Associazione Internazionale dei Critici d’Arte (un’organizzazione non governativa dell’UNESCO, fondata nel 1955) ha promosso nel 1996 una conferenza sulla critica d’arte e l’Africa (con particolare attenzione a Nigeria, Zimbabwe e Sudafrica) per promuovere anche la nascita e lo sviluppo di sezioni autonome dell’AICA in Africa145. La conferenza – ed il suo legame con il festival britannico Africa95 – ha prodotto la raccolta di saggi Art Criticism and Africa del 1997 a cura di Katy Deepwell146. Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace del 1999 a cura di Olu Oguibe e Okwui Enwenzor147 è un altro testo incentrato sulla critica d’arte africana, importante per la bella edizione ed il coinvolgimento dell’Istituto di Arti Visive Internazionali di Londra (inIVA), ma praticamente irrilevante dal punto di vista della ricerca: tutti i testi, tranne l’introduzione, erano già stati pubblicati in cataloghi, riviste ed altre pubblicazioni. Anche il testo Global Visions Towards a New Internationalism in the Visual Arts del 1994148 a cura di Jean Fisher offre saggi critici interessanti sull’arte contemporanea non-occidentale, ma senza una specializzazione sull’arte dell’Africa, mentre Patrimoine Culturel et Création Contemporaine – en Afrique et dans le Monde Arabe149 del 1975, a cura di Mohamed Aziza è utile per comprendere la situazione dell’arte africana negli anni Settanta. Le pubblicazioni di Iba Ndiaye Diadji150, Osa D.Engonwa151 e di Teresa Macrì152 offrono poi altri spunti. Per comprendere il discorso critico sull’arte contemporanea africana, i criteri di selezione delle esposizioni, i titoli scelti e gli artisti invitati sono un’altra fonte fondamentale di informazione, insieme alle pubblicazioni di storia dell’arte africana.

L’arte contemporanea africana nazionale

In generale le esposizioni e le pubblicazioni sull’arte contemporanea africana focalizzano spesso l’attenzione su singole nazioni. Esistono ormai pubblicazioni ed esposizioni per quasi tutti gli Stati africani, ma la quantità degli studi varia a seconda dello sviluppo delle arti nei singoli paesi e a seconda dell’interesse del governo nella promozione della cultura (il caso del Senegal153 e del Sudafrica154 sono da questo punto di vista particolarmente significativi). Le mostre nazionali hanno poi il vantaggio di suscitare molto seguito anche all’estero155.

In Occidente, un’esposizione particolare dal punto di vista dell’organizzazione nazionale è Seven Stories about Modern Art in Africa, curata nel 1995 da Clémentine Deliss alla Whitechapel Gallery di Londra, all’interno del festival Africa95156. La mostra espose più di 130 opere di 65 artisti provenienti da Nigeria, Etiopia, Sudan, Senegal Sudafrica, Uganda e Kenya, introdotti da curatori specifici attraverso delle storie. L’esposizione fu apprezzata dal punto di vista teorico (per quanto a volte gli artisti fossero accessori alle storie), la sezione del Sudafrica curata da David Koloane fu giudicata interessante ed il catalogo divenne una fonte critica citata157; la mostra fu però anche molto criticata. Secondo Olabisi Silva158, l’allestimento era disastroso, mancava spazio, le opere non erano valorizzate, c’erano troppi autori e pochi lavori per ognuno e El Hadji Sy – curatore della sezione del Senegal – fagocitava per il Senegal la maggior parte delle cariche, come critico, curatore, artista invitato ed autore dell’opera-logo dell’evento. Sempre secondo Silva, la parte sul Sudafrica era invece particolarmente interessante, grazie al curatore David Koloane. Africa95 aveva come obiettivo di promuovere prima di tutto gli artisti del continente e per questo motivo gli artisti africani o d’origine africana residenti in Gran Bretagna furono trascurati; le esposizioni promosse isolavano l’Africa, invece di collegarla al panorama internazionale e di valorizzare la vastità della sua diaspora. Secondo Simon Njami159 Seven Stories about Modern Art in Africa – per quanto divenuta un’esposizione nota – fu un fiasco.

La Biennale di Dakar – a differenza per esempio di quella di Venezia o di quella del Cairo – non è organizzata in padiglioni nazionali: non esiste quindi un coinvolgimento diretto all’intero di Dak’Art dei singoli Stati dell’Africa e delle loro istituzioni governative. Fino alla Biennale del 1998, l’unica suddivisione per paese compariva sul catalogo, ma, siccome questo criterio non corrispondeva a nessuna priorità della Biennale, gli artisti furono poi elencati in ordine alfabetico. Alcune mostre nazionali, pochissime rispetto ai progetti internazionali, furono invece organizzate tra gli eventi paralleli.

Oltre alle numerosissime mostre di artisti senegalesi, gli artisti della Costa d’Avorio furono presentati a Dakar nel 1996 in un’esposizione a cura di Jean-Servais Bakyono e nel 1998 e 2002 in altre esposizioni a cura di Yacouba Konaté (membro del Comitato Internazionale di Dak’Art 1998): l’edizione del 2002 fu particolarmente apprezzata per la cura dell’allestimento, per l’attenzione alla promozione dell’evento e per la qualità delle opere, selezionate con attenzione a tutte le tecniche (design, grafica, fotografia, pittura, installazione, fumetto…). Nel 2002 vi fu una mostra di artisti della Guinea (a cura di Compan Arts di Conakry) e dell’Africa Centrale (a cura della galleria Doual’art di Douala in Camerun). I centri culturali e le ambasciate occidentali promossero alcuni artisti europei160, spesso però con ad artisti di altre nazionalità161. Nel 1998, 2000 e 2002 la galleria Atiss di Dakar e la galleria MAM di Douala (Camerun) collaborarono nell’organizzazione di mostre di artisti senegalesi e camerunesi.

La mancanza di esposizioni nazionali alla Biennale di Dakar, per quanto permetta una selezione in base alla qualità delle opere e non in base alla partecipazione di tutti i paesi dell’Africa, ha lo svantaggio di non mostrare la produzione di numerosi Stati del continente. La mancanza di una promozione capillare e di un’efficace comunicazione da parte degli organizzatori di Dak’Art spesso non consente agli artisti di molti paesi dell’Africa di essere al corrente della possibilità di candidarsi alla Biennale. Il caso più significativo è quello dell’Egitto, che conta numerosi artisti oggi noti internazionalmente ed una Biennale che non è praticamente mai entrata in contatto con quella di Dakar162.

Il Sudafrica

Il Sudafrica è il paese del continente africano che meglio promuove la sua arte nazionale. Gli artisti sudafricani sono i più numerosi, i meglio rappresentati nelle esposizioni internazionali ed i più conosciuti all’estero (grazie anche ad un’ampia bibliografia disponibile); il passato della loro nazione – torturata dall’apartheid – spiega la violenza e l’inquietudine di molte delle loro opere e li incoraggia ad affrontare le questioni della diversità, della convivenza e delle colpe.

William Kentridge (nato nel 1955)163 è il più celebre tra questi artisti ed ha la pelle bianca; i suoi angosciosi video d’animazione fanno muovere personaggi disegnati e cancellati quasi fossero tagli sulla carta: la città di Johannesburg, con gli edifici cupi ed il filo spinato che rinchiude ogni cosa, emerge con tutti i drammi e le tensioni del bianco e nero. Jane Alexander (1959)164 crea statue di bambini metà umani e metà animali, accostando al loro aspetto innocente l’ambiguità di una menzogna o di una colpa celata. Le fotografie di Zwelethu Mthethwa (1960)165 s’insinuano nell’intimità domestica, ritraendo persone e famiglie circondate dall’assordante ricchezza di simboli e oggetti. Le sculture in bronzo di Ezrom Kgobokanyo Legae (1937, Sudafrica)166 sono animali possenti e deformati, vittime di quelle stesse torture e violenze che l’apartheid ha imposto a tutto il Sudafrica. La critica e l’impegno sociale sono elementi presenti molto spesso nelle opere degli artisti sudafricani, come (a Dak’Art 1998) nei mosaici di Kevin Brand (1953), nelle case di Pat Mautloa (1952), nei collage di Sam Nhlegethwa (1955) e di Willie Bester (1956)167, nelle sculture di Owen Ndou (1964) e di Freddy Ramabulana (1930). La Biennale del 2000 espose le installazione di Berni Searle (1964)168, di Andries Botha (1952) e di Kay Hassan (1956)169 ed il video di Tracey Rose (1974)170, mentre a Dak’Art 2002 furono allestite le installazioni di Lisa Brice (1968) e di Rodnay Place (1952) ed i collage di Bruce Clarke e Donovan Ward (1962).

Anche dal punto di vista delle istituzioni, il Sudafrica vanta un numero di organizzazioni ed infrastrutture superiori a qualsiasi altro paese dell’Africa; la Biennale di Johannesburg, per quanto con solo due edizioni, diede inoltre un grande impulso all’arte contemporanea africana a livello nazionale, ma anche internazionale. Mentre la Biennale di Johannesburg del 1995 fu un evento profondamente legato al Sudafrica (con 10 mostre di artisti sudafricani ed una commissione essenzialmente di Johannesburg), la Biennale del 1997 ebbe una dimensione molto più internazionale e fu slegata dall’organizzazione nazionale che aveva caratterizzato l’edizione precedente. Anche se l’evento diretto da Okwui Enwezor riscosse molto successo all’estero e fece crescere la fama del suo curatore, la Biennale del 1997 fu enormemente criticata in Sudafrica: la partecipazione sudafricana fu infatti sentita come marginale, l’attenzione fu percepita più sugli artisti delle diaspora che su quelli residenti nel continente e la gestione economica fu semplicemente catastrofica. L’insuccesso locale e la disastrosa situazione finanziaria alla chiusura anticipata dell’evento, decretarono la morte della Biennale di Johannesburg, per quanto continuino i dibattiti ed i progetti per un futuro ripristino171.

Africus172 – l’edizione della Biennale di Johannesburg del 1995 – fu organizzata un anno dopo la fine dell’apartheid con l’obiettivo di restaurare e promuovere il dialogo internazionale. L’evento – diretto da Lorna Ferguson (coordinatore) e Christopher Till (direttore esecutivo) – presentò le opere di artisti provenienti da 64 paesi (di cui 20 africani) in 15 esposizioni; l’evento fu gestito con l’aiuto di consulenti e di un gruppo di curatori173. La seconda Biennale di Johannesburg Trade Routes174 fu curata nel 1997 da Okwui Enwezor (poi curatore di Documenta di Kassel del 2002)175 e fu chiusa un mese prima del previsto per problemi finanziari. Durante la Biennale furono allestite le esposizioni Alternatine Currents (a cura di Okwui Enwezor e Octavio Zaya), Graft (a cura di Colin Richards), Life’s Little Necessities (a cura di Kellie Jones), Important and Exportant (a cura di Gerardo Mosquera), Transversions (a cura di Yu Yeon Kim) e Hong Kong, etc (a cura di Hou Hanru).

Hanno fatto parte del Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria della Biennale di Dakar anche la direttrice della galleria Goodman di Johannesburg Linda Givon nel 1998 e la direttrice della Galleria Nazionale del Sudafrica Marylin Martin nel 2000. Bongi Dhlomo-Mautloa (direttrice dell’AICA – Africus Institute for Contemporary Art) fu invitata a Dak’Art 2002 all’intero delle conferenze sulle esposizioni internazionali per raccontare la storia della Biennale di Johannesburg176.

L’Egitto

In Egitto si possono osservare tendenze comuni nell’arte contemporanea. I più giovani artisti contemporanei puntano il dito sulle contraddizioni del Cairo: raccontano le sue forme, i suoi abitanti e le sue debolezze; usano un linguaggio vivace e si lasciano contaminare da mille influssi, esattamente gli stessi che bombardano ininterrottamente la capitale dell’Egitto. Il Cairo è infatti un immenso agglomerato di stili architettonici, di nazionalità, di religioni, di cemento, di Occidente, Africa e Oriente. Ha librerie moderne, design, supermercati, ristoranti giapponesi e locali notturni alla moda; e allo stesso tempo ha miseria, profughi, censura e scarafaggi. Questi paesaggi così contraddittori si incastrano nei pensieri degli artisti che, con tecniche e stili diversi, fanno del Cairo lo sfondo ed il protagonista delle loro opere.

Moataz Nasr (1961)177 allestisce spazi magici, distorcendo la realtà, riflettendo sull’indifferenza e ripetendo in modo ossessivo semplici ingredienti del paesaggio egiziano: facce, luce, terra, pane ed oggetti quotidiani. Un orecchio di fango e l’altro di pasta è l’installazione di Nasr che ha vinto la Biennale del Cairo del 2001, composta da un video ed una parete ricoperta da sculture a forma di orecchie; il filmato è una sfilata di gente che alza le spalle sorridente e rassegnata: “chi se ne importa” – sembra dire, esattamente come recita il proverbio egiziano che dà il titolo all’opera. Moataz Nasr si esprime attraverso pittura, scultura, fotografia, video ed installazioni. Nelle sue opere racconta l’Egitto, con le sue tradizioni, la sua gente e i suoi colori. La sua produzione non è però esotica e lontana, ma estremamente vicina. L’Egitto è infatti solo uno sfondo, il paesaggio dove si muove un’umanità resa internazionale dalla fragilità comune. Indifferenza, impotenza e solitudine sono le caratteristiche dell’uomo che Nasr mette a nudo: debolezze che non sono legate a nessun paese, ma che dominano nel profondo ed ovunque la natura umana. Il suo linguaggio si basa sulla ripetizione di pochi e semplici elementi, per rendere l’opera comprensibile e allo stesso tempo poetica. Le installazioni che crea sono ambienti all’interno dei quali ci si può muovere: si passeggia, si scopre e si interpreta, credendo che i protagonisti siano solo egiziani o sentendo che anche noi stessi siamo chiamati in causa. Nella video installazione Un orecchio di fango e l’altro di pasta si penetra in un ambiente centrale attraverso un corridoio scuro. La parete più ampia della grande stanza è circolare ed è invasa da piccole sculture a forma di orecchie, modellate in pasta di pane e in argilla. Sulla parete di fronte tanti volti sfilano in un video, persone sorridenti che alzano le spalle per dire “e a me che me ne importa!”; nel filmato sono ritratte le gustose facce di anziani, bambini, artigiani ed anche quella di un ladro, famoso per i furti su commissione. Il rumore di fondo che domina tutto lo spazio è un fastidioso ronzio di mosche. Un orecchio di fango e l’altro di pasta è un proverbio egiziano nato da una storia. Un giorno Goha – un buffo personaggio protagonista di tanti racconti moraleggianti – tornò a casa allegro come al solito, quando la moglie – intenta a preparare il pane – cominciò a lamentarsi: “Ahhh, in questa stamberga manca tutto! I tuoi figli mi fanno disperare! E smettila di ciondolare!” – urlò a Goha. Lui, annoiato dalla solita litania, prese una manciata di pasta di pane ancora molliccia e appiccicosa e se l’attaccò ad un orecchio, andandosene in cortile. La moglie, senza perdersi d’animo lo seguì, continuando “ahhh, non si può andare avanti così! devo sempre fare tutto io...”. Goha raccolse allora da terra un po’ fango e se l’attaccò all’altro orecchio. “Sì, sì...” – annuiva indifferente alla moglie e, mentre lei ancora gridava, lui sorrideva beato, con le sue orecchie ben chiuse dal fango e dalla pasta di pane. In Italiano il messaggio dell’opera Un orecchio di fango e l’altro di pasta si potrebbe quindi raccontare così: Moataz Nasr ci mette una pulce (o una mosca) nell’orecchio, per farci ronzare nella testa che troppo spesso quello che succede intorno a noi o che succede nel mondo ci entra da una parte e ci esce dall’altra, visto che abbiamo gli orecchi foderati di prosciutto o facciamo orecchi da mercante. E se anche in italiano abbiamo tanti proverbi ed espressioni per dire la stessa cosa, allora Goha non è solo un esotico e lontano personaggio egiziano, ma il semplice protagonista di tanti nostri atteggiamenti. Wael Shawky (nato nel 1971) in Il Mulid del Santo Asfalto riempie una stanza di cemento e proietta su una parete un video che riprende dei fedeli che ballano durante un mulid (la celebrazione in onore dei santi), senza però la musica tradizionale che serve per raggiungere la concentrazione mistica, ma con la musica hip-pop dei Cypress Hill, che crea l’atmosfera di una discoteca di New York. Mona Marzouk (1970)costruisce sculture e dipinti combinando elementi architettonici: nelle sue opere inventa edifici dai colori uniformi ed asettici, composti da un capitello che si unisce ad una piramide che si appoggia ad un minareto… Un mondo minimalista ed irreale che fa andare d’amore e d’accordo elementi musulmani, colonialisti, tradizionali e moderni. In 100 visi, 6 posti e 25 domande (una serie di video proiettati contemporaneamente) Hassan Khan (1975)cerca di scoprire i pensieri della gente nei luoghi dove la gente sogna: allo stadio, in una moschea, dal rivenditore d’auto… Su uno schermo scorrono le “immagini metodologiche”, come ama chiamarle l’artista: palazzi grigi degli anni Sessanta ed i nuovi quartieri popolari, accostati a frasi che narrano la storia della rapida metamorfosi della città, che cresce in modo incontrollabile. Delle cuffie pongono poi domande ai visitatori: domande semplici “sai muoverti per la città?” e domande fastidiose “sai come controllare la gente?”. La risposta, pronunciata nel microfono, ritorna nelle cuffie ed è solo lo stesso visitatore che può ascoltarla. Sandouk El Dounia (ovvero La Scatola del Mondo) è la città ritratta da Lara Baladi (1969, Libano/Francia/Egitto), popolata da personaggi cyber dai capelli arcobaleno e dall’abbigliamento sfavillante. Le eroine sono fotografate in vecchi palazzi del Cario e le immagini formato cartolina sono poi unite in un collage maniacale: così un edificio reale abbandonato e decadente diventa teatro per uno spettatolo di avventura futuristica e pacchiana. L’albero della vecchia casa di mia nonna di Shady El Noshokaty (1971) parla della vita che convive con la morte attraverso una scultura fatta di mattoni di cera ricoperti da grasso e capelli; la cera ha il colore dalla carne, i capelli sono quelli della gente, il grasso fa parte del corpo e i mattoni sono marchiati come quando prodotti dalle industrie, ma su questi c’è scritto Misr, ovvero Egitto. Questouesto muro è infatti la copia delle tombe costruite dagli egiziani sopra i cadaveri sepolti (un rito tipico della città di Damietta, alla foce del Nilo, luogo di origine dell’artista): il corpo del defunto viene infatti protetto da una piccola casa di sassi e su questa viene messa della terra perché le piante possano crescere. Insieme alla scultura sono esposte le fotografie di una vecchia casa che si prepara per essere smantellata dopo il funerale e un video con le parole dei familiari che parlano con i loro defunti. Samy Elias (1979) crea spazi della memoria, dove il tempo si ferma e l’ordine è stravolto. Susan Hefuna (1962, Germania/Egitto) mostra il Cairo e la campagna in grandi fotografie senza tempo, tra passato e presente, e Khaled Hafez (1963) – ossessivo collezionista di immagini – ricompone in pale d’altare e trittici modelle e star del cinema innalzati al ruolo di angeli e di arredo liturgico. Amina Mansour (1972) compone nostalgici fiori di cotone che raccontano la vita aristocratica e il passato di due paesi dei quali è parte: gli Stati Uniti e l’Egitto. Sabah Naim (1967) – giovane artista velata – arrotola con delicatezza giornali per creare piccoli bouquet, riducendo a semplici decorazioni silenziose il flusso di notizie.

La Biennale del Cairo è la più importante esposizione egiziana, nata nel 1984 con una dimensione internazionale ed un’organizzazione in padiglioni, su modello della Biennale di Venezia178. Per quanto aperta a partecipanti da tutto il mondo, la qualità delle opere presentate alla Biennale del Cairo dipende esclusivamente dalla capacità e dall’interesse delle singole nazioni che vi partecipano, selezionando gli artisti e finanziando il loro spazio: i padiglioni statunitense e britannico per esempio riescono a presentare al Cairo artisti ben selezionati grazie ad un efficace processo selettivo, mentre altri padiglioni – come quelli africani – sono quasi completamente assenti, per lo scarso interesse governativo e la mancanza di finanziamenti destinati alla partecipazione internazionale degli artisti. La Biennale di Dakar e quella del Cairo non sono collegate tra di loro.

Tra gli artisti che hanno partecipato ad entrambe le Biennali di Dakar e del Caito si possono praticamente ricordare soltanto Berni Searle (vincitrice di un premio nell’edizione del Cairo del 1998-1999) e Moataz Nasr (vincitore del Gran Premio della Biennale del Cairo nel 2001). Okwui Enwezor fu inoltre tra i membri di giuria della Biennale del Cairo, nel 1996 fu allestita l’esposizione South African Art in Egypt (El Gezirah e Sheranton Hotel, 10-20/11/1996) e Moataz Nasr nel 2002 organizzò un dibattito alla Townhouse Gallery del Cairo con Simon Njami, per raccontare la sua partecipazione a Dak’Art e incoraggiare le candidature all’evento senegalese179.

In realtà attualmente il festival annuale Al Nitaq, promosso dalle gallerie del centro e spesso in contemporanea con la Biennale del Cairo, è diventato un evento più importante della Biennale stessa per l’ampia promozione degli artisti egiziani (o residenti in Egitto) e per la creazione di progetti innovativi e site specific all’interno della città180.

L’arte contemporanea africana regionale

L’Africa viene suddivisa in settentrionale, australe, occidentale, orientale e centrale. Questa divisione si basa sulle affinità delle diverse regioni (spesso legate da una vicinanza storica, linguistica, sociale o semplicemente geografia) e sulla terminologia creata dai politologi181. Ovviamente questa classificazione genera moltissime eccezioni perché le zone considerate sono molto vaste e non sono per niente omogenee (ad esempio il Sudafrica viene spesso analizzato separatamente rispetto all’Africa australe per le particolarità della sua storia). L’Africa settentrionale è un’area percepita come profondamente distinta dal resto del continente, per la sua forte caratterizzazione culturale, religiosa, sociale e linguistica; per questo motivo si parla spesso di Africa settentrionale e Africa sub-sahariana (ovvero Africa a sud del deserto del Sahara).

La Biennale di Dakar ha adottato la suddivisione del continente in aree geografiche nelle Esposizioni Individuali fino alla sua edizione del 2000. La distinzione tra Africa settentrionale (araba) e Africa sub-sahariana (nègre) appare evidente nel Festival Mondial des Art Nègres di Dakar del 1966 (il titolo del festival itinerante verrà modificato proprio per permettere la partecipazione degli stati del Nord Africa), ma anche nel testo del 1996 di André Magnin e Jacques Soulillou Contemporary Art of Africa182, che non prende in esame gli artisti dell’Africa settentrionale e quelli che non risiedono nel continente africano. In New Currents, Ancient Rivers – Contemporary African Artists in a Generation of Change183 del 1992 Jean Kennedy184 organizza il suo testo focalizzando l’attenzione sui singoli stati del continente africano (in particolare su Nigeria, Senegal, Sudan, Etiopia, Zimbabwe e Sudafrica) e allo stesso tempo raggruppandoli in aree geografiche; in questo caso l’Africa setentrionale è però esclusa per motivi di spazio non per mancanza di legami con il resto dell’Africa185.

Gli artisti africani contemporanei

Osservando le opere degli artisti presenti nelle diverse edizioni della Biennale di Dakar si possono notare alcuni elementi che la critica ha messo in evidenza, legati ai temi affrontati o ai linguaggi utilizzati nella loro produzione.

Linee di ricerca artistica: territorio e identità

La categoria geografica implicita nel concetto di “arte contemporanea africana” è tenacemente combattuto o ridicolizzato da alcuni dei suoi artisti. Gli stessi artisti africani tendono anche, una volta riconosciuti, a svincolarsi dalla categoria di artista “africano” per cercare di inserirsi – alla pari di tutti gli artisti – nel semplice mondo dell’arte contemporanea internazionale, evitando le mostre tematiche di arte contemporanea africana186.

L’artista Mounir Fatmi (1970, Marocco/Francia)187 racconta che per una sua mostra in Francia era stata prevista sul catalogo la dicitura a fianco del suo nome “artista marocchino”; Fatmi reagì dicendo “marocchino non è un mestiere”.

Yinka Shonibare188 è l’artista africano meno africano che ci sia. Perché l’Africa è nelle sue opere, ma allo stesso tempo non c’è. Yinka Shonibare è nato a Londra nel 1962 da genitori nigeriani ed è vissuto tra Africa e Occidente. Le sue sculture sono vestite e ricoperte di batik, una stoffa che sembra proprio africana, ma che in realtà confonde le idee con la complicità dell’artista. Il batik è infatti un tessuto che ha viaggiato dall’Indonesia all’Olanda e poi dall’Olanda all’Africa diventando la stoffa più usata per gli eleganti abiti africani. Ma allora che cos’è? Per Shonibare è un’idea dell’Africa – una delle tante che si è fatto l’Occidente – ed è un ingrediente per mostrare che confini, storia, Africa ed artisti non sono poi così facili da etichettare.

Il luogo dove gli artisti africani o d’origine africana risiedono e si esprimono acquisisce spesso un significato molto importante per come verranno giudicati, per come verrà interpretato il loro lavoro e per il loro accesso alle esposizioni. Il territorio – con i suoi confini e con la sua percezione – è dunque uno dei protagonisti delle loro opere.

Mounir Fatmi (1970, Marocco/Francia) fa degli spostamenti, della nazionalità e dell’immigrazione il tema centrale delle sue opere. Nella sua video installazione Liaisons et déplacements, l’artista domanda a dei passanti parigini: chi sono gli “altri”? Arruffate le risposte, in cui emerge il desiderio del giovane marocchino di confondere le idee sul tema della provenienza. A circondare il video i tesserini di plastica: Mounir Fatmi viaggia portandoli con sé e chiedendo alle persone che incontra nel mondo di scrivere sopra il loro nome, che poi lui traslittera in caratteri arabi. L’eventuale “Mario Rossi” si confonde così in mezzo ai nomi di ogni altra provenienza, tutti appiattiti nella stessa scrittura, per noi quasi indecifrabile, e valorizzati nella loro individualità: a ciascuno un tesserino, uguale e diverso. Mounir Fatmi è proprio il risultato dei suoi spostamenti: il suo ironizzare con grandi valige a dodici manici sulla difficoltà dei viaggi mostra una caratteristica comune di molti artisti africani, spesso criticati per non vivere nel loro paese d’origine. Barthélémy Toguo (1967, Camerun/Francia/Germania)189 crea in legno abiti, valigie e timbri di lasciapassare per passaporti, sottolineando la pesantezza, gli ostacoli e le barriere che gli africani incontrano nel loro sogno e cammino di emigrazione; alla Biennale di Dakar del 1998 Toguo accompagnò i suoi oggetti con una performance nella quale accarezzava un enorme timbro di legno sul quale era inciso “Carte de séjour”.

Fatma M’seddi Charfi (1955, Tunisia/Svizzera)190 racconta il suo difficile ruolo di artista tunisina in Svizzera (Charfi risiede a Berna da molti anni), attraverso i piccoli personaggi che riempiono le sue opere. Installation verticale e Numismatique del 1999 (esposte a Dak’Art nel 2000, dove Charfi vinse il premio Senghor della Biennale) mostrano una paradossale classificazione in scatole trasparenti ed in ordinati faldoni di creature estremamente simili fabbricate in carta di seta nera; nel 2001 con Cri d’enfant (Dak’Art 2002) il tema analizzato da Charfi si arricchisce di riferimenti alla Svizzera: i piccoli esseri creati dall’artista diventano – oltre che neri – anche bianchi e rossi (come la bandiera elvetica): si mescolano e invadono lo spazio (arrampicati al muro, per terra, in un video, in scatole tonde e in medaglie), per dichiarare la loro presenza e per annunciare che esistono, senza l’obbligo di finire in una scatola, senza essere dimenticati e senza bisogno di essere classificati come “immigrati”. Fatma M’seddi Charfi sente infatti che il suo lavoro in Svizzera è sottovalutato, perché esposto esclusivamente all’intero di mostre tematiche: sull’Africa, sul Nord Africa, sul mondo musulmano o sulle donne arabe. Diaspora di Jems Robert Koko Bi (1966, Costa d’Avorio/Germania)191 è un gruppo di sculture di legno bruciato che rappresentano pesanti colonne squadrate da cui emergono in alto le teste di uomini persi e con gli occhi chiusi. Le video installazioni di Goddy Leye (1965, Camerun/Olanda)192 analizzano il sogno dell’Occidente: davanti ad un letto di caramelle sfilano i volti di ragazze che raccontano di quando sposeranno un uomo bianco ricco ed avranno una vita bellissima193.

Territorio e identità sono temi centrali nelle opere degli artisti africani. L’indagine della propria identità è strettamente collegata al concetto di territorio (o di “extra-territorialità”, o di “deterritorializzazione”194) e l’analisi della propria identità si arricchisce nel confronto, nel dialogo, negli spostamenti e nel métissage. Compaiono quindi riferimenti alle città, alla gente, alle tradizioni, al paesaggio e alla situazione politica, sociale, culturale, storica ed economica dell’Africa; questi elementi vengono rielaborati con linguaggi personali, con il contatto con altre realtà (che spesso arricchisce l’analisi) e con, ovviamente, l’interpretazione personale. Da una parte i lavori degli artisti denunciano, raccontano e ridicolizzano la situazione attuale; dall’altra sono un modo per indagare ed esprimere la propria identità.

Le opere dei giovani artisti del Sudafrica e dell’Egitto sono esempi di questo profondo legame tra la ricerca dell’identità ed il confronto con la realtà del territorio: gli artisti del Sudafrica analizzano la drammatica realtà dell’apartheid e le sue conseguenze, mentre gli artisti egiziani fanno spesso riferimento alle contraddizioni dell’immensa città del Cairo nel loro lavoro195. Emeka Udemba (1967, Nigeria/Germania)196 costruisce nella sua opera World White Walls due corridoi. Da una parte il pavimento è ricoperto con terra fertile e rose rosse: all’ingresso un cartello dice riservato a “US and EU-Citizens”; di fianco invece, un altro cartello indica l’accesso destinato a “Others”: per terra è sistemata della sabbia e degli appuntiti pezzi di vetro e metallo. Foot Pitch è l’opera della nigeriana Otobong Edet Nkanga (1974, Nigeria/Francia/Olanda)197, composta dalla fotografia di un campo di calcio disegnato sulla pianta dei suoi piedi e da una scultura che rappresenta un altro campo di calcio tagliato a metà. L’immagine è stata realizzata nel 1999 in occasione di una partita in Francia, nella quale l’artista giocava allo stesso tempo per entrambe le squadre: la fotografia dei suoi piedi bloccati dal disegno è una traccia della performance, non tanto diversa dalla sua vita (giocata tra Lagos, Parigi ed Amsterdam) e non tanto diversa dalla vita di molti artisti e cittadini africani. L’opera di Dominque Zinkpe (1969, Benin)198 Malgrès tout, ha avuto un grande successo di pubblico a Dak’Art 2002, per l’attenzione che l’artista dedica alla situazione sociopolitica dell’Africa; in Malgrado tutto un uomo (creato con della corda, segno distintivo dei personaggi di Zinkpe) è sdraiato su un letto d’ospedale, ben nutrito da flebo colorate sulle quali sono scritti i nomi di una trentina di organizzazioni umanitarie. Andries Botha (1952, Sudafrica)199 nella video installazione Kwazulu Natal colloca alla parete sette pannelli di grandi dimensioni con inquietanti carte geografiche costruite a mano; il risultato è un meticoloso lavoro di scrittura su pelli quasi trasparenti che, da lontano, danno l’effetto di un lavoro realizzato al computer. Di fronte ai pannelli vi sono dei televisori in cui saltavano agli occhi le immagini nitide dell’uccisione di un maiale e le dettagliate riprese di un corpo maschile, vecchio e nudo. A Dakar, paese in maggioranza musulmano, un lavoro di questo genere esposto alla Biennale del 2000 suscitò forti reazioni, confermate dalla collocazione appartata di questo filmato. Moataz Nasr (1961, Egitto)200 indaga invece sulla natura umana inserendo nelle sue opere dei riferimenti al Cairo: proverbi, oggetti e facce. Nel suo video The Water, proietta su una pozzanghera dei volti, schiacciati poi da un anonimo passante: Nasr lascia la parola a dei visi muti (egiziani, ma che potrebbero però avere qualsiasi nazionalità) delle presenze che parlano di indifferenza. Mamady Seydi (1970, Senegal)201 traduce i proverbi dell’etnia wolof con uomini in bilico: abbarbicate su scalette, le sue sculture semplici e solide simularono i rapporti umani difficili e fragili, così evidenti nei detti tradizionali. Bili Bidjocka (1962, Camerun/Francia), crea alla Biennale del 2000 un itinerario cartaceo che può diventare reale, prendendo come guida un tassista paziente. Proprio come la linea spezzata del lavoro dell’artista camerunese, il percorso della Biennale si snoda ogni due anni tra singhiozzi e frammentazioni, colpa della mancanza di un’unica sede e merito della vivacità delle esposizioni fuori programma, disseminate in tutta la città.

L’aspetto fisico è un altro elemento centrale nella definizione e nella ridefinizione dell’identità: il colore della pelle, la razza ed il sesso sono alcune delle caratteristiche del sé che gli artisti indagano.

Godfried Donkor (1964, Ghana/Gran Bretagna)202 racconta la storia di uomini neri combinando le immagini di persone di successo (protagonisti di box o personaggi storici) ai drammi della schiavitù e dell’indifferenza che vive l’Africa. Lisa Brice (1968, Sudafrica/Gran Bretagna) nell’opera Walk Easy espone sei pannelli ricamati da donne africane su sue indicazioni, fissati al muro in modo tale che si possano vedere entrambi i lati. I pannelli sono di tessuto e sul lato dritto (con un linguaggio da pubblicità anni Sessanta, simile a quello usato per commercializzare un prodotto di bellezza) mostrano come usare una bomboletta spray antistupro; il rovescio sottolinea invece la cura del ricamo artigianale e rende l’opera più leggera, astratta e con ancora qualcosa “che può cambiare”.

All’intero di questa indagine d’identità, l’uso della propria immagine inserita nelle opere, entra spesso a far parte del linguaggio203.

Le sudafricane Tracey Rose, Minnette Vari e Berni Searle realizzano video che le vedono nel ruolo di protagoniste: Tracey Rose (nata nel 1974)204 cerca la verità travestendosi e creando spettacoli fastidiosamente carnevaleschi; Minnette Vari (1968) sputa sulla cronaca televisiva, trasformandosi digitalmente in un essere androgino che fagocita brandelli di immagini; Searle modella il suo aspetto per renderlo incolore. Nel video Snow White (Biancaneve)205 Berni Searle (1964)206 appare nuda, inginocchiata nella penombra; dall’alto piove della farina e dell’acqua e lei mescola i due ingredienti sul pavimento, riducendo poi l’impasto in brandelli: la farina bianca cade sul suo corpo nero, confondendo le razze, e la miscela simula una convivenza, quasi impossibile nella realtà. Nell’opera senza titolo del 1999 – esposta alla Biennale di Dakar del 2000 e con la quale l’artista ha vinto il Premio Rivelazione – in dei grandi pannelli verticali appesi al soffitto e disposti a quadrato appaiono le fotografie dell’artista nuda, ricoperta di una polvere rossastra o assente, a tracciare un impronta dalla quale il suo corpo è sparito; per terra, sempre in forma di quadrato, la spezia che la ricopriva, ad accompagnare con il profumo le immagini. Zoulikha Bouabdellah (Algeria/Francia) nel suo video Ecran del 2000 (esposto a Dak’Art 2002), riprende sé stessa nell’atto di rivestire con vernice nera il monitor di un televisore che proietta l’immagine di un uomo. Non solo le donne sono protagoniste dei loro lavori: per esempio Olu Oguibe e Hassan Musa utilizzano la loro immagine all’intero delle opere; Moataz Nasr nei suoi video inserisce per pochi secondi il suo volto insieme a quello di altri, citandolo in modo quasi impercettibile.

I linguaggi

Osservando la storia dell’arte contemporanea africana, si può notare che è estremamente difficile tracciare una linea evolutiva omogenea dei linguaggi.

L’evoluzione dell’arte africana non è allineata all’evoluzione dell’arte in Europa e concetti/correnti/stili/linguaggi non si svilupparono sul continente nello stesso modo e per le stesse ragioni che in Occidente. Per questo motivo la critica occidentale è spesso accusata di utilizzare categorie e termini che non sono propri dell’Africa. Gli influssi, i contatti ed i cambiamenti di tendenza non sono poi unidirezionali: non è solo l’Occidente che ha influenzato l’Africa e non è soltanto l’Occidente che ha prodotto la nascita dell’arte africana207.

I tipi di formazione disponibili in Africa possono dare un’idea della varietà di preparazione e di contatti degli artisti. Le scuole d’arte furono create essenzialmente tra gli anni Trenta e gli anni Sessanta. I professori si erano formati in Occidente o erano occidentali che risiedevano sul continente. Gli approcci si dividevano essenzialmente in due tipi: l’apprendimento formale (legato al sistema delle accademie occidentali e basato sullo studio della storia dell’arte europea, sul modellato, sull’anatomia e sull’assimilazione delle tecniche di pittura e scultura) ed un metodo più libero, collegato all’apprendimento non-formale (atelier) o informale (formazione autodidatta)208. L’approccio formale e non-formale si possono notare anche all’interno dello stesso sistema scolastico senegalese209. Molti artisti africani hanno poi avuto la possibilità di ricevere un’educazione artistica anche in Occidente o hanno dovuto emigrare per le difficoltà politiche e sociali presenti nei loro paesi210. L’insegnamento dell’arte in Africa era caratterizzato, da un lato dal figurativismo e dall’altro da un linguaggio legato alle ricerche soprattutto di Picasso, con la conseguente libertà espressiva e la valorizzazione dell’inconscio e dell’interpretazione personale della realtà. Allo stesso tempo l’arte popolare continuava e continua tutt’oggi ad essere prodotta (decorazione delle case, motivi sui tessuti, decori corporali, pittura su vetro…). Anche nuove tecniche artistiche furono introdotte col tempo (come la pittura su tela, la scultura in aree dove non era diffusa, ma anche l’elaborazione digitale delle immagini). Alcune tecniche considerate tradizionali non hanno in realtà una lunga storia locale (come la pittura su vetro in Senegal che arrivò nel paese soltanto alla fine dell’Ottocento211); altre tecniche furono invece riscoperte e rielaborate, per soddisfare il mercato dei turisti, dei collezionisti e perché rivalutate o finalmente prese in considerazione dalla critica d’arte (tra questa anche la performance, l’aspetto multidisciplinare e concettuale dell’arte e la body art).

La visione di un’Africa con una vasta, esclusiva e tradizionale produzione scultorea è poi assolutamente fuorviante. La scultura è una tecnica artistica che caratterizza il passato soltanto di alcuni gruppi etnici e di alcune aree, non è l’unico linguaggio artistico tradizionalmente utilizzato nel continente e la stessa parola “scultura” associa la produzione africana all’immaginario occidentale, che non necessariamente corrisponde alle sue istanze e alla sua produzione.

L’Africa Occidentale ha una produzione scultorea molto più intensa e antica rispetto all’Africa Orientale, ma allo stesso tempo vi sono paesi anche nell’Africa Occidentale stessa che non hanno una tradizione scultorea, come ad esempio il Senegal212. Esistono poi altre tecniche che fanno parte della tradizione artistica africana, come la danza, le performance, la musica, l’arte del corpo, l’architettura, la produzione tessile e la pittura su vari supporti. Esiste un problema nella conoscenza dell’arte antica africana: le ricerche archeologiche e gli studi specialistici sono ancora estremamente esigui e limitati ad alcune aree del continente.

Gli artisti contemporanei africani si esprimono con tutte le tecniche: pittura (astratta, figurativa, legata al fumetto e all’arte popolare, con l’inserimento di oggetti e materiali di recupero…), scultura (lignea, di cemento, di carta, con materiali di recupero…), fotografia, installazione, performance, video, arte tessile, design e architettura. Le nuove tecnologie vanno incontro agli artisti soprattutto per quanto riguarda il montaggio dei video e la rielaborazione delle immagini.

La nostra indagine sulla Biennale di Dakar tende a focalizzarsi in particolare sugli artisti delle ultime generazioni. La Biennale di Dakar col tempo si è specializzata nella promozione di un’arte sempre più recente: le opere vengono selezionate in base alla loro data di produzione e gli artisti scelti tra i più giovani213. In particolare nelle edizioni del 2000 e del 2002 si può notare l’aumentare di fotografie, installazioni e video, rispetto alla pittura e alla scultura creata con materiali di recupero. La Biennale del 1996 introdusse il design e quella del 2002 una mostra personale di un celebre pittore su vetro senegalese, Gora M’Bengue.

Riciclaggio e simboli

Il riciclaggio è un elemento molto frequente nella produzione degli artisti africani, indipendentemente dal loro linguaggio e dalla loro generazione. “Riciclaggio” – in questo contesto il termine ha un’accezione molto ampia – può apparire nelle opere, sia attraverso l’utilizzo di materiali di recupero, sia come rielaborazione di simboli, che come riscoperta di un immaginario tradizionale. I materiali di recupero sono spesso ingredienti delle opere: pezzi di metallo, lamiere contorte, componenti di automobili, vecchi computer, cavi elettrici, frammenti di carta, oggetti quotidiani di seconda mano, immondizia urbana, confezioni vuote, teste di bambole, sandali, pubblicità, illustrazioni, libri, sacchetti di plastica, legni, spago, tessuti, juta, sabbia, sassi, conchiglie… Questi materiali di recupero vengono spesso utilizzati per il loro significato simbolico (anche per questo si parla di concettualismo nell’arte contemporanea africana): alludono al passato, alla povertà, alla guerra, all’immaginario tradizionale, alla natura, al sogno di modernità, alla contemporaneità…

Willie Bester (1956, Sudafrica)214 è un artista impegnato che documenta l’apartheid e la storia del Sudafrica attraverso assemblaggi; oggetti quotidiani, pittura, scritte e piccoli personaggi di carta si mescolano confusamente ed intensamente su una base di legno. Moustapha Dimé (1952- , Senegal)215 pone l’uomo e i rapporti con il mondo arcaico al centro della sua indagine, costruendo sculture con simboli di passato e di vita: legni che hanno navigato nell’Oceano e oggetti che hanno fatto un lungo cammino per sbarcare finalmente su una spiaggia; l’Isola di Gorée, simbolo della tratta degli schiavi ed un tempo sede del suo atelier, gioca un ruolo importante nella ricerca ambientale dell’artista, insinuando nelle sue opere l’ombra sottile del dramma, anche in sculture rassicuranti come Les amis. L’installazione di Pascale Marthine Tayou (1967)216 Folie Tripale del 1995 è composta da sculture acuminate: in un piccolo piedistallo sono inseriti pezzi di legno, di metallo, gambe di plastica e bottiglie, decorate in cima da cappelli, teste di bambole, tubi e confezioni di plastica; le opere di Tayou si riferiscono spesso in questo periodo alla diffusione implacabile dell’AIDS in Africa, che devasta il continente lasciando solo ricordi e avanzi delle persone che uccide. Kay Hassan (1956, Sudafrica) nella sua Esposizione Individuale alla Biennale di Dak’Art 2000 presentò dei vecchi occhiali rotti raccolti nel marcato di Dakar (in principio dovevano essere esposti gli occhiali acquistati a Johannesburg, ma l’opera non arrivò in tempo): il lavoro di Hassan è fortemente legato al gesto di raccogliere, collezionare e spostare; gli oggetti si arricchiscono di mille significati simbolici, grazie ad un’operazione di decontestualizzazione e di decostruzione. Sokari Douglas Camp (1958, Nigeria/Gran Bretagna)217 assembla pezzi metallici, ingranaggi ed oggetti comuni (come cucchiai di legno) per creare cupi personaggi meccanici capaci di muoversi. Anche altri artisti costruiscono creature metalliche (senza moviento), come quelle coloratissime e confuse di Joseph-Francis Sumegne (1951, Camerun)218, come i soldati di Yacouba Touré (1955, Costa d’Avorio)219 o come le immense gambe di I’m not your gam di Saliou Traoré (1965, Burkina Faso)220. Autori di collage sono a Dak’Art 1996 Moussossoth Dieudonné Moukala (1971, Congo Brazzaville) che ne L’enfer de la réflexion combina vecchi giornali e colori per ritrarre il volto di un uomo, Mathilde Moreau (1958, Costa d’Avorio) che si esprime con olio e tessuti in dipinti astratti e sentimentali; Oasis di Yacouba Toure (Costa d’Avorio) è un quadro di astrazione geometrica creato con pittura, tessuto e legno, sul cui fondo sono appesi piatti di plastica colorata. Alla Biennale del 1998 anche Salifou Lindou (1965, Camerun) espone opere in cui tessuti, giornali e disegni creano delle opere fragili e tutte giocate sulle tonalità del beige mentre Amadou Leye (1952, Senegal) crea dipinti incidendo ed inserendo del lego.

Anche il design africano utilizza spesso materiali di recupero, come le lampade di Abdérahmane Aïdara (1969, Guinea/Burkina Faso)221 create con delle calabasse (contenitori naturali) o quelle di Issa Diabate (1969, Costa d’Avorio)222 con dei secchi colorati; come la tenda di Zoarinivo Razakaratrimo (1956, Madagascar)223 fatta con della pellicola; come l’elegante vaso di Sylvia Andrinaivo (1964, Madagascar) fabbricato con del vetro recuperato; come le sedie di metallo Adrien Abdoulkhadr Sène (1960, Senegal)224, quelle create con degli scolapasta di Pape Youssou Ndiaye (1963, Burkina Faso)225, con dei bidoni di Kossi Assou (1958, Costa d’Avorio/Togo)226, con delle pale di César Dogbo (1966, Costa d’Avorio)227 o con dei pezzi di automobili di Jules Bertrand Wokam (1972, Camerun)228 e di Alassane Drabo (1968, Burkina Faso)229.

I simboli a cui si riferiscono gli artisti africani non sono però soltanto espressi attraverso materiali di recupero, possono essere utilizzati anche materiali nuovi (spesso provenienti dall’Africa), decontestualizzati.

Lo stesso uso del batik che veste le sculture e gli oggetti del celebre artista d’origine nigeriana Yinka Shonibare (1962, Gran Bretagna) può essere collegato ad una simbologia “africana” rivista e decontestualizzata, così come fanno parte della nuova simbologia africana le valige ed il necessaire da viaggio creati da Barthélémy Toguo (1967, Camerun/Francia/Germania)230, Mounir Fatmi (1970, Marocco/Francia)231 e Ali Mroivili (1961, Comores)232. I sandali infradito di plastica che coprono il terreno dove sono collocate le sculture in marcia dell’opera La longue marche du changement di Ndary Lo (1961, Senegal)233, suggeriscono allo stesso modo l’Africa, attraverso un oggetto estremamente comune sul continente (lusso i più poveri e necessità per tutti)234. Marc Latamie (1952, Martinicca) allaccia due isole attraverso l’Oceano Atlantico e la storia: la Martinicca, da dove proviene, e Gorée, una piccola isola di fronte a Dakar dichiarata “Patrimonio dell’Umanità” dall’UNESCO e diventata simbolo della tratta degli schiavi. Proprio nella Casa degli Schiavi di Gorée (sede della sua Esposizione Individuale nel 2000), Marc Latamie colloca le sue opere fatte con lo zucchero importato espressamente da lui, dall’unica piantagione della Martinicca. Un viaggio inverso: prima quello senza ritorno dei neri da vendere come schiavi nelle Americhe e nei Caraibi per coltivare le piantagioni di zucchero, e poi quello più turistico dello zucchero che scimmiotta proprio l’economia turistica della Martinicca. La religione cattolica dà un’altra nota di bianco alla composizione: in cima ai cumuli di zucchero, una Madonna è in gabbia ed un’altra troneggia in mezzo ad un esercito di soldatini di plastica. L’opera di Marc Latamie è una sintesi della colonizzazione, che ha lasciato, spostato, imposto e convertito.

Il Marocco

Alla Biennale di Dakar, alcuni artisti del Marocco (diversi dei quali provenienti dalla scuola d’arte di Tétouan) mostrarono uno stile autonomo, caratterizzato da un processo di astrazione geometrica a partire da oggetti semplici e quotidiani o da forme frequenti e simboliche del mondo islamico.

Younés Rahmoun (1975)235 nell’installazione Ifrise colloca su più ripiani pentole, lampade e vasi collezionati nei mercati del Marocco, insieme a piccoli coni di ceramica nera, lucidi e leggermente irregolari. Le forme ricordano immediatamente l’arte architettonica islamica, semplificata e allo stesso tempo arricchita di significati contemporanei. A Dak’Art 2002 Safaa Erruas (1976) fissa alla parete cotone e spilli, bianchi su bianco, quasi fossero delicati rimedi a tante ferite; Faissal Ben Kiran (1957) crea quadri con semplici grate dipinte di bianco e meridiane che non segnano il tempo (con corda, sassi, legno e disegni); Hicham Benohoud in 75 piles de 5525 petites images impacchetta immagini, costruendo minuscole scatole fissate alla parete; Ali Chraibi (1965) accosta fotografie uguali di dettagli naturali (gole, grotte, passaggi nella roccia) per costruire immagini astratte e difficili da decifrare; Batoul S’Himi (1974) in Lever du jour dispone sul pavimento un cerchio perfetto di spezie rosse (dal diametro di 4 metri), sovrapposto da un altro cerchio perfetto e uguale di metallo e luce.

L’immaginario tradizionale

L’immaginario tradizionale vive nelle opere degli artisti africani, con maschere, feticci e decori inseriti in sculture di legno e in tele dai colori brillanti o sabbiosi. Il recupero delle tradizioni (spesso estremamente artificioso) è legato, da un lato al periodo coloniale e alla ricerca e valorizzazione occidentale dell’“africanità”, e dall’altro alle politiche culturali dei singoli nazioni dell’Africa dopo l’indipendenza e alla creazione di un’arte nazionale e chiaramente identificabile. L’espressione “immaginario tradizionale” si collega quindi alla presenza nelle opere di elementi-simbolo dell’Africa, mentre “tradizione” – in questo contesto – si riferisce al legame con la situazione locale, che non è statica e che include tecniche, linguaggi e stili che sono cambiati o nati anche in tempi recenti (come ad esempio la tecnica del batik o la pittura su vetro).

Cristiana Fiamingo236 sottolinea il profondo legame tra politica e recupero dell’immaginario tradizionale: le nazioni dell’Africa – all’epoca dell’indipendenza – avevano bisogno di costruire uno stile nazionale, che confermasse e legittimasse la loro esistenza in quanto Stati e in quanto parte di un continente autonomo e diverso dagli altri; la riscoperta o la creazione artificiosa di una cultura tradizionale furono in questo modo strumenti di propaganda e di consolidamento di un’identità africana. Un esempio di valorizzazione e creazione dell’“immaginario culturale”di può osservare nella politica culturale del presidente Senghor in Senegal, che elencò le caratteristiche che l’arte negra doveva avere e sostenne quasi esclusivamente gli artisti che assecondavano lo stile da lui promosso, chiamati gli artisti dell’Ecole de Dakar237. L’interesse per l’“immaginario tradizionale” si era comunque già sviluppato durante il periodo coloniale, grazie soprattutto alle scuole. Ad esempio la scuola Ponty in Senegal incoraggiava la scoperta e la riscoperta delle tradizioni locali che venivano utilizzate nelle recite degli alunni238, mentre alcuni laboratori non-formali (come la scuola di Poto-Poto di Pierre Lods in Congo Brazzaville) promuovevano la libera elaborazione della natura, partendo dal principio che il senso dell’arte tra i negri era innato.

Oltre che nell’Ecole de Dakar (i cui membri si esprimono con uno stile figurativo o più astratto), anche altri artisti arricchiscono le loro opere con elementi tratti dall’immaginario tradizionale. Alla Biennale di Dakar è facile notare la presenza di questo stile soprattutto nelle edizioni del 1992 e del 1996. Zerihun Yetmgeta (1943, Etiopia)239 per esempio combina fonti tratte dall’arte africana antica con la simbologia e i decori etiopi. Maschere e personaggi africani compaiono alla Biennale di Dakar del 1992 nelle tele di Murrina Oyelami (Nigeria), nei batik di Chuckley Vincent Secka (1953, Gambia/Senegal) e nelle sculture di Paul Ahyi (1930, Togo), Bondo Tshibanda (1947, Congo Kinshasa/Senegal) e a Dak’Art 1996 in quelle di Alassane Drabo (1968, Burkina Faso) e Moussa Kabore (1962, Burkina Faso). La scultura in legno Présence Ancêtre di Pascal Kenfack (1950, Camerun)240 suggerisce già con il titolo le finalità dell’autore; l’opera ha l’aspetto di un totem contemporaneo, con due piedi a sostegno di decori e forme recuperate da un album di ricordi persi nel tempo. Le stesse forme e decori si possono trovare a Dak’Art 1996 nella pittura di Ludovic K. Fadairo (1947, Benin), Patrice Boum (1951, Camerun/Francia), René Tchebetchou (1949, Camerun) e nelle sculture di Siriki Ky (1953, Burkina Faso) e Kra N’Guessan (1954, Costa d’Avorio/Francia).

Questo processo di recupero dell’immaginario tradizionale spesso si ferma ad una ripetizione di cliché e crea una produzione decorativa, povera dal punto di vista della ricerca e dei contenuti. In altri casi gli artisti riescono a svincolarsi dai modelli banali e a creare una rielaborazione originale, inserendo nuovi temi, contaminazioni ed un’osservazione e interpretazione personale e aggiornata della realtà.

Ouattara (1957, Costa d’Avorio/Francia/Stati Uniti)241 nella tela Divination del 1990 (acrilici, pigmento secco, sabbia e legno) e Ismael Diabate (1948, Mali)242 in KA énergie de vie indagano il mondo della sacralità, attraverso simboli tradizionali e nuovi simboli personali; Abdoulaye Konate (1953, Mali)243 in Hommage aux chasseurs du Mandé mescola conchiglie, sassi, sabbia e laccetti per creare un’installazione votiva; Tapfuma Gutsa (1956, Zimbabwe)244 nell’opera The Hidden Agenda inserisce una maschera africana dipinta di bianco dentro ad un tronco d’albero che la nasconde lasciando emergere solo il naso e la bocca, segno forse che anche le tradizioni prima o poi vanno impacchettate e messe via; Dominique Zinkpe (1969, Benin)245 nella scultura Masque Egun costruisce una nuova maschera africana con i lineamenti del volto irriconoscibili e con un cappellino fantasioso; Tiébéna Dagnogo (1963, Costa d’Avorio)246 utilizza legno, metallo, coloranti e pittura a olio per ritrarre un Guerrier Dogon (a Dak’Art 1996) o una Porte céleste (a Dak’Art 1998); Ankomah Owusu (1956, Ghana)247 in Jumping Jack ritrae con la pittura un uomo nero stilizzato che vaga nella tela tra decori geometrici che invadono il suo stesso corpo; Chukley Vincent Secka (1953, Gambia/Senegal)248 in Le Tisserand fabbrica un quadro a forma di telaio, dove colloca due impronte di piedi a suggerire un movimento impossibile e inutile.

Anche il design cresce e si sviluppa spesso a partire da elementi tradizionali, che arricchiscono la produzione grazie a continue contaminazioni.

Le tecniche locali vengono studiate e arricchite, come nel progetto per l’arredo di una libreria dell’architetto Danièle Diwouta-Kotto (1960, Camerun)<rev>Danièle Diwouta Kotto ha esposto a Dak’Art 1996 un intero salotto.</ref> in collaborazione con la giovane designer francese Sandrine Dole249. Lo stile dei mobili progettati da Ola dele Kuku (1966, Nigeria/Italia/Olanda)250 è poi sorprendente e particolarmente originale, grazie ad incastri, movimenti e cambiamenti che sono concessi alle forme, spesso estremamente inusuali. La scrivania Moble rond Theatre Dell’Achivo è un disco in legno (fissato su una piattaforma in un punto della sua circonferenza) che può muoversi su se stesso e dal quale emergono ante, pieni d’appoggio, ripiani e cassetti (dei mobili con numerosi cassetti – ma più semplici e con linee molto sottili – sono presenti anche a Dak’Art 1998 nell’opera della senegalese Anna Jouga nata nel 1953). Le opere di Ola dele Kuku giocano su segreti e misteri, riflettendo l’interesse del designer per le divinità africane e la ricchezza mistica del continente. Anche le opere di Valérie Oka (Costa d’Avorio)251 si collegano alle tradizioni, in modo completamente diverso dall’interpretazione di Ola dele Kuku, grazie ad un profonda semplicità estremamente moderna e vicina al gusto contemporaneo occidentale. Le lampade di Ricky Balboa (1961, Congo Kinshasa/Belgio)252 sono invece decorate con colori accesi e forme semplici, leggermente asimmetriche, mentre la lampada da tavolo di Cheick Diallo (1960, Mali)253 sembra un signore con un cappello a cilindro. La commistione di elementi tradizionali e moderni appare anche nelle sedie di Kossi Assou (1958, Costa d’Avorio/Togo)254, Abdoul Aziz Diop (1959, Senegal/Mali)255, Annie Jouga (1953, Senegal)256, Hassane Sarr (1967, Senegal)257, César Dogbo (Costa d’Avorio)258, Baltazar Faye (1964, Senegal/Francia)259 e Babacar Sedikh Traore (1956, Senegal)260; nei tavolini di Madeleine Rachel Marietta Bomboté (1975, Senegal/Mali)261, Anna Jouga (1953, Senegal)262, Takité Kambou (1966, Burkina Faso)263, Amadou Niang (1961, Senegal)264, Mouhamed Ahbib (Marocco)265, del duo Solène Prince Agbodjan e Bertrand Bédel Amessan (Costa d’Avorio)266; nelle posate di Cheick Diallo (1960, Mali/Francia)267, Hans Ranaivoson Tsikitsky (1951, Madagascar)268 e Mohamed Yahyaoui (noto anche come Yamo, Algeria/Tunisia)269; nei piatti di Claudine Rakotonena (1950, Madagascar)270, negli scaffali di Doris Christine Mian (1977, Costa d’Avorio)271, nel divano di Sawalo Cisse (1950, Senegal)272 e nel divano letto di Doris Miam-Benie (1977, Costa d’Avorio)273.

L’arte tessile si collega al grande interesse tradizionale africano per i motivi su stoffa e per la moda; si tratta di tradizioni che hanno subito numerosissime modifiche ed un grande sviluppo nel corso del tempo.

Alla Biennale di Dakar gli stilisti e i designer di tessuti esposero le loro creazioni in un salone autonomo nel 1996274 e nel 1998275, mentre successivamente soltanto alcune opere (svincolate dalla moda) furono presentate all’interno dell’esposizione di design; durante le diverse edizioni della Biennale furono organizzate anche sfilate e la settimana della moda. La stilista Aïssatou Djionne (1952, Francia/Senegal) espose oltre che i suoi tessuti nel 1996 e nel 1998 anche un divano nell’edizione del 1996. I tessuti di Prix de l?hymène di Bounama Sall Ndiaye (1956, Senegal)276 presentano elementi dell’immaginario tradizionale, ma sono esposti su un supporto metallico, quasi fossero dipinti di un trittico; quelli di Aboubacar Fofana (1967, Mali/Francia) rievocano i disegni del Mali, in chiave moderna attraverso la tecnica della tintura vegetale, mentre il quadro di Zoarinivo Razakaratrimo (1956, Madagascar)277 è una tenda tessuta.

La contaminazione di elementi popolari nell’arte contemporanea africana rientra nel recupero e nell’evoluzione delle tradizioni, in alcuni casi eseguito autonomamente dagli artisti, in altri finalizzato a soddisfare lo shopping dei turisti: le opere d’arte influenzate dall’arte popolare non vanno dunque confuse con i prodotti dell’arte d’aeroporto, ovvero con i souvenir artigianali e decorativi. Il legame con l’arte popolare dà spesso alle opere degli artisti africani un aspetto vivace e ironico, creando oggetti curiosi ed immagini fumettistiche; è un riferimento estetico ed uno strumento semplice ed efficace per inviare messaggi sociali, culturali e politici.

Magiciens de la Terre fu un’esposizione ricca di artisti che hanno legami con la produzione popolare in Africa: anche per questa selezione piuttosto uniforme la mostra fu lungamente messa in discussione278. Tra gli artisti presenti a Dak’Art, John Goba (1944, Sierra Leone)279 produce sculture coloratissime circondate da sfere in cui sono infilzati aculei di porcospino; Kivuthi Mbuno (1947, Kenya)280 crea personaggi e ambienti surreali con carta e matite; Georges Lilanga (1943, Tanzania)281 riempie tele ad acquarello con esseri allegri, ironici e dispettosi che si piegano e si contorcono; Cyprien Tokoudagba (1939, Benin)282 su sfondi uniformi ritrae oggetti-simbolo e corpi semplici ed immobili; Saidou Beyson Zoungrana (1966, Ghana/Burkina Faso)283 dipinge su vetro scene di vita quotidiana dei quartieri cittadini; Body Iseh Kingelez (1948, Congo Kinshasa)284 costruisce eleganti e dettagliati modellini di città immaginarie; i dipinti di Cheri Samba Wa Mbimba (1956, Congo Kinshasa) ritraggono momenti della cronaca della Repubblica Democratica del Congo, inserendo testi e didascalie nelle opere, quasi fossero pubblicità storiche.

Numerosi galleristi, collezionisti e curatori occidentali hanno richiesto e tutt’oggi richiedono all’arte africana di essere “autentica” (ed implicitamente curiosa ed esotica), trascurando gli artisti che non rientrano in questa categoria o addirittura accusandoli di non essere veramente “africani”, avendo accettato l’influsso occidentale ed avendo quindi preso la loro cultura originale. Questa “autenticità” dell’arte appare – secondo i suoi sostenitori – in un’aderenza alle tradizioni (ad esempio il legame con l’arte popolare o con i simboli dell’Africa) o a degli stili diffusi (ad esempio l’uso di materiali di recupero)285.

Olu Oguige, nell’editoriale per il numero speciale della rivista “Third Text” sull’Africa In the Heart of Darkness286, dichiara che la modernità è data per scontata in Occidente, ma che l’Occidente ha grandi difficoltà a trovare la stessa cosa in Africa; paradossalmente l’assimilazione degli “Altri” in Occidente è stata applaudita come la maggior rivoluzione dei tempi attuali, mentre se avviene la stessa cosa in Africa si considera il fenomeno come un’erosione e una disintegrazione della civilizzazione nativa. Gli artisti Everlyn Nicodemus e Gavin Jantjes sono alcuni dei testimoni di questo scontro tra la percezione occidentale l’arte africana: Everlyn Nicodemus racconta che quando ha mostrato le sue opere alle gallerie occidentali è stata rifiutata e le è stato consigliato di ritornare con qualcosa di “africano”287; Gavin Jantjes sostiene che “tradizione” è la parola che è stata utilizzata per incapsulare l’arte dell’Africa, mentre la realtà è che gli artisti africani tendono a produrre un’arte basata sul sincretismo, quello stesso che caratterizza le loro vite: il dinamismo sembra quindi essere agli occhi dell’Occidente proprietà esclusiva dell’Occidente stesso, mentre si tratta dell’unica caratteristica che può accomunare tutti gli artisti africani, alcuni ovviamente con un’interpretazione dell’essenza del dinamismo più felice ed altri meno288.

In realtà la produzione africana è molto varia e svincolata dall’esclusivo legame con l’immaginario tradizionale, con l’arte popolare o con l’utilizzo di materiali di recupero: questi elementi sono infatti una delle tante fonti, che convivono con nuove tecniche, linguaggi e influssi.

Le informazioni sull’arte contemporanea internazionale arrivano in Africa attraverso Internet, cataloghi, pubblicazioni e contatti. Oltre agli artisti africani che ricevono una formazione fuori dal continente (scuole d’arte, residenze d’artista, laboratori, scambi) o che risiedono in Occidente, molti hanno anche accesso ad esposizioni e laboratori internazionali (in Africa o all’estero), all’intero dei quali possono confrontarsi con la produzione di partecipanti provenienti da tutto il mondo; la stessa Biennale di Dakar, con le sue mostre ufficiali e i suoi eventi paralleli, ha anche il merito di essere un’occasione di incontri e dibattiti. Altri esempi particolari sono l’esposizione South meeets West289 che si è svolta in Ghana ed in Svizzera nel 1999 e 2000 ed il progetto Veilleurs du Monde290 che ha coinvolto artisti africani e occidentali nella creazione di opere a Cotonou in Benin nel 1997. Il paradosso di queste mostre è che sono spesso organizzate da curatori occidentali con l’obiettivo di aumentare i contatti tra gli artisti africani, ma spesso questi già si conoscono perché partecipano insieme a mostre internazionali di arte contemporanea africana, viaggiano ed espongono in tutto il mondo291.

La ricchezza delle fonti degli artisti africani, ma anche la conoscenza della ricchezza artistica africana fuori dal continente, è profondamente legata alla situazione delle comunicazioni in Africa.

Le vie di comunicazione tra i paesi africani e all’intero delle singole nazioni sono decisamente meno sviluppate rispetto alla vie di comunicazione tra l’Africa e l’Occidente e questo si ripercuote ovviamente anche nello sviluppo dell’arte e nelle ricerche artistiche. Un esempio per comprendere il sistema di comunicazione interno all’Africa e tra l’Africa e l’Occidente è offerto dai collegamenti aerei: facendo le dovute proporzioni, è decisamente più rapido e più economico viaggiare da Dakar a Parigi, piuttosto che da Dakar a Johannesburg; e questa situazione si ripresenta per quasi tutte le capitali dell’Africa in rapporto con le capitali Occidentali. La comunicazione tra città e villaggi è poi estremamente esigua e lenta a causa dell’insufficienza e la mediocrità dei collegamenti via terra: in generale in Africa esistono poche linee ferroviarie e poche strade; le strade sono spesso piste non asfaltate che oltretutto diventano praticamente impraticabili durante la stagione delle piogge.

Le lingue ufficiali dei diversi paesi dell’Africa determinano canali privilegiati di comunicazione tra le nazioni che hanno idiomi comuni. Per quanto riguarda il francese e l’inglese292, la lingua comune facilita le relazioni interne all’Africa, e allo stesso tempo rende più intensi i rapporti con, da una parte Parigi e le comunità francofone di Belgio, Svizzera e Canada, e dall’altra con Londra e gli Stati Uniti. Inoltre le istituzioni, come per esempio i Centri Culturali Francesi e l’Organizzazione Intergovernamentale della Francofonia nei paesi francofoni, facilitano ancora di più le relazioni culturali tra gli Stati293. Negli ultimi anni i collegamenti telefonici (telefonia fissa, mobile e fax), ed il conseguente ed eventuale collegamento ad Internet, hanno in parte migliorato la situazione delle comunicazioni in Africa, offendo attraverso l’accesso alla rete un numero maggiore di informazioni provenienti dall’estero, dei contatti più facili ed economici (grazie all’uso della posta elettronica) ed una migliore visibilità di quello che avviene nel continente africano. Il numero dei paesi africani che hanno buoni collegamenti telefonici ed hanno sviluppato Internet è ancora esiguo. Alcuni paesi – come Sudafrica, Marocco, Tunisia, Egitto ed in parte anche Senegal – hanno un miglior accesso alla rete rispetto agli altri paesi dell’Africa, ma lo sviluppo delle nuove tecnologie, per quanto in aumento, è ancora molto debole rispetto al resto del mondo, e non soltanto rispetto all’Occidente294.

La pittura

Soprattutto le prime edizioni della Biennale di Dakar hanno esposto molte opere pittoriche. Collage, astrazione e figurativismo servono ad esprimere l’immaginario tradizionale africano295, a rileggere modelli occidentali, ma anche a ritrarre in modo estremamente personale la realtà contemporanea.

Mulugeta Tafesse (Etiopia/Belgio)296 ritrae giovani spezzati; i suoi disegni dipinti ad acrilico sono intimi e tristi, dominati da sfumature di blu e di grigio. Suzanne Ouédraogo (Burkina Faso)297 nel suo Bestiaire inventa animali fantastici, rumorosi e sperduti. Con carboncini, matite e pittura acrilica Amadou Camara Guèye (1968, Senegal)298 crea figure in movimento, in spazi fitti di oggetti e caotici. Le opere di Mohamed Kacimi (Marocco/Francia)299 sono grandi tele o affreschi in cui elementi figurativi – come città e persone – si perdono in uno strato di colore denso e invadente che ricopre con sentimenti e passioni la realtà fisica del mondo. Alcune opere si collegano alla tradizione figurativa occidentale. I personaggi che popolano le tele di Tchale Figueira (1953, Capo Verde)300 sono massicci, delimitati da linee marcate e colorati con pennellate non uniformi, ma spezzate e sfumate, molto vicine allo stile di Chagall, mentre la pittura di Tamsir Dia (1950, Mali/Costa d’Avorio)301 si ricollega all’opera di Munch.

La fotografia

La fotografia è una tecnica che ha avuto un largo seguito in Africa e che vanta protagonisti noti internazionalmente.

Alla Biennale di Dakar del 1998 (la prima ad inserire la fotografia nelle tecniche ammesse) Gaspard Vincent Tatang (1957, Camerun) immortala in bianco e nero la forza fisica e l’energia di danzatori africani. Babéhi Rachèle Crasso (1970, Costa d’Avorio) e Hien Macline (1968, Costa d’Avorio) selezionano attimi quotidiani di vita: una donna che spazza per terra, un bambino che ravviva il fuoco sotto alla pentola del pranzo, una madre che trasporta dell’axqua; Ananas Léki Dago (1970, Costa d’Avorio) crea immagini di paura e disperazione, intimi e solitari ed Edith Taho (1974, Costa d’Avorio) racconta la guerra in Liberia; le immagini di Ousmane Ndiaye Dago (1951, Senegal)302 rappresentano corpi seminudi, dipinti fino a diventare sculture umane, immortalate poi dall’apparecchio fotografico. A Dak’Art 2000 Samuel Fosso (1962, Camerun) di ritrae in diverse pose in una serie degli anni Settanta: vestito elegantemente, trasandato e ribelle, ballerino alla moda o semplicemente in mutande e canottiera; Essien Mfon (Ghana/Stati Uniti) fotografa il corpo statuario di una donna che ha subito l’esportazione ad un seno per un cancro; bellezza e forza fisica devono convivere con una cicatrice ed una ferita profonda. Angèle Etoundi Essamba (1962, Camerun)303 espone i pensieri di una donna, sovrapponendo alla sua fotografie ombre, sfumature, oggetti o semplicemente il nero.

I due fotografi del Mali Seydou Keita (1923-2001) e Malick Sidibé (1936), noti internazionalmente ma che non hanno mai esposto a Dakar, possono forse sintetizzare lo spirito di tanti artisti africani. I loro ritratti parlano di un’Africa che si muove, soffre e sorride proprio come il resto del mondo. Le mode, gli amori e i sogni la invadono rendendo universali i pensieri che le loro immagini catturano. Allo stesso modo tutti gli artisti africani raccontano i mille pensieri delle loro Afriche, che non sono terre esotiche e lontane, ma presenze vive e contemporanee, estremamente vicine.

Note

  1. Occidente è un termine molto usato dalla critica d’arte contemporanea africana; con Occidente si indicano tutti i paesi cosiddetti “sviluppati”, in contrasto con i paesi cosiddetti “in via di sviluppo”. Un termine adottato da Okwui Enwezor e Olu Oguibe per suddividere la geografia del mondo è anche G7 (che oggi andrebbe attualizzato in G8) l’espressione è particolarmente ricca, siccome si riferisce alla situazione sociopolitica e ai dibattiti che gli incontri del G8 stanno generando, ma per la connotazione negativa che potrebbe esprimere si è preferito non adottarla (Okwei Enwezor e Olu Oguibe, Introduction in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, (a cura di) Olu Oguibe e Okwui Enwenzor, Institute of International Visual Arts (inIVA) e MIT Press, London, 1999, p. 9).
  2. Documenta è una delle più prestigiose mostre d’arte contemporanea internazionale, nata nel 1955 e divenuta quinquennale dal 1972. La mostra si svolge a Kassel in Germania ed ha lo scopo di “documentare” attraverso le opere che presenta lo stato dell’arte, in particolare cambiamenti, rotture, segni e conflitti. Tutte le informazioni sugli artisti africani a Documenta derivano dalla consultazione dei cataloghi e dalla visita alla mostra del 2002. Documenta IX (Kassel, 13/06-20/09/1992), Edition Cantz, Stuttgart, 1992. Documenta X (Kassel, 21/06-18/09/1997), Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit (Germania), 1997. Documenta 11_Platform 5 Exhibition (Kassel, 08/06-15/09/2002), Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit (Germania), 2002.
  3. Documenta XI di Kassel presentò gli artisti africani Georges Adéagbo (1942, Benin), Zarina Bhimji (1963, Uganda/Gran Bretagna), Frédéric Bruly Bouabré (1921, Costa d’Avorio), Touhami Ennadre (1952, Marocco/Francia), Meschac Gaba (1961, Benin/Olanda), Kendell Geers (Sudafrica/Gran Bretagna/Belgio, 1968), David Goldblatt (1930, Sudafrica), William Kentridge (1955, Sudafrica), Bodys Isek Kingelez (1948, Congo Kinshasa), Santu Mofokeng (1956, Sudafrica), Olumuyiwa Clamide Osifuye (1960, Nigeria), Yinka Shonibare (1962, Gran Bretagna), Ouattara Watts (1957, Costa d’Avorio/USA), Pascale Marthine Tayou (1967, Camerun/Belgio), il Gruppo Amos di Kinshasa e il gruppo Huit Facettes di Dakar.
  4. Documenta XI ha presentato cinque Platform, di cui l’ultima era la mostra centrale di Kassel, che si è svolta dall’8 giugno al 15 settembre 2002. Le altre piattaforme erano intitolate Democracy Unrealized (Vienna 15/03-20/04/2001; Berlino 09-30/10/2001), Experiments with Truth Transitional Justice and the Processes of Truth and Reconciliation (Nuova Delhi 07-21/05/2001), Créolité and Creolization (Isola dei Caraibi Santa Lucia 12-16/01/2002) e Under Siege Four African Cities Freetown, Johannesburg, Kinshasa, Lagos (Lagos 15-21/03/2002).
  5. ault Lines/Smottamenti presentò gli artisti Laylah Ali (1968, Stati Uniti), Kader Attia (1970, Francia), Samta Benyahia (1949, Algeria/Francia), Zarina Bhimji (1963, Uganda/Germania/Gran Bretagna), Frank Bowling (1936, Guyana/Gran Bretagna/Stati Uniti), Clifford Charles (1965, Sudafrica), Pitzo Chinzima (1972, Sudafrica), Rotimi Fani-Kayode (1955-1992, Nigeria), Velista Gwintsa (1968, Sudafrica), Mashekwa Langa (1975, Sudafrica/Olanda), Salem Mekuria (1947, Etiopia/Stati Uniti), Sabah Naim (1967, Egitto), Moataz Nasr (1961, Egitto) e Wael Shawky (1971, Egitto).
  6. Tra gli altri Abdel Abdessemed (1971, Algeria/Germania), Marlene Dumas (1953, Sudafrica/Olanda), Hassan Fathy (1900-1989, Egitto), Chris Ledochowksi (1956, Sudafrica), Antonio Ole (1951, Angola) e Muyiwa Osifuye (1960, Nigeria).
  7. Artista Ahmed Nawar (1945), commissario Mostafa Abdel-Moity.
  8. Artisti Richard Onyango (1960) e Armando Tanzini (1943), commissario Ugo Simonetti e commissario aggiunto Nanda Vigo.
  9. Tra i quali Meschac Gaba (1961, Benin/Olanda).
  10. Salah Hassan e Olu Oguibe raccontano che la decisione di Catherine David fu presa all’ultimo momento (Salah Hassan e Olu Oguibe, Preface in Authentic/Ex-Centric, a cura di Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001, p. 8).
  11. Tra i critici africani e dell’arte contemporanea africana furono invitati Ery Camara, Clémentine Deliss e Okwui Enwezor.
  12. La Biennale di Venezia le esposizioni internazionali d’arte 1895-1995, Electa/La Biennale di Venezia, 1996, p. 79.
  13. L’Egitto continuò ad esporre a Venezia e all’edizione XXVII (1954) ebbe il suo padiglione nei Giardini; non partecipò alla Biennale di Venezia solo in occasione dell’edizione XXXVIII (1978).
  14. Il Sudafrica partecipò nelle sale straniere alle Biennali di Venezia XXVI (1952), XXVII (1954), XXVIII (1956), XXIX (1958), XXXII (1964), XXXIII (1966), XXXIV (1968), XLV (1993, Affinities ontemporary South African Art, a cura di Glenn R.Babb, South African Associations Of Arts e Carlo Trevisan, Ambasciata del Sudafrica, Roma, 1993) e XLVI (1995).
  15. Con l’artista del Congo belga Mpoyo (Anthologie de l’art africain du XX siècle, a cura di N’Goné Fall e Jean Loup Pivin, Éditions Revue Noire, Paris, 2001, p. 399).
  16. Ivi, p. 400.
  17. Fusion – West African Artists at the Venice Biennale, a cura di Thomas McEvilly, Museum for African Art, New York, 1993; secondo Salah Hassan e Olu Oguibe la mostra dell’edizione LV vinse una madeaglia (Salah Hassan e Olu Oguibe, Preface in Authentic/Ex-Centric..., p. 6).
  18. Salah Hassan e Olu Oguibe, Preface in Authentic/Ex-Centric..., p. 6-7.
  19. L’esposizione Authentic/Ex-Centric Africa in and out of Africa presentò le opere di Willem Boshoff, Maria Magdalena Campos-Pons, Godfried Donkor, Rachid Koraichi, Berni Searle, Zineb Sedia e Yinka Shonibare; quest’ultimo ricevette una menzione d’onore dalla giuria della Biennale.
  20. E’ importante accennare anche alla partecipazione degli artisti africani alla Biennale di La Habana (Cuba). La Biennale dell’Avana è organizzata dal Centro de Arte Contemporaneo Wilfredo Lam ed alcuni artisti africani parteciparono fin dalla prima edizione del 1984.
  21. Cfr. paragrafo La critica d’arte africana.
  22. La mancanza di informazione dà spesso un’immagine distorta del continente africano, che appare agli occhi di molti come un paesaggio abitato esclusivamente da miseria, guerra e disperazione. Come dice John Picton in Yesterday’s Cold Mashed Potatos (in Art Criticism and Africa, a cura di Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997, p. 22) “In un senso o nell’altro, la gente produce arte in Africa da qualcosa come due milioni di anni”.
  23. Anthologie de l’art africain du XX siècle..., pp. 398-399.
  24. I Rencontres Internationales de la Photographie Africaine (nel 2003 alla V edizione) sono in particolare sostenuti dall’AFAA e da Afrique en Création, due organizzazioni del Ministero degli Esteri francese.
  25. Il Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougo (FESPACO) nel 2004 sarà alla sua XIX edizione.
  26. Salon International de l’Artisanat de Ouagadougo (SIAO).
  27. Il Marché des Arts du Spectacle Africain (MASA) è in particolare sostenuto dall’Agenzia della Francofonia.
  28. I Rencontres Chorégraphiques de l’Afrique et de l’Océan Indien – finanziati soprattutto dal Ministero degli Esteri francese attraverso l’AFAA e Afrique en Création – ebbero luogo per la prima volta a Luanda (Angola) nel 1995; la loro terza edizione del 1999 fu trasferita ad Antananarivo (Madagascar). La quinta edizione si è svolta ad Antananarivo nel 2003.
  29. Nicole Guez, Art africain contemporain – Guide, Editions Dialogue Entre Cultures, Paris, 1992.
  30. http//www.galerie-artspluriels.com
  31. Magiciens de la Terre (Centre Pompidou e la Grande Halle de la Villette, Parigi, 18/05-14/08/1989), a cura di Jean-Hubert Martin, Editions du Centre Pompidou, Paris, 1989.
  32. Mark Francis, True Stories, ou Carte du monde poétique, in Magiciens de la Terre, pp. 14-15.
  33. André Magnin, 6° 48’ Sud 38° 39’ Est, in Magiciens de la Terre, pp. 16-17.
  34. Jean-Hubert Martin, Préface…, p. 9.
  35. Ivi, pp. 8-11.
  36. Pierre Gaudibert, La planète tout entière, enfin…, in Magiciens de la Terre, pp. 18-19.
  37. Jacques Soulillou, Ravissantes périphéries, in Magiciens de la Terre, pp. 28-31.
  38. Jean-Hubert Martin, Préface…, p. 10.
  39. Pierre Gaudibert, La planète…, p. 18.
  40. Mark Francis, True…, p. 15.
  41. Homi Bhabha, Hybridité, identité et culture contemporaine, in Magiciens de la Terre, pp. 24-27.
  42. Thomas McEvilley, Ouverture du piège l’exposition postmoderne et “Magiciens de la Terre”, in Magiciens de la Terre, pp. 20-23.
  43. Pierre Gaudibert, La planète…, p. 18.
  44. Okwei Enwezor e Olu Oguibe, Introduction in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, a cura di Olu Oguibe e Okwui Enwenzor, Institute of International Visual Arts (inIVA) e MIT Press, London, 1999, p. 9.
  45. Ibidem.
  46. Cfr. paragrafo La critica d’arte africana.
  47. Il ritorno dei Maghi – Il Sacro nell’arte africana contemporanea, a cura di Sarenco ed Enrico Mascelloni, Edizioni Skira, Milano, 2000 (Orvieto 08/04-30/06/2000).
  48. Gli artisti presentati da Il ritorno dei Maghi furono Almighty God (1950, Ghana), Seni Camara (1945, Senegal, Magiciens de la Terre), Ousmane Ndiaye Dago (1952, Senegal), John Goba (1944, Sierra Leone, anche in Collezione Pigozzi), Engdaget Legesse (1971, Etiopia), Georges Lilianga (1934, Tanzania, anche in Collezione Pigozzi), Amadou Makhtar Mbaye (1954, Senegal), Kivuthi Mbuno (1947, Kenya, anche in Collezione Pigozzi), Lemming Muyoro (1938, Zimbabwe), Antonio Ole (1951, Angola), Richard Onyango (1960, Kenya, anche in Collezione Pigozzi), Adballah Salim (1958, Kenya), Twins Seven Seven (1944, Nigeria, Magiciens de la Terre e in collezione Pigozzi), Cyprien Tokoudagba (1954, Benin, Magiciens de la Terre e in Collezione Pigozzi) e Peter M.Wanjou (1968, Kenya).
  49. Partage d’Exotisme Biennale d’Art Contemporain de Lyon, a cura di Jean-Hubert Martin, Lione, 2000 (27/06-24/09/2000).
  50. Gli artisti africani esposti alla Biennale di Lione del 2000 furono Esther Mahlangu (1937, Sudafrica, Magiciens de la Terre), Jane Alexander (1959, Sudafrica), Caliate Dakpogan (1958, Benin), Farid Belkahia (1934, Marocco), Kolouma Sovogi (1965, Guinea), John Goba (1944, Sierra Leone), Yinka Shonibare (1962, Gran Bretagna), Pumé (1968, Sudafrica), Abubakar Mansarray (Sierra Leone), Ghada Amer (1963, Egitto), Jean-Baptiste Nguetchopa (1953, Camerun), Pascal Marthine Tayou (1967, Camerun), Barthélémy Toguo (1967, Camerun/Francia/Germania), Gera (Etiopia), Gedewon (1939, Etiopia), Georges Adéagbo (1942, Benin), Romuald Hazoumé (1962, Benin) e Touhami Ennadre (1953, Marocco).
  51. Anthologie de l’art africain du XX siècle..., pp. 398-399.
  52. Polly Notter-Roberts storica dell’arte e conservatrice del Museo dell’Iowa nel 1996; oggi è la direttrice del museo dell’Università della California di Los Angeles (UCLA); inoltre sta studiano in modo particolare l’arte mistica dei mourides del Senegal su cui sta organizzando un’esposizione.
  53. http//www.revuenoire.com/
  54. Tra gli speciali Abidjan, Libreville, Dakar, Kinshasa, Namibia, Camerun, Capo Verde, Sudafrica, Marocco, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Togo, Ghana, Benin, Djibuti, Etiopia, Eritrea, Mozambico, Madagascar, Zimbabwe, Angola, i Caraibi, Oceano Indiano, Brasile, Canada, Londra e Parigi africana, cinema, arti dello spettacolo, danza, moda, Africa mediterranea a nera, artisti africani e l’AIDS, città africane e cucina africana e arte.
  55. Dal sesto numero della rivista (1992), i direttori ed i collaboratori dei numeri speciali furono indicati all’inizio dell’indice, in modo che – a seconda dell’argomento trattato – gli incaricati fossero esperti nel settore. Per la realizzazione di questi numeri, la redazione della rivista visitava il paese in esame e compiva ricerche sull’arte.
  56. Critico e curatore della Costa d’Avorio, fu membro del Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria di Dak’Art nel 1998. Nel 2002 pubblicò un testo critico sull’autenticità dell’arte africana sul catalogo della Biennale.
  57. Critico e curatore di origine marocchina, direttore della sezione d’arte contemporanea dell’Institut du Monde Arabe di Parigi, fu membro del Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria di Dak’Art 1996 e curò l’Esposizione Individuale di Mohamed Kacimi.
  58. Critico e direttore della casa editrice “Revue Noire”, pubblicò una breve storia della Biennale di Dakar sul catalogo dell’edizione del 2002.
  59. Critico e curatore, curò anche l’Esposizione Individuale di Bili Bidjocka nel 2000.
  60. Critica e curatrice, curò anche l’Esposizione Individuale dell’Africa nel 2002, invitando gli artisti Berry Bickle, Amahiguere Dolo e Aimé Ntiakiyica. Nel 2002 era coordinatrice artistica dell’organizzazione belga Africalia.
  61. “Third Text” è pubblicata dalla casa editrice Kala Press che ha tra l’altro pubblicato nel 1994 Global Visions Towards a New Internationalism in the Visual Arts a cura di Jean Fisher (autore tra l’altro di uno dei testi del catalogo di Documenta X di Kassel, Toward a Methaphysics of Shit in Documenta 11_Platform 5 Exhibition…, pp. 63-70.
  62. http//www.africaserver.nl/
  63. http//www.vmcaa.nl/
  64. http//www.africancolours.com/
  65. http//www.universes-in-universe.de/
  66. http//www.artthrob.co.za/. L’artista e critica d’arte Sue Williamson ha partecipato alla Biennale di Dakar del 2000 e del 2002 come corrispondente della rivista e ha registrato le sue impressioni nel suo diario on-line.
  67. http//www.cairoartindex.org/
  68. Art Criticism and Africa, a cura di Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997, p. 118.
  69. Barbara Murray, Art Criticism for Whom? The Experience of “Gallery” Magazine in Zimbabwe in Art Criticism and Africa, a cura di Katy Deepwell, p. 55-62.
  70. http//www.culture-developpement.asso.fr
  71. http//www.lecambre.be/
  72. Per l’organizzazione Camouflage, cfr. paragrafo L’arte contemporanea africana La categoria geografica.
  73. http//www.danykellergalerie.de/
  74. Fino al 1998 Orlando Britto Jinorio lavorava al Centro Atlantico di Arte Moderna (CAAM) di Las Palmas de Gran Canaria, dove è pubblicata la rivista “Atlantica”.
  75. http//www.bluecoatartscentre.com/
  76. Mary Angela Schroth ha visitato la Biennale di Dakar nel 2000 e la Biennale del Cairo nel 2001. Al Cairo ha anche realizzato un video sulla Biennale, finanziato dal Ministero degli Esteri Italiano.
  77. L’esposizione Fratelli si nasce di Richard Onyango e David Ochieng del 2000 è stata curata da Achille Bonito Oliva.
  78. La Galleria Lia Rumma ha esposto l’artista sudafricano William Kentridge e la giovane artista egiziana Sabah Naim. Nel 2002 – dopo la pubblicazione delle mio articolo Il Cairo, tra antico e contemporaneo su “Tema Celeste” – la gallerista Lia Rumma mi ha contattato per una consulenza sugli artisti egiziani.
  79. Cfr. paragrafo precedente.
  80. http//www.centropecci.it/
  81. Curatore tra l’altro nel 2001 di Africas The Artist and the City – A Journey and an Exhibition, al Centre de Cultura Contemporania de Barcelona.
  82. Alfons Hug curò inoltre l’esposizione del 1997 Die Anderen Modernen Zeitgenössische Kunst aus Afrika, Asien und Lateinamerika, Hauses der Kulturen des Welt, Berlin.
  83. http//www.fondation-langlois.org/
  84. http//www.artfactories.net/
  85. http//www.mainsdoeuvres.org/
  86. http// www.isea-web.org/
  87. Primitivism in 20th Century Art, a cura di William Rubin, Museum of Modern Art (MOMA), New York, 1984.
  88. Africas The Artist and the City – A Journey and an Exhibition, a cura di Pep Subiros, Centre de Cultura Contemporania de Barcelona, Barcelona, 2001, (29/05-11/09/2001).
  89. La Biennale della Pittura Islamica di Teheran in Iran è aperta a partecipanti esclusivamente musulmani.
  90. Polly Notter-Roberts (Comitato Internazionale Dak’Art 1996) sta studiando l’arte prodotta dai membri della confraternita religiosa dei mourides del Senegal e su queste sta preparando una mostra.
  91. Cfr. capitolo Politica culturale in Senegal.
  92. La Biennale dell’Arte Contemporanea Bantu di Libreville in Gabon è promossa dal Centro Internazionale delle Civilizzazioni Bantu (diretto da Datomene Kukanda) e dall’Agenzia Intergovernamentale della Francofonia ed è focalizzata sulla produzione degli artisti dell’Africa centrale.
  93. Per quanto riguarda le classificazioni in base al linguaggio e agli stili degli artisti, cfr. paragrafo I linguaggi dell’arte contemporanea africana.
  94. André Magnin e Jacques Soulillou, Contemporary Art of Africa, Thames and Hudson, New York-London, 1996.
  95. Teresa Macrì, Postculture, Maltemi, Roma, 2002.
  96. Ulli Beier, Contemporary Art in Africa, Pall Mall Press, London, 1968.
  97. Pierre Gaudibert, L’art africain contemporain, Editions Cercle d’Art, Paris, 1991.
  98. Jean Kennedy, New Currents, Ancient Rivers – Contemporary African Artists in a Generation of Change, Smithsonian Institute Press, London-Washington DC, 1992.
  99. Sidney Littlefield Kasfir, Contemporary African Art, Thames & Hudson Ltd, London, 1999, pp. 224 [in edizione francese L’Art contemporain africain, Thames & Hudson SARL, Paris, 2000].
  100. Marion Arnold, Women and Art in South Africa, David Philip Publishers, Claremont (Sudafrica) e St.Martin Press, New York, 1996.
  101. Dialogue of the Present – 18 Contemporary Arab Women Artists, a cura di Siumee H. Keelan, Fran Lloyd, London, 1999, pp. 260.
  102. Osa D. Egonwa, African Art A Contemporary Source Book, Osasu Publishers, Benin City, 1991.
  103. Magnin, André e Jacques Soulillou. Contemporary Art of Africa, Thames and Hudson, New York-London, 1996, pp. 8-17.
  104. V.Y.Mudimbe, Reprendre Enunciations and Strategies in Contemporary African Arts in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, (a cura di) Olu Oguibe e Okwui Enwenzor, Institute of International Visual Arts (inIVA) e MIT Press, London, 1999, pp. 36-47.
  105. Authentic/Ex-Centric (esposizione parallela alla Biennale di Venezia), a cura di Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001 (Venezia 09/06-30/09/2001).
  106. Olu Oguibe sottolinea la fluidità e la mobilità che caratterizza gli artisti contemporanei africani in Strangers and Citizens in Authentic/Ex-Centric…, pp. 50-68. Il testo deriva da una conferenza di Olu Oguibe presentata a Bordeaux (Francia) il 4 aprile 2001 e già pubblicato nel catalogo della mostra itinerante Cross/ing (a cura del Contemporary Art Museum e dell’African American Art Museum di Tampa in Florida, 1997.
  107. Ovviamente gli spostamenti non fanno parte esclusivamente della storia del continente africano, ma di tutti i continenti; va però notato che spesso l’immagine dell’Africa viene associata ad forte staticità e che la stampa e le pubblicazioni – quanto meno quelle italiane – parlano molto poco dei fenomeni di immigrazione ed emigrazione contemporanea interna al continente o verso l’Africa.
  108. Gli artisti africani o d’origine africana che vivono in Occidente sono numerosissimi. Gli artisti della diaspora africana fanno parte delle comunità nere delle Americhe e dei Caraibi, ma spesso vengono definiti così anche gli artisti che si sono trasferiti in Occidente “liberamente”, per via della difficile situazione artistica, economica, ma anche politica e sociale delle loro nazioni d’origine. Tra gli artisti di Dak’Art che vivono in Occidente si possono ricordare tra gli altri Mounir Fatmi (Marocco/Francia), Lisa Brice (Sudafrica/Gran Bretagna). Fatma M’seddi Charfi (Tunisia/Svizzera), Goddy Leye (Camerun/Olanda), Mulugeta Tacesse (Etiopia/Belgio) ed Emeka Udemba (Nigeria/Germania).
  109. Tra i quali Ali Louati, Simon Njami, N’Goné Fall, Salah Hassan, Olu Oguibe, Okwui Enwezor e molti altri.
  110. Intervista a Fernando Alvim, Dakar, 09/05/2002 e materiale prodotto da Camouflage e dall’European Satellite.
  111. Hans Bogatzke è morto nel 2002.
  112. Cfr. capitolo La Biennale di Dakar.
  113. Molti di questi finanziamenti sono presentati sul sito http//www.universes-in-universe.de/
  114. Authentic/Ex-Centric (esposizione parallela alla Biennale di Venezia), a cura di Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001 (Venezia 09/06-30/09/2001).
  115. L’artista e curatore italiano Sarenco gode da questo punto di vista di una pessima reputazione.
  116. Olu Oguige sottolinea però che artisti noti e la cui arte è stata molto esportata, come nel caso di Middle Art, rimangono poveri (Olu Oguibe, Art, Identity, Boundaries Postmodernism and Contemporart African Art in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace..., p.24).
  117. Africa Now Jean Pigozzi Collection (esposizione itinerante), Groningen Museum, Groningen, 1991.
  118. The Jean Pigozzi Contemporary African Art Collection at the Saachi Collection, The Saatchi Gallery, London, 1992.
  119. Big City Artists from Africa, a cura di André Magnin, Serpentine Gallery, London, 1995.
  120. André Magnin e Jacques Soulillou, Contemporary Art of Africa, Thames and Hudson, New York-London, 1996.
  121. Intervista a Paolo Colombo, Ginevra, 16/09/2001.
  122. All’asta andarono le opere di Willie Bester (1956, Sudafrica), Fédéric Bruly Bouabré (1923, Costa d’Avorio, Magiciens de la Terre), Efiaimbelo (1925, Madagascar, Magiciens de la Terre), Ekefrey (1952, Nigeria), John Goba (1944, Sierra Leone), Romuald Hazoumé (1962, Benin), Samuel Kane Kwei (1954, Ghana, Magiciens de la Terre), Seydou Keita (1921, Mali), Body Isek Kingelez (1948, Congo Kinshasa, Magiciens de la Terre), David Koloane (1938, Sudafrica), Agbagli Kossi (1935-1991, Togo), Cheik Ledy (1962-1998, Congo Kinshasa), Georges Lilanga (1944, Tanzania), Esther Mahlangu (1935, Sudafrica, Magiciens de la Terre), Abubakarr Mansarary (1970, Sierra Leone), Kivuthi Mbuno (1947, Kenya), Moke (1950, Congo Kinshasa), Tommy Motswai (1963, Sudafrica), Francina Ndimande (1940, Sudafrica), Richard Onyango (1960, Kenya), Cheri Samba (1956, Congo Kinshasa), Sekon Sekongo (1945, Costa d’Avorio), Malik Sidibé (1935, Mali), François Thango (1936-1981, Angola/Congo Brazzaville), Cyprien Tokoudagba (1939, Benin, Magiciens de la Terre), Twins Seven Seven (1944, Nigeria, Magiciens de la Terre), Sane Wadu (1954, Kenya) e Zinsou (1958, Benin).
  123. Contemporary African Art from the Jean Pigozzi Collection (catalogo dell’asta presso Sotheby’s), London, 24/06/1999 e foglio informativo sui risultati d’asta.
  124. Olu Oguibe, Art, Identity, Boundaries Postmodernism and Contemporart African Art in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace…, pp.17-29.
  125. Authentic/Ex-Centric (esposizione parallela alla Biennale di Venezia), a cura di Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001 (Venezia 09/06-30/09/2001).
  126. Africa in Venice, conferenza stampa, Dakar, 05/05/2000.
  127. N’Goné Fall, Mythe, Mémoire et Concept in Dak’Art 2002 – 5eme Biennale de l’Art Africain Contemporain (cat. esposizione), La Biennale des Arts de Dakar, Dakar, 2002, pp. 106-108.
  128. Ivi, pp. 106.
  129. In realtà oggigiorno nessun luogo dell’Africa è ancora “vergine”, come dichiarano André Magnin e Jacques Soulillou in Introduction in Contemporary Art of Africa, Thames and Hudson, New York-London, 1996, p. 12.
  130. Cfr. paragrafo Gli artisti africani contemporanei.
  131. Cfr. paragrafo Gli artisti africani contemporanei.
  132. Olu Oguibe, Art, Identity, Boundaries: Postmodernism and Contemporary African Art in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace..., p.27.
  133. Ivi, p.26.
  134. Everlyn Nicodemus, Meeting Carl Einstein in “Third Text. Third World Perspectives on Contemporary Art & Culture” Africa Special Issue. Numero 23, Summer 1993, p. 32.
  135. N’Goné Fall, Mythe, Mémoire et Concept in Dak’Art 2002 – 5eme Biennale de l’Art Africain Contemporain..., pp. 106-107.
  136. Cfr. capitolo Il contesto senegalese della Biennale di Dakar.
  137. Katy Deepwell, Introduction in Art Criticism and Africa..., p. 10.
  138. John Picton, Yesterday’s Cold Mashed Potatos in Art Criticism and Africa..., p. 22.
  139. Olu Oguibe, Art, Identity, Boundaries: Postmodernism and Contemporart African Art in Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace..., p.28.
  140. Olu Oguibe, In the Heart of Darkness in “Third text”, n. 23, estate 1993, p. 3.
  141. “Non sono più il tuo dannato oggetto nel British Museum”. Rasheed Araeen, From primitivism to Ethnic Arts in “Third text”, n. 1, Autunno 1987, p. 18.
  142. Cfr. capitolo Bibliografia: Bibliografia sull’arte contemporanea africana.
  143. Questa bibliografia del 1998, aggiornata fino al 2000. è pubblicata su Internet http://www.sil.si.edu/SILPublications/
  144. “Third Text. Third World Perspectives on Contemporary Art & Culture” Africa Special Issue. Numero 23, Summer 1993 e “Africa e Mediterraneo. Cultura e società”. Numero 2-3/99, Dicembre 1999. Dossier: Arte africana contemporanea, a cura di Giovanni Parodi di Passano.
  145. Katy Deepwell, Introduction in Art Criticism and Africa, (a cura di) Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997, p. 9.
  146. Art Criticism and Africa, (a cura di) Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997.
  147. Reading the Contemporary. African Art from Theory to the Marketplace, (a cura di) Olu Oguibe e Okwui Enwenzor, Institute of International Visual Arts (inIVA) e MIT Press, London, 1999.
  148. Global Visions Towards a New Internationalism in the Visual Arts, (a cura di) Jean Fisher, Kala Press, London, 1994.
  149. Patrimoine Culturel et Création Contemporaine – en Afrique et dans le Monde Arabe, (a cura di) Mohamed Aziza, Les Nouvelles Editions Africaines, Dakar, 1977.
  150. Iba Ndiaye Diadji, L’impossible Art Africain, Editions Dekkando, Dakar, 2002, pp. 118.
  151. Osa D.Engonwa, African Art: A Contemporary Source Book, Osasu Publishers, Benin City, 1991.
  152. Teresa Macrì, Postculture, Maltemi, Roma, 2002
  153. Cfr. capitolo Il contesto senegalese della Biennale di Dakar.
  154. Cfr. paragrafo successivo.
  155. Intervista ad Andrea Marchesini, Bologna, 20/06/2002. La piccola esposizione sull’Eritrea organizzata da “Africa e Mediterraneo” (Arte d’Eritrea: radici e diaspora (Vicenza, 15/06-07/07/2002), a cura di Marco Cavallarin e “Africa e Mediterraneo”, Lai-momo, Sasso Marconi, 2002) ha riscosso un inaspettato successo – maggiore rispetto a mostre d’arte contemporanea africana senza caratterizzazione nazionale – grazie alla partecipazione attiva del pubblico italiano e della comunità eritrea in Italia.
  156. Seven Stories About Modern Art in Africa, a cura di Clémentine Deliss, Whitechapel, London, 1995 (27/09-26/11/1995).
  157. Come nel testo di storia dell’arte africana di Sidney Littlefield Kasfir Contemporary African Art, Thames & Hudson Ltd, London, 1999, pp. 224 [in edizione francese: L’Art contemporain africain, Thames & Hudson SARL, Paris, 2000].
  158. Olabisi Silva, Africa95: Cultural Colonialism or Cultural Celebration in Art Criticism and Africa, a cura di Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997, pp. 15-20.
  159. Intervista a Simon Njami, Dakar, 12/05/2002.
  160. Come il Centro Cultale Tedesco che nel 2000 presentò l’opera di Markus Wirthmann e nello stesso spazio e nella Galleria Aux 4 Vents l’Ambasciata di Svezia organizzò un’esposizione di Ola Astrand (personale) e di Maria Miesenberg, Miriam Backstorm, Annika Eriksson e Jens Haarning. La Spagna allestì nel 2000 una mostra di Pepe Damaso sull’isola di Gorée, mentre l’Italia prmosse la collettiva E’ pericoloso sporgersi.
  161. Come nei progetti del 2000 Alimentation d’Art (Centro Culturale Tedesco), Brest - Berlin - Dakar: l’amour de l’art pour l’égalité des droits (Centro Culturale Tedesco) e Lutte traditionelle et mysticisme (British Council) o nelle esposizioni. Il Centro Culturale Francese di Dakar offrì il suo spazio per rassegne sul cinema d’animazione, con una larga e quasi esclusiva partecipazione di artisti dell’Africa.
  162. Cfr. paragrafo successivo. Per quanto soltanto Moataz Nasr partecipò alla Biennale di Dakar nel 2002, è interessante osservare la situazione artistica egiziana per la grande vivacità (tra l’altro gli artisti egiziani Moataz Nasr, Wael Shawky e Sabah Naim sono anche stati invitati alla Biennale di Venezia del 2003) e per l’interesse che Dak’Art ha suscitato dopo la presentazione dell’evento da parte di Moataz Nasr e Simon Njami alla galleria Townhouse: è quindi possibile prevedere che in futuro nuovi partecipanti egiziani si candideranno alla Biennale senegalese.
  163. Dak’Art, eventi paralleli, 2000.
  164. Dak’Art 1998.
  165. Dak’Art 2000. A Dak’Art 1998, Zwelethu Mthethwa espose opere pittoriche, che ritraevano con colori netti e acidi la storia di un incidente, vissuto in quattro stanze di una casa.
  166. Esposizione Individuale Dak’Art 1996.
  167. Cfr. paragrafi successivi.
  168. Cfr. paragrafi successivi.
  169. Cfr. paragrafi successivi.
  170. Cfr. paragrafi successivi.
  171. Conferenza di Bongi Dhlomo-Mautloa, Dakar, 15/05/2002.
  172. Africus – Johannesburg Biennale, Greater Johannesburg Transitional Metropolitan Council, Johannesburg, 1995 (28/02-30/04/1995).
  173. La Biennale di Johannesburg del 1995 ebbe delle commissioni di consulenza (tra i cui membri anche Kendell Geers, Willem Boshoff e Linda Givon) e dei curatori. I curatori furono Abrie Fourie (Danimarca), Clive Kellner (Francia e Israele), Nicole Kurz (Ungaria), Belina Leburu-Hlaka (Laboratorio sull’arte di frontiera), Nicholas Legobye (Stati Uniti), Dimakatso Mabaso (Gran Bretagna), Ruphus Matibe (Australia), Sgila Mazibuko (Bulgaria), Tumelo Mosaka (co-curatore Spagna), Simphiwe Myeza (co-curatore Fiandre e Comunità Francese del Belgio), Moeketsi Seth Pheto (Repubblica Ceca) e Sarah Tabane (Olanda). Nel catalogo furono inseriti testi anche di Rasjeed Araeen, Ery Camara, Jean-Hubert Martin e Thomas McEvilley.
  174. Trade Routes – History and Geography – Second Johannesburg Biennale, a cura di Okwui Enwezor, Johannesburg, 1997 (12/10-12/12/1997).
  175. La Biennale di Johannesburg del 1997 fu diretta da una commissione esecutiva formata anche da Danie Malan, Victor Modise, Christopher Till (direttore esecutivo) e Bongi Dhlomo-Mautloa e fu organizzata da un gruppo di curatori: Angela Gama, Clive Kellner, Bié Venter, Rory Bester, Cindy Gordon, Severa Cassarino, Susan Glanville, Zoleka Ntabeni, Nicole Kurz, Julie Hendricks, Margaret Khadi Maloma, Thembi Sibeko, Monica Amor, Godfried Donkor, Don Webster, Olu Oguibe, Robert Clarijs e Joep Münsterman. Anche Francesco Bonami, David Koloane e Jean Fisher scrissero testi per il catalogo.
  176. Ibidem.
  177. Dak’Art 2002, Premio Rivelazione con l’opera The Water. Sul catalogo è però riportata un’immagine dell’installazione An Ear of Mud, Another of Dough che era stata selezionata per la Biennale. I problemi di trasporto hanno però impedito la realizzazione di quest’opera e l’artista ha così per la prima volta esposto la video installazione The Water (vedi paragrafo: Territorio e identità).
  178. La prima Biennale del Cairo è del 1984, la seconda del 1986, la terza del 1988, la quarta del 1992, la quinta del 1994, la sesta del 1996, la settima del 1998/1999 e l’ottava del 2001. La nona Biennale del Cairo è prevista per dicembre 2003.
  179. Nel 2001 ho presentato Dak’Art e le differenze/similitudini tra la biennale senegalese e quella egiziana durante una serie di conferenze organizzate dall’Università Americana del Cairo (alle quali erano invitati galleristi e critici della città, ma anche la curatrice Gilane Tawadros) e alla fine dello stesso anno ho iscritto l’artista egiziano Moataz Nasr a Dak’Art, avendo cominciato con lui un lavoro di promozione durato per tutto il 2002.
  180. I testi di riferimento per lo studio dell’arte contemporanea africana sono i due saggi di Liliane Karnouk (Contemporary Egyptian Art, The American University in Cairo Press, Cairo, 1995 e Modern Egyptian Art: The Emergence of a National Style, The American University in Cairo Press, Cairo, 1998), di Fatma Ismail (29 Artists in the Museum of Egyptian Modern Art, AICA, Cairo, 1994 e The Kom Ghorab Project in Cairo in Art Criticism and Africa, a cura di Katy Deepwell, Saffron Books, African Art and Society Series, London, 1997, pp. 95-96) e di Aimè Azar (La peinture moderne en Egypt, Les Editions Nouvelles, Cairo, 1961). La raccolta di saggi Images of Enchantment: Visual and performing Arts of the Middle East a cura di Sherifa Zuhur (The American University in Cairo Press, Cairo, 1998) presenta alcuni testi sull’arte in Egitto (Sherifa Zuhur, Marjorie Franken e Walter Armbrust), così come Teresa Macrì in Postculture (Maltemi, Roma, 2002, pp. 62-79). Il catalogo dell’esposizione Cairo Modern Art in Holland a cura di William Wells e Janine Van der Ende (Chios Media Bv, Amsterdam, 2001) e diversi siti Internet (come http://www.cairoartindex.org/ e http//www.thetownhousegallery.com/) offrono molte immagini delle opere degli artisti egiziani più giovani. Io stessa ho svolto ricerche ed interviste al Cairo nel 2001, raccogliendo molto materiale e pubblicando gli articoli Biennale del Cairo (in “Flash Art”, n. 228, giugno-luglio 2001, p. 137), Arte Contemporanea/Il Cairo Brulica: Primavera Creativia (in “Nigrizia”, anno 119, n. 6, giugno 2002, pp. 45-48), Il Cairo, tra antico e contemporaneo (in “Tema Celeste”, n. 88/89, gennaio-febbraio 2002, pp. 116-117) e L’arte contemporanea egiziana (in “Africa e Mediterraneo”, n. 42, luglio 2003). In bibliografia non sono state inserite le pubblicazioni sulle singole nazioni dell’Africa, ad eccezione del Senegal.
  181. L’Unione Europea per esempio utilizza questa suddivisione del continente.
  182. André Magnin e Jacques Soulillou, Contemporary Art of Africa, Thames and Hudson, New York-London, 1996.
  183. Jean Kennedy, New Currents, Ancient Rivers – Contemporary African Artists in a Generation of Change, Smithsonian Institute Press, London-Washington DC, 1992.
  184. L’autrice è morta nel 1991.
  185. Jean Kennedy, New Currents, Ancient Rivers – Contemporary African Artists in a Generation of Change, Smithsonian Institute Press, London-Washington DC, 1992, p. 12.
  186. E’ il caso per esempio di Yinka Shonibare (colloquio con Salah Hassan, Dakar, 12/05/2002) e di Kendell Geers (intervista a Kendell Geers, Milano, 23/02/2001).
  187. Mounir fatmi ha partecipato alla Biennale di Dakar nel 2000. Intervista a Mounir Fatmi, Marsiglia, 14/08/2000.
  188. Yinka Shonibare non ha mai partecipato alla Biennale di Dakar, ma presento ugualmente la sua opera poiché è oggi molto conosciuta. L’artista ha anche esposto nel 2003 al PAC di Milano.
  189. Dak’Art 1998.
  190. Intervista a Fatma M’seddi Charfi, Dakar, 09/05/2002. Fatma M’seddi Charfi ha partecipato alle Biennali di Dakar del 1998, 2000 e 2002.
  191. Dak’Art 2000 e 2002.
  192. Dak’Art 2000.
  193. South meeets West, a cura di Bernhard Fibicher, Yacouba Konaté e Yuonre Vera, Berna, 2000 (Accra 10/11-05/12/1999 e Berna 06/04-25/06/2000).
  194. I termini extra-territorialità (extraterritoriality) e deterritorializzazione (deterritorialization) sono usati da Okwui Enwezor nella sua introduzione a Documenta X di Kassel (Preface e The Black Box in Documenta 11_Platform 5: Exhibition, Hatje Cantz Verlag, Ostfildern-Ruit, 2002, pp. 40 e 42) e hanno radici precedenti, filosofiche e sociopolitiche.
  195. Cfr. L’arte contemporanea africana nazionale.
  196. Biennale di Dakar 2002.
  197. Biennale di Dakar 2002.
  198. Dak’Art 2002 e con altre opere Dak’Art 1996 e 1998. A Dak’Art 1998, Dominque Zinkpe ha esposto Question d’identité, un’installazione composta da sculture che ritraggono personaggi confusi e disordinati, di tutte le forme e di tutti i colori.
  199. Biennale di Dakar 2000.
  200. Dak’Art 2002, Premio Rivelazione.Vedi anche paragrafo: Nazioni e regioni.
  201. Dak’Art 2000 e 2002.
  202. Dak’Art 1998.
  203. Salah Hassan, “Insertions”: Self and Other in Contemporary African Art in Authentic/Ex-Centric (esposizione parallela alla Biennale di Venezia, 09/06-30/09/2001), (a cura di) Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001, 26-49.
  204. Dak’Art 2000.
  205. All’intero dell’esposizione Authentic/Ex-Centric (esposizione parallela alla Biennale di Venezia), a cura di Salah Hassan e Olu Oguibe, Forum For African Arts, Ithaca (NY), 2001 (Venezia 09/06-30/09/2001).
  206. Dak’Art 2000.
  207. Un’esposizione che ha valorizzato la ricchezza e la diversità dell’arte in Africa è Africa: The Art of a Continent, a cura di Tom Phillips, Royal Academy, London, 1995 (all’interno del festival britannico Africa95 e poi in altre sedi).
  208. Espressioni come educazione formale, non-formale ed informale sono oggigiorno molto utilizzate, in particolare dai programmi giovanili europei. In sintesi, l’educazione formale è l’educazione scolastica tradizionale, in cui il professore insegna e gli alunni imparano e superano degli esami; l’educazione non-formale è legata ad un coinvolgimento attivo degli scolari, che sperimentano con l’assistenza del formatore (in particolare attraverso lavoratori di lavoro, discussioni e visite), senza dover superare delle prove; all’interno dell’educazione informale rientra tutto l’apprendimento svincolato dalla struttura scolastica: le conversazioni e le varie esperienze individuali.
  209. Cfr. capitolo Il contesto senegalese della Biennale di Dakar.
  210. Se l’Occidente è la meta più frequente per gli artisti africani, in realtà diversi hanno avuto contatti anche con altri paesi, come l’Unione Sovietica, Cuba ed il Sudamerica.
  211. Cfr. capitolo Il contesto senegalese della Biennale di Dakar.
  212. La bibliografia per quanto riguarda la scultura africana è vastissima. Si possono comunque citare alcuni testi come William Fagg, Merveilles de l’art nigérien, Editions du Chene, Paris, 1963; Michel Leiris e Jacqueline Delange, Afrique Noire: la création plastique, Editions Gallimard, Paris, 1967; William Fagg, Sculptures africaines, Fernand Hazan Editeur, Paris, 1975; Gabriele Mandel, Capire l’arte africana, Lucchetti Editore, Bergamo, 1987; Frank Willett, African Art, Thames and Hudson, London, 1971 e 1993.
  213. Conferenza stampa del Comitato Internazionale di Selezione e di Giuria di Dak’Art 2000, Dakar, 07/05/2000.
  214. Esposizione Individuale a Dak’Art 1998.
  215. Biennale di Dakar del 1992 ed Esposizione Individuale a Dak’Art 1996.
  216. Esposizione Individuale Dak’Art 1996; Tayou presentò le opere The Tripple Madness, Faecal Emotions e Universal Socks.
  217. Biennale di Dakar del 1992 e del 2002; nel 2002 l’opera di Sokari Douglas Camp non è arrivata in tempo per l’apertura dell’Esposizione Internazionale.
  218. Dak’Art 1998.
  219. Dak’Art 1996 e 2002. I soldati di Fini la récrè erano esposti nel 2002.
  220. Dak’Art 2002: la scultura misura 190x140x100 cm. Saliou Traoré ha esposto anche nel Salone del Design del 2000 una poltroncina creata all’interno di una pentola (Fauteuil Marmitte).
  221. Dak’Art 2002.
  222. Dak’Art 2002. A Dak’Art 1998 ha esposto la Chaise trop longue, semplice e lineare come tutte le sue opere.
  223. Dak’Art 2000.
  224. Dak’Art 2000 e 2002.
  225. Dak’Art 1998.
  226. Le sedie di Salon Bidon sono state esposte a Dak’Art 1996. Lo stile di Kossi Assou è cambiato nelle diverse edizioni del Salone del Design: il designer ha infatti partecipato anche a Dak’Art 1998, 2000 e 2002.
  227. Dak’Art 1998.
  228. Dak’Art 2000.
  229. Dak’art 1998.
  230. Dak’Art 1998 e 2000.
  231. Dak’Art 2000.
  232. Dak’Art 2000.
  233. L’opera è stata esposta a Dak’Art 2002, dove a vinto il Premio del Presidente Senghor.
  234. Le calzature infradito sono d’importazione cinese. Della manodopera cinese ha anche costruito lo stadio di Dakar; il Villaggio degli Artisti è oggi il piccolo gruppo di case che erano state usate de questi stessi muratori, ritrasformate oggi in residenze per gli artisti.
  235. Dak’Art 2000.
  236. Conferenza di Cristiana Fiamingo, Milano, 30/04/2003 (L’espressione artistica in Africa come oggetto politico non identificato).
  237. Cfr. capitolo Il contesto senegalese della Biennale di Dakar.
  238. Conferenza di Nadia Vermigli, Milano, 14/05/2003 (L’azione politica attraverso il teatro in Africa francofona).
  239. Biennale di Dakar del 1992 ed Esposizione Individuale a Dak’Art 1996.
  240. Biennale di Dakar del 1992.
  241. Biennale di Dakar del 1992.
  242. Dak’Art 1996.
  243. Biennale di Dakar del 1992 e 1996.
  244. Biennale di Dakar 1992.
  245. Dak’Art 1996 e con altre opere a Dak’Art 1998 e 2002.
  246. Dak’Art 1996.
  247. Dak’Art 1996.
  248. Dak’Art 1996.
  249. Il progetto è stato presentato a Dak’Art 2000. Il nome di Sandrine Dole non è stato inserito nel catalogo, nonostante il designer abbia contribuito notevolmente alla realizzazione della Chaise publique. Sandrine Dole ha poi proseguito le ricerche nel campo degli utensili da cucina (in particolare sulle pentole in alluminio), organizzando un progetto di cooperazione in Camerun per la creazione di una struttura funzionale per i ristoranti di strada (tipiche attività locali di commercio informale).
  250. Dak’Art 2000, menzione della giuria. Il valore delle opere presentate da Ola dele Kuku (una scrivania, una cassettiera cilindrica ed una a scala) era infatti superiore al valore del premio che avrebbe potuto ricevere, che lo avrebbe obbligato a lasciare il suo lavoro a Dakar.
  251. Dak’Art 2000 durante la quale vinse il premio per il design con Etre 2, una grande colonna portacandele squadrata, nera e forata, leggermente inclinata; nel 2002 ha invece esposto Continium, una sedia-letto srotolabile.
  252. Dak’Art 2002.
  253. Dak’Art 1998.
  254. Dak’Art 2000 con uno sgabello in ferro battuto e a Dak’Art 2002 con degli sgabelli in legno componibili. Nel 1998 il designer ha invece esposto un lettino in legno decorato con motivi geometrici.
  255. Dak’Art 1996 e 2000.
  256. Dak’Art 1996.
  257. Dak’Art 1996.
  258. Dak’Art 2000.
  259. Dak’Art 2002, premio del design con una sedia, un tavolino ed una fruttiera, realizzati con il legno wengé e del metallo, dalle forme estremamente asciutte.
  260. Dak’Art 1996 (con un intera sala da pranzo) e 1998.
  261. Dak’Art 2000.
  262. Dak’Art 2000.
  263. Dak’Art 2000.
  264. Dak’Art 2000.
  265. Dak’Art 2002.
  266. Dak’Art 2002.
  267. Dak’Art 1996 e 2002.
  268. Dak’Art 1998.
  269. Dak’Art 2002. Nel 1998 Yamo ha invece esposto la sedia di lego Chaise Sfax.
  270. Dak’Art 1998.
  271. Dak’Art 2000.
  272. Dak’Art 1996.
  273. Dak’Art 2002.
  274. A Dak’Art 1996 fu organizzata una mostra retrospettiva della Manifattura senegalese di arti decorative (MSAD) di Thiés, celebre per la creazione di arte tessile. All’interno del salone esposero invece il gruppo African Batik Ibrahima Diane e Julien Vincent Gomis), Maison centrale d’arrête de Dakar (creata nel 1993 con l’aiuto di ENDA Tiers-Monde e diretta da Outy K.Badji), Camara Soukeyna (Senegal, 1963), Outi Kasurinen-Badji (1943, Finlandia/Senegal), Anne Marie Diam (Senegal, 1946), Rokhaya Kamara (1966, Senegal), Claire Kane (1954, Francia/Senegal), Magatte Keita (1947, Senegal), Monique Athénaisme Surena (1931, Francia/Guinea), Koffi Gahou (1947, Benin/Senegal) e Baye Mouké Traoré (1953, Senegal).
  275. Altri stilisti senegalesi esposero anche Aftibas (lo gruppo African Batik creato nel 1991 che si è arricchito e ha cambiato nome), Amadou Diouma Diouf (nato nel 1962), Oumou Sy e Serigne Ndiaye hanno esposto i loro tessuti insieme a Mariam Traore (Mali, 1950)
  276. Dak’Art 2000.
  277. Dak’Art 2002.
  278. Vedi paragrafo: Il mondo dell’arte contemporanea africana.
  279. Biennale di Dakar 1992.
  280. Dak’Art 1996.
  281. Dak’Art 1996.
  282. Dak’Art 1998.
  283. Dak’Art 1998.
  284. Dak’Art 1998.
  285. Cfr. paragrafo La critica d’arte africana. La categoria geografica.
  286. Olu Oguibe, In the Heart of Darkness in “Third Text”, n. 23, estate 1993, pp. 3-8.
  287. Everlyn Nicodemus, Meeting Carl Einstein in “Third Text”, n. 23, estate 1993, p. 32.
  288. Gavin Jantjes, The Artist as a Cultural Salmon: A View from the Frying Pan in “Third Text”, n. 23, estate 1993, p. 103-106.
  289. South meeets West, a cura di Bernhard Fibicher, Yacouba Konaté e Yuonre Vera, Berna, 2000 (Accra 10/11-05/12/1999 e Berna 06/04-25/06/2000).
  290. Veilleurs de Monde – Gbedji Kpontolè – Une aventure béninoise (esposizione e progetto di residenza per artisti), Editions CQFD, Paris, 1998, pp. 160 (Centro Culturale Francese del Benin 12/08-09/09/1997).
  291. Intervista a Fernando Alvim, Dakar, 09/05/2002.
  292. Ovviamente suddividere l’Africa in due gruppi linguistici è estremamente approssimativo. Anche dal punto di vista del mondo dell’arte, esistono moltissime altre lingue conosciute (tra le quali il portoghese, lo spagnolo, l’italiano, il russo…), ma francese e inglese sono le due lingue utilizzata della Biennale di Dakar (per quanto i dibattiti e le conferenze siano ancora tradotti in modo sufficientemente efficace).
  293. Per quanto riguarda la Biennale di Dakar, i Centri Culturali Francesi hanno svolto un ruolo essenziale nel pubblicizzare l’evento nei vari paesi francofoni d’Africa, permettendo quindi agli artisti di presentare per tempo il loro dossier di candidatura. L’Organizzazione Intergovernamentale della Francofonia è poi un importante finanziatore di progetti di scambi internazionali tra paesi francofoni ed è uno dei finanziatori di Dak’Art.
  294. l’ITU – World Telecommunication Development report 2002.
  295. Cfr. paragrafi precedenti.
  296. Dak’Art 2002.
  297. Dak’Art 2000.
  298. Dak’Art 2000.
  299. Esposizione Individuale a Dak’Art 1996.
  300. Dak’Art 1996 e 1998.
  301. Dak’Art 1996.
  302. Dak’Art 1998 e 2002 con la fotografie La lecture, l’immagine di un uomo tra le macerie che legge comodamente un giornale con il grande titolo La Guerre.
  303. Dak’Art 2000 e 2002.