La Beatrice di Dante/VI
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Nella Vita Nuova, adunque, abbiamo una Beatrice oscillante fra la donna e l’angelo.
Nel Convito una Beatrice intisichita dal simbolo e dall’allegoria; una creatura, senza sangue e senza carne, come la cicala di Anacreonte.
Nella Divina Commedia, in cui tutto si completa e si fonde, noi ci troviamo di fronte a una Beatrice intera; donna ed angelo allo stesso tempo; sentimento e ragione; simbolo e realtà.
Abbozzata dal sentimento nella Vita Nuova, lambiccata dal sillogismo nel Convito, essa è rappresentata completamente dal genio nella Commedia, in cui la fede, la scienza e l’arte si abbracciano bellamente come le Grazie di Canova.
Certo, non sono in essa tutti i caratteri d’una creatura mortale, trasportata viva e palpitante nel regno immortale dell’arte; e però non ci parla diretta e potentemente al cuore, come Francesca, Desdemona, Margherita.
Ma io dico, che data quella tal Beatrice, angeletta giovanissima, sparita così presto dal mondo, date tutte quelle circostanze di tempo e di luogo, in cui nacque e si svolse l’ingegno, l’amore, il carattere e la poesia di Dante, essa è tale e quale doveva essere: non è un’idea e un simbolo incarnato dall’arte in una creatura vivente, ma una creatura vivente che la fede, la scienza e l’arte sollevano sulle loro ali, e confondono nella luce del soprannaturale e dell’infinito.
Se voi me la strappate da quest’ambiente, essa perde la consistenza e la vita; vi si distrugge nelle mani come le ali delicate d’una farfalla.
Guardatela da lontano, lasciatela in quel mondo ov’essa è nata e cresciuta, e voi la vedrete disegnarsi puramente in una luce diffusa, come l’immagine della Madonna veduta in sogno e ritratta dal Beato di Fiesole.
Questa Beatrice però, così com’è, non è balzata miracolosamente dal cervello di Dante; essa è il resultato d’una lenta e lunghissima elaborazione, non pur nell’anima del nostro Poeta, ma nella tradizione e nella coscienza poetica popolare.
Le produzioni dell’arte seguono le leggi e i processi delle creazioni della natura: fenomeni isolati, derivanti da miracolose interruzioni di leggi, non si dànno: tutto è il prodotto di un ordinato e più o meno visibile lavorio, e soltanto in età di superstiziosa ignoranza si potè chiamare portentosa l’esistenza di un fatto, di cui non si conoscevano le concatenazioni e gli addentellati.
Perchè l’arte potesse giungere alla rappresentazione di Beatrice, bisognava che l’etèra d’Atene e la matrona di Roma si trasformassero gradatamente nella donna dell’Evangelo; che Semele e Psiche, vittime del soprannaturale, si tramutassero nella Vergine Madre, sposa dello Spirito, e genitrice di incarnata divinità.
La religione del Cristo fornì all’arte due tipi di donna: la madre vergine e l’adultera rigenerata: un enigma e uno scandalo.
La prima spinse i voli dell’arte nel soprannaturale, cioè nel mistero, e fu madre legittima di tutte quelle madonne cantate dai poeti medioevali, e segnatamente da’ nostri che così pargoleggiarono sin quasi adesso.
La seconda, mettendo l’arte sullo sdrucciolo della sensualità perdonabile e perdonata, la fece, per sentiero fiorito, scivolare fin dentro al postribolo.
Manon Lescaut, Marion Delorme, La Dame aux Camélias son figlie naturali della frase famosa: Chi non ha peccato scagli la prima pietra.
Fra le madonne evanescenti del ciclo platonico italiano, la più ferma e decisa e contornata figura è certamente questa della Beatrice, non già donna completa, ma completa creatura dell’arte.
Mandetta, Selvaggia, Laura, che pur sono fra le più belle, rimangono inferiori alla creazione di Dante; han meno di simbolo e meno di realtà, non sono nè donne, nè idee: son cari nomi ripetuti in tutti i toni e con ogni dolcezza dai loro amanti.
La creatura completa, umana, vivente, la vera divinazione della donna nell’arte medioevale è Francesca; non angelo e non prostituta; ma umanamente e quasi fatalmente colpevole, non del tutto dannata da un’arte ascetica e bacchettona, e non del tutto rigenerata da un’arte meschinamente libera e spudoratamente volgare; donna intera, nel senso umano ed artistico della parola, alla cui colpevole debolezza è pietosa aureola il martirio infinito e l’amore.
Dopo di lei, dureremmo fatica a trovare in tutta la poesia italiana una perfetta figura di donna.
Sofronia è una statua; Erminia un idillio; Armida un simbolo animato dalle reminiscenze di Medea e d’Arianna; le donne dell’Ariosto, o son fuori del vero, o son fuori del bello: o guerriere rigide e indifferenti che poi s’evaporano in un’arcadica luna di miele, o figure leggendarie di maghe, o nudità procaci di avventuriere.
Olimpia, ch’è la migliore di tutte, è restaurazione di due quadri antichi: uno dipinto da Catullo su due vecchi disegni di Euripide e d’Apollonio; l’altro acquarellato sui medesimi disegni da Ovidio.
Per i poeti del secolo decimosesto, la donna era o un foglio di carta bianca, sul quale essi scrivevano, con bella mano di scrittura, i loro sonetti platonici cortigianeschi; o vero un foglio di carta sudicia, sul quale essi, cavalieri com’erano, non s’attentavano di scriver nulla, lasciando al Marino la gloria di rovesciarci su la splendida cornucopia delle sue porcherie.
Tra le donne della poesia moderna son notevoli soltanto quelle del Leopardi, ma Eloisa, Aspasia, Nerina non vivono veramente di vita propria; sono riflessi dell’anima del poeta.
Delle altre è meglio non far parola: che non merita conto trattenersi in figurine da decalcomania ritagliate con le male imperniate forbici del sentimentalismo romantico e malamente appiccicate in fondo a un vassoio di coccio, da cui non s’alza, tutto al più, che l’avaro profumo d’un intingoletto imbandito a uno stuolo smorfioso di convalescenti.
Le pochissime fra queste, che accusano, sbadigliando, alcun segno di vita, come quelle che son nate con la scrofola, anderebbero addirittura mandate agli Ospizj marini.
Bisogna che i nostri poeti si persuadano una santa volta a escire dalle loro arcadie e dalle loro stufe; che scendano dalle nuvole, in cui si sono finora campati; che vivano in terra con gli uomini, e respirino a pieni polmoni l’ossigeno salutare della realtà.
La donna allora non sarà già soltanto foemina come per i romani; non domina come per i cavalieri; non idea o simbolo come per i platonici.
Non istarà più in cielo o sull’altare; ma in terra, nella società, e anzitutto nella famiglia, ch’è il campo vero e forse il solo di sue virtù.
Fine