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IV VI


Nel Convito il pensiero fa divorzio dalla natura; lo scrittore si divide dall’uomo: le sue passioni stagnano per così dire, nelle infette maremme della scolastica; l’amore di Beatrice si mummifica fra le fasce incerate dei sillogismi.

Nella Divina Commedia l’uomo, il filosofo, il cittadino, il poeta si unificano mirabilmente, e da questa onnipotente unità si diffonde intorno un lume , un’armonia, una vita non mai fino allora provata.
Tutto si colora, si muove, si avviva d’intorno a questo iracondo taumaturgo, che rianima i morti ed annienta i vivi con la possente magia della sua parola; e tutto questo popolo di resuscitati e di estinti, tutto questo universo che gli si agita nell’anima, egli lo trapianta in un mondo favoloso e fantastico; sì che tu hai dinanzi agli occhi intrecciato e compenetrato in originalissima guisa tutto ciò che vive nella tradizione e nella coscienza; ciò che vola nella fantasia e ciò che si petrifica nella storia: il mondo reale insomma e il fantastico armonizzati ed unificati in una sola vita, nella vita multiforme di un’arte nuova.

E Beatrice? Ella vivea in cielo con gli angeli e in terra con l’anima del suo poeta.
La sua azione, ora manifesta, ora latente, muove ed anima dall’un capo all’altro tutto l’elaborato congegno del triplice poema; è come lo spirito, la ragione e lo scopo d’esso.

Dante è smarrito nella selva selvaggia; si è lasciato adescare da quelle false immagini di bene

Che nulla promission rendono intera (Purg., XXX, 132) .

Travolto dall’ambizione, dalla superbia, dall’ira, egli gavazza, dimentico di sè stesso e di tutto; smarrisce l’immagine di quella

donna di virtu sola per cui
L’umana spezie eccede ogni contento [...](Inf., II, 76);

si abbandona alla ridda vertiginosa delle cose mondane; nè a levarlo suso da quel baratro di perdizione basta la punta dello primo strale delle cose fallaci.
Perchè egli ritorni in sè stesso, si rivolga alla via di salvazione, bisogna che lunghi e gelidi disinganni vengano a spandere le ali di ghiaccio sull’animo suo acceso da tutte le febbri delle passioni.

Beatrice gli balena allora nel pensiero; egli ha vergogna di sè: vuol fare ammenda di ogni sua colpa, a qualunque patto.
Sente la voce di lei che lo chiama al cielo, ma il canto delle Sirene lo incatena alla terra; nè egli ha la fermezza di Ulisse. Fa proposito di liberarsi dalla selva tanto amara che poco è più morte, ma il coraggio gli vacilla dinanzi alle tre belve che gli impediscono l’andare;

L’anima sua è da viltade offesa ( Inf., II,45 )

Beatrice non lo ha amato per nulla. Vede, che l’amico suo e non della ventura

Nella diserta piaggia e impedito
Sì nel cammin, che volto è per paura (Ivi. 62-63),

Che fa ella in tal caso? Si rivolge a Virgilio, perchè lo soccorra. Chi è Virgilio? Forse la scienza umana? No: è quella fonte

Che spande di PARLAR sì largo fiume (Inf. I, 38) ;

è colui ch’è onore e lume degli altri poeti; l’autore prediletto dall’Alighieri; colui da cui egli tolse lo BELLO STILE che gli ha fatto onore; colui che con la sua PAROLA ORNATA può fare ciò ch’è mestieri al suo campare: è la Poesia, è l’Arte.
Il miracolo, che non avrebbe potuto fare in quel punto la fede, o la scienza, lo fa l’arte.

L’anima del poeta, sedotta dalle false immagini di bene, non avea bisogno in quelle condizioni di una potenza che parlasse al suo intelletto, ma sì d’una forza che movesse il suo cuore; di una maga più piacevole e seducente delle altre, della voce redentrice dell’arte, maga salutare come ben la definisce il Gravina.

Beatrice, ch’è amore, cioè fede, scienza ed arte, è troppo accorta per lusingarsi, che la fede, sentimento cieco o la scienza, ragionamento freddo, potessero richiamare al diritto sentiero l’amico suo: gli manda l’arte, ch’è sentimento e ragione ad un tempo, e raggio più bello d’amore; e l’arte onnipotente lo salverà.
Ben e vero, che Beatrice dichiara a Virgilio:

Io son fatta da Dio, sua mercè, tale, Che la vostra miseria non mi tange (Inf.II, 91-92) ;

ma se ella è superiore alle miserie della terra, è pur sensibile alla pietà, è fedele alle memorie dell’amore. Vede la morte, che combatte il suo povero amico

Su la fiumana ove ’l mar non ha vanto (Ivi, 108) ,

e rapida, come

Al mondo non fur mai persone ratte A far lor pro ed a fuggir lor danno (Ivi, 109-110),

scende a trovar Virgilio, fidandosi delparlare onesto di lui, e lo prega di correre in soccorso del suo prediletto. Vedete, come dentro all’angelica essenza palpita ancora la donna.

Ne questo è tutto. Le parole caldissime ch’ella adopera per muovere il Mantovano, non le paiono sufficienti. Virgilio è mosso da un argomento assai più eloquente delle parole: dalle lagrime di Beatrice,

Poscia che m’ebbe ragionato questo, Gli occhi lucenti lagrimando volse Perch’io mi feci del venir più presto (Ivi, 115-117).

Una sostanza beata che piange: è la più ardita ed artistica contradizione.
Dopo questo efficace preludio, Beatrice si assenta per quasi due terzi del poema.

La sua immagine però è sempre viva nell’anima del Poeta, che per lei soltanto intraprende il paventoso viaggio; è sempre viva, chi ben vede, in fondo a tutto il poema; è come il fondo luminoso che da risalto alle tenebrose creazioni della prima cantica; come uno zeffiro mattutino che fa dolcemente tremolare le aure della seconda; come un raggio d’aurora, che va mano a mano crescendo e che arriva a un diffuso meriggio, a cui il Poeta, e dietro a lui il lettore, si dirige incessantemente con esemplare costanza d’innamorato.

Giunge però un’ora, ch’egli è stanco, scorato, avvilito.
L’idea, annunziata dell’angelo del Passato, cioe, che per salire ancora piu bisogna traversare le fiamme, lo rende tale

Quale e colui che nella fossa e messo (Purg., XXVII, 15) .

Virgilio usa indarno ogni argomento per persuaderlo d’andare avanti: egli rimane fermo e contro coscienza. Allora il buon Maestro, vedendolo così ostinato a non procedere

Turbato un poco disse: Or vedi, figlio, Tra Beatrice e te è questo muro (Ivi, 35-36).

Non ci vuol altro perchè il poeta si spoltre, ripigli lena e coraggio.

Come al nome di Tisbe aperse il ciglio
Piramo in su la morte, e riguardolla
Allor che il gelso diventò vermiglio,
Così la mia durezza fatta solla,
Mi volsi al savio Duca udendo il nome
Che nella mente sempre mi rampolla (Ivi, 37-42).

Procede fino al Paradiso terrestre, finchè una dolce e non mai sentita melodia gli annunzia l’avvicinarsi della donna amata.
La quale è circondata di strani simboli e di misteriose allegorie.
 
Si direbbe, che appena s’allontana Virgilio, ch’è l’arte, la mente dell’Alighieri si perda abbacinata nella diffusa luce del mito cristiano, entro alla quale non è più dato ad acume mortale discernere e raffigurare le cose.

I sette candelabri, i ventiquattro seniori, le quattro bestie, il carro, il Grifone, le sette donne e tutta l’altra folla allegorica, se pure han qualche valore come idee, non ne hanno certamente alcuno come immagini; vi parlano, tutto al più, all’intelligenza, non al cuore; vi fanno pensare, non sentire.

Le forme di cui sono rivestiti o non vi dicono nulla, o vi sconcertano il sentimento. Non è al certo estetico il raffigurare gli Evangelisti in forma di animali, e molto più sconveniente e il presentarci Cristo in forma di Grifone, bestia fantastica e brutta, che tira il carro in cui e simboleggiata la Chiesa.

Ma tutte queste immagini, ognun sa, il Poeta non le attinge dalla propria fantasia, ma dalla fonte impurissima dell’Apocalisse, arzigogolo e indovinello Alessandrino di mente brilla, a cui non giunge a dar forma ispirata la strana fantasmagoria che lo riveste.
Nè potea fare altrimenti; già che, a voler rappresentare ciò che vive nella tradizione della Chiesa cattolica, in una forma diversa dalla convenzionale, avrebbe corso rischio di non esser inteso.

La religione cristiana, a parte il valore più o meno reale del contenuto, ha questo di particolare, che è antiestetica in quasi tutte le sue rappresentazioni.
 
E non può essere diversamente; giacchè, avendo essa annientata la terra, la carne, la materia e tutto ciò che vive ad esclusivo beneficio di ciò ch’essa chiama lo spirito; le immagini e le forme corporee si dileguano tutte al suo gelido soffio, ovvero si raggricciano e si contorcono mostruosamente per servire di mezzane fra l’idea astratta che non significa nulla, e l’intelletto degli uomini obbligato imperiosamente a comprenderla.

La pittura religiosa difatti, tanto più fu tenuta in pregio quanto meglio spiritualmente si espresse: la figura non ebbe valore per sè stessa, ma per il suo significato; e bellissime furono giudicate le pitture di Frate Angelico, che con poche e semplicissime linee e tutte lontane da realtà, seppe rappresentare all’anima dei fedeli la pura convenzionale idealità dei miti cristiani.

Era d’altronde naturale che lo spostamento operate dalla nuova religione nella vita si riflettesse anche nell’arte.

Al Giove di Fidia, giovane, bello, ignudo, sereno, succede Jèova, ispido, vecchio, iracondo, vendicativo; ravvolto in un manto turchino, con una specie di cocomero sotto il braccio che raffigura il mondo, con un cappello da carabiniere sul capo che rappre-senta l’enigma della Trinità; all’alito fecondo d’amore che anima ed abbellisce ogni cosa, vien sostituito il mistico piccione che scende apposta dal cielo per fare il nido in casa di un fale-gname di Nazareth; all’epos divino di Omero e agli aurei versi di Virgilio gli acrostici e i serpentini di Pentadio e d’Ottaziano; alla pura sensualità di Saffo l’ascetico onanismo dei SS. Padri.

Tornando al nostro Poeta, io voglio dire, che la lunga pro-cessione di bestie, di seniori e di candelabri che preparano il trionfo di Beatrice, come artistica incarnazione non ha valore.
La stessa Matilde, figura storica, trasformata e mistificata dal poeta e ridotta a numero simbolico, non ha estetico pregio per sè stessa, ma per le amene circostanze e per la viva descrizione della foresta del Purgatorio, in cui sono profusi i più bei colori e la luce più sfoggiata della fantasia.

La sola ed unica figura viva in mezzo a tanta sequela di larve allegoriche è Beatrice; e il punto culminante e più bello di tutta la sua vita e nei canti XXX e XXXI del Purgatorio; in cui essa come artistica rappresentazione, raggiunge il massimo della sensibilità e dell’effetto.

Alla prima, ci si presenta come un essere soprannaturale, cinta ed annunziata da circostanze straordinarie, miracolose.
Il poeta ci descrive l’apparire di lei in versi ricordevoli e solenni, pieni di armonia, di profumi, di luce:

Io vidi già nel cominciar del giorno
La parte oriental tutta rosata
E l’altro ciel di bel sereno adorno,
E la faccia del Sol nascere ombrata
Si che, per temperanza di vapori,
L’occhio la sostenea lunga fiata.
Così dentro una nuvola di fiori
Che dalle mani angeliche saliva,
E ricadeva giù dentro e di fuori,
Sovra candido vel cinta d’oliva
Donna m’apparve sotto verde manto
Vestita di color di fiamma viva (Purg., XXX, 22-33).

La visione celeste vien subito ravvivata dalla presenza della vita terrena, dalla passione indomabile del poeta:

E lo spirito mio, che già cotanto
Tempo era stato che alla sua presenza
Non era di stupor tremando affranto,
Senza dagli occhi aver più conoscenza
Per occulta virtù, che da lei mosse,
D’antico amor sentì la gran potenza
Tosto che nella vista mi percosse
L’alta virtù, che già m’avea trafitto
Prima ch’io fuor di puerizia fosse (Ivi, 34-42) .

Le debolezze della vita mortale si risentono in Dante; le reminiscenze dell’amore terreno gli si svegliano in un momento nel cuore.
Egli che ha tanto combattuto nel mondo, che ha avuto il coraggio di traversare i tenebrosi baratri dell’inferno, ridiventa il debole fanciullo della Vita Nuova; esce di sentimento come allora che la veduta di Beatrice disconfiggea la sua poca vita, facendogli partire l’anima dai polsi(Vita Nuova, passim). Si volge tremando per cercar Virgilio, come fantolino che corra alia mamma.

Quando ha paura, o quando egli è afflitto (Purg., XXX, 45).

Ma Virgilio s’è dileguato, ed egli piange.
Il pianto di una creatura umana la dinanzi a Beatrice, nel regno dell’eterna beatitudine, è una stonatura mirabile.
Beatrice punge amaramente il suo povero amico:

Dante, perchè Virgilio se ne vada,
Non pianger anco, non pianger ancora,
Che pianger ti convien per altra spada (Ivi, 55-57).

Il nome del poeta,

Che per necessità qui si registra (Ivi, 63), è d’un effetto solenne.
E’ sempre dolce il sentire il nostro nome sulla bocca della donna amata; qui la dolcezza vien subito amareggiata dal rimprovero; ma il rimprovero, che in sè stesso è duro e duramente espresso, vien temperato dal piacere ch’ebbe a provare il poeta nel sentirsi chiamare a nome dalla sua donna transumanata.
Allora egli ha coraggio di sollevar gli occhi e di guardarla.
 
Ma Beatrice rincara la dose:

Guardami ben, ben son, ben son Beatrice;
Come degnasti d’accedere al monte?
Non sapei tu che qui l’uomo e Felice? (Ivi, 73-75)

Dante, che

Sente il sapor della pietade acerba
rimane

Si come neve tra le vive travi
Per lo dosso d’ltalia si congela
Soffiata e stretta dalli venti Schiavi,
Poi liquefatta in sè stessa trapela
Pur che la terra che perde ombra spiri,
Sì che par fuoco fonder la candela (Ivi, 85-90).

Il canto degli angeli lo spetra, lo muove alle lagrime, non tanto per la sua dolcezza melodiosa, quanto perchè l’anima nostra, allorchè è piena riboccante di dolore, prorompe facilmente in singhiozzi ed abbandonasi al pianto, al suono di una parola qualunque, o alla vista di una persona, che pare voglia ricercare pietosamente la cagione del nostro dolore.

Beatrice, non punto commossa da queste lagrime, riprende inesorabile la sua invettiva; non parla direttamente al poeta, ma si rivolge agli angioli, come per fargli più sentire il peso dei suoi rimproveri;

Questi fu tal nella sua vita nova
Virtualmente, ch’ogni abito destro
Fatto averebbe in lui mirabil prova;
Ma tanto più maligno e più silvestro
Si fa il terren col mal seme e non còlto,
Quant’egli ha più di buon vigor terrestro.
Alcun tempo il sostenni col mio volto;
Mostrando gli occhi giovinetti a lui
Meco il menava in diritta parte vòlto(Ivi, 115-123).

Ecco gli occhi giovinetti ricordati con femminile compiacenza, gli occhi di cui tanto si compiacque il poeta, che li celebrò nei versi migliori della sua giovinezza.
A questo richiamo alla vita mortale, a questa debole compiacenza corrisponde un sentimento di sdegno, quasi un impeto di gelosia:

Sì tosto come in su la soglia fui
Di mia seconda etade, e mutai vita,
Questi si tolse a me, e diessi altrui(Ivi, 123-126).

Questo altrui, buttato lì con certa sprezzosa noncuranza, ha pure un doppio significato: non vuol dire soltanto ad altre passioni, ad altre cure, ma si ancora ad altre donne: a Gemma Donati, a Gentucca, alle altre anonime.
Nè questo è tutto. Nel libro seguente la donna parla ancora più chiaramente:

Pon giù il seme del piangere ed ascolta:
Si udirai, come in contraria parte
Muover doveati mia carne sepolta.
Mai non t’appresentò natura ed arte
Piacer quanto le belle membra, in ch’io
Rinchiusa fui, e ch’or son terra sparte (Inf., XXXI, 46-51).

Carne sepolta, belle membra, o di chi?
Forse della sacra Teologia?

Che questa sia carne sepolta da un pezzo ognun sa, e lo sanno anche i corvi che si cibano di carogne; ma che ella avesse mai fatto sfoggio di belle membra nessuno oserebbe asserire; giacchè la sacra Teologia, se mai si fosse incarnata, non avrebbe potuto prendere altra figura, se non quella della vecchietta d’Orazio:

Hietque turpis inter aridas nates
Podex, velut crudae bovis;
... et mammae putres
Equina quales ubera;
Venterque mollis, et femur tumentibus
Exile suris additum (Epod., 14, 5) .

A parte lo scherzo, chi si ostinasse a non vedere altro in questa Beatrice che un’idea astratta e una figura ideale, meriterebbe la pena d’Abelardo.

Duo ubera tua sicut duo hinnuli caprae gemelli, è scritto nel Cantico, e un dotto ebreo ci fa sapere qualmente le due mammelle della sposa sono le due tavole della legge che Dio diede a Mosè; ed altri non meno spettabili commentatori sostengono che il dotto ebreo s’inganna, e che le due mammelle non altro sono che li due atti della carità piantata nel cuore di lei, ciò sono l’amore di Dio e l’amore del prossimo!

Mai non t’appresentò natura ed arte Piacer quanto le belle membra, [...} Inf., XXXI, 49-50.

e le gregarine laureate e nate a posta per interpretare ed esporre il divino poema, escono subito a sciami, vengon su da’bassi fondi e dai pozzi neri della sapienza, per ronzarci all’orecchio in aria di rivelazione.

Questa donna di belle membra, se ve l’abbiamo a dire, non è, e non è mai stata una donna; è invece la Scienza, la Virtù, la Potestà imperiale! Sì, eh? Furbi davvero!

Che questa Beatrice abbia un significato simbolico, e chi lo nega, e chi non lo vede?

Ma io dico che il simbolo è talmente intrecciato in questi due canti alla vita di questa creatura, che pur sentendo nella sua parola come un’armonia di cielo, tu vi senti tremolare la fibra della donna mortale; l’allegoria spira da tutto l’insieme e dagli accessorii, ma in questo momento essa non vive per sè stessa, ma per la figura in cui l’ha saputa artisticamente incarnare il poeta.

Togliete a Beatrice, quale ci si rivela in questo punto, tutto ciò che ha di simbolico: il candido velo, la corona d’ulivo, il verde manto, la veste color di fiamma viva; ella resterà pur sempre una donna: toglietele invece quelle fini oscillazioni di sentimento muliebre, i richiami alla vita mortale e all’amore del suo diletto, e voi vi troverete dinanzi un cadavere rivestito di fronzoli, una larva ritinta e rappiccicata, a cui tutte le gale e i ricami simbolici non conferiscono un briciolo di vita.

Pur troppo, il momento solennemente vitale di questa poetica creatura non si protrae di là da questi due canti del Purgatorio.

La tirata, ch’ella fa nell’ultimo canto, intorno all’avvenimento di un vicino liberatore dell’Italia e della Chiesa non ha nulla che fare con la vita di essa: è piuttosto l’espressione dell’animo sdegnoso di Dante, sulla cui bocca suonerebbe meglio la frase volgare

Che vendetta di Dio non teme zuppe (Purg., XXXIII, 6) ,

o l’indovinello sul Veltro famoso, raffigurato ora diversamente in un cinquecento, dieci e cinque; e la mitologica spropositata erudizione sulle Najadi:

Che solveranno questo enigma forte Senza danno di pecore e di biade (Purg., XXXIII, 50-51) .

Entrata nel Paradiso, Beatrice si trasforma in una dottoressa.
 
Insegna al poeta, come ei possa levarsi al cielo vincendo la propria gravità, gli dimostra che le macchie lunari non possono provenire dalla densità o radità del corpo del satellite, ma sì dalla virtù che diffonde il primo mobile sui cieli sottoposti; ragiona sulla natura del voto, sulla giustizia della crocifissione di Gesù, sulla vendetta che ne fece Dio su’Giudei, sulla immortalità del-l’anima, e sopra altre cose; ma dentro a questa dottrina non sempre immaginosamente, anzi spesso aridamente significata, affoga e si perde ogni artistica vitalità di essa.

Il poeta si trova in un mare infinito di luce, di armonie, di fragranze; è come inebbriato.
E già che

forma non s’accorda Molte fiate alla intenzion dell’arte [...] (Par., I, 127-128) ,

egli non riesce a rendere sempre in modo definito e caratteristico le sue impressioni, malgrado la forza titanica del suo pensiero e della sua parola.
Il mito cristiano, l’abbiamo detto, uccide la realtà; il simbolo ammazza l’arte.
Chi ha saputo creare Francesca, Farinata, Vanni, Fucci, Ugolino, Sordello, Manfredi, non è più buono a darci che degli spiriti, che si compongono in croce, in ghirlanda, in aquila, in lettera; che fanno mille combi-nazioni e ghirigori per l’aria, che a forza di voler significare troppo non significano nulla: specie di giochi di artifizio, a cui si suole dar forma del Vaticano, del Campidoglio, della cattedra-le di Colonia e che so io, i quali ci abbagliano un momento con gli smaglianti colori, ma non ci lasciano nulla nel cuore e nella mente.

In mezzo a questi sfoggianti splendori la sensibilità di Beatrice si vien sempre più evaporando.
Arrivata in Saturno non sorride; gli spiriti che le fanno corona non cantano; più si va in su, e più la vita si eclissa.
Se questo sia crescer di bellezza non so; certo il poeta lo crede; e la sua donna infatti gli spiega il mancare del suo sorriso nei versi seguenti:

S’io ridessi,
Mi cominciò, tu ti faresti quale
Fu Semelè quando di cener fèssi.
Che la bellezza mia (che per le scale
Dell’eterno palazzo più s’accende,
Com’hai veduto, quanto più si sale)
Se non si temperasse, tanto splende,
Che il tuo mortal podere al suo fulgore
Sarebbe fronda che tuono scoscende (Par., XXI, 4-12) .

Così, quanto più cresce la bellezza del paradiso, e delle creature che sono in esso, tanto più manca la potenza di rappresentarla:

La bellezza ch’io vidi si trasmoda
Non pur di la da noi, ma certo io credo
Che solo il suo Fattor tutta la goda (Par., XXX, 17-21) .

Giunge a segno, che tutta la vita di Beatrice rimane assorta nella luce di un punto splendidissimo che è, nè più nè meno, che la divina essenza.
E il poeta, spettatore di questo luminoso connubio fra Dio e la sua donna, rimane accecato da tanto splendore.
Cerca la sua Beatrice, e si trova accanto san Bernardo:

Credea veder Beatrice, e vidi un sene
Vestito con le genti gloriose.
Diffuso era per gli occhi e per le gene
Di benigna letizia, in atto pio
Quale a tenero padre si conviene.
Ed Ella ov’è? — di subito diss’io;
Ond’egli: — A terminar lo tuo desiro
Mosse Beatrice me dal loco mio.
E se riguardi su nel terzo giro
Dal sommo grado tu la rivedrai
Nel trono che i suoi merti le sortiro (Par., XXXI, 59-69) .

Ecco la soluzione del poema; lo scopo attinto a traverso ogni, difficoltà; l’apoteosi di Beatrice.
Onde il poeta esclama:

O donna, in cui la mia speranza vige,
E che soffristi per la mia salute
In inferno lasciar le tue vestige,
Di tante cose quante io ho vedute
Dal tuo potere e dalla tua bontade
Riconosco la grazia e la virtude.
Tu m’hai di servo tratto a libertate [...](Ivi, 79-85) .

Si, ma questa libertà è la morte:

La tua magnificenza in me custodi,
Si che l’anima mia che fatta hai sana
Piacente a te dal corpo si disnodi (Ivi, 88-90) .

La verità ci fa liberi, scrive Agostino.

Ma la verità è nel cielo; per conquistarla adunque ed esser liberi bisogna prima morire; è uno dei soliti ragionamenti cristiani.
L’umanità, procedente sempre da carne a spirito, credeva allora soltanto raggiungere l’ideale, che poteva assorbirsi nella contemplazione perenne di Dio; il paradiso è l’annientamento delle facoltà e della vita.

L’individuo, il tempo, lo spazio, il modo, tutto ciò che è limi-tato e finito, val quanto dire tutto ciò che vive, perde ogni significato nel senso eterno di Dio; che, con istrana contradizione è principio e fine di ogni cosa vivente; creatore insieme e sepolcro; paternità mostruosa come quella del vecchio Saturno che mangiava i suoi proprj figli.

L’arte che segue questo processo metafisico ha contorni, movenze ed espressioni definite finchè si aggira nel campo dell’attività umana, che si svolge gradatamente sino alla conquista del vero eterno, dentro al cui seno tramonta e si perde.
Quando vuol penetrare nell’immensa luminosa palude dell’eternità, essa perde la sua sensibile esteriorità, si sforza a diventare incorporea e spirituale, e perciò si spoglia della sua natura, e finisce col distruggere sè stessa.

Per questa ragione la poesia Dantesca allora ha più rilievo, più colore, più vita, e allora più ci commuove, che ci descrive i tormenti e le pene dell’Inferno, le sofferenze e le speranze del Purgatorio, l’attività umana, a dir meglio, diversamente rivolta al bene o al male.
 
Giunta nel Paradiso, essa fa sforzi sovraumani per afferrare quelli spiriti vagolanti e costringerli ad una plastica sensibilità: essi le sfuggono quasi sempre, e invece di immagini e di corpi, ella non ci dà che simboli e allegorie.

Perchè questo gran stagno del Paradiso si muova e si agiti un poco, non bastano le disquisizioni teologiche fra Dante e i Dottori, nè i canti degli angioli, nè l’aquila simbolica, il cui occhio è composto di sei anime, nè la dottrina di san Pier Damiano sulla predestinazione, nè gli esami sostenuti dal Poeta circa la fede, la speranza e la carità: disquisizioni codeste che tiran l’arte pei capelli fin dentro ai labirinti scolastici; ovvero allegoriche immagini che la ricacciano e inchiodano nella pesante simbolica degl’ipogei.

Perchè l’immensa palude si muova, bisogna che la gagliarda fantasia dell’Alighieri ricorra alla povera terra spregiata, ch’egli guarda con superba commiserazione dall’altezza del cielo stellato; bisogna ch’egli domandi a questo piccolo globo che lo fa sorridere delsuo sembiante la parola misteriosa della vita, l’anello incantato che anima i fantasmi del pensiero o li fa muovere e palpitare nel regno immortale dell’arte; bisogna che le passioni degli uomini facciano sentire il loro fremito, segnino il loro solco di fuoco in mezzo a queste eterne sostanze beate eternamente gingillantisi a intrecciar danze e cantarellare osanna ed alleluja intorno al luminoso trono di Dio.

Quando la fantasia del Poeta ritocca terra, allora i mirabili aspetti tramutati dalla beatitudine, e ch’egli a stento riconosce, riprendono forma, espressione e parola umana; la sua fiera personalità penetra di forza entro a quelle figure mummificate dal simbolo, e le fa passionatamente sentire ed esprimere.

Udiamo allora la voce di Giustiniano, che dopo avere accennata la storia dell’Impero, prorompe contro alle falsità dei Ghibellini, che si dipartono da giustizia per seguire lor pro.
Ai quali, ed alle loro colpe

Che son cagion di tutti i vostri mali [...](Par., VI, 99),

sta di riscontro la veneranda figura di Romeo di Villeneuve, amministratore onesto, racquistatore ed accrescitore delle ricchezze di Berengario.
Ci commoviamo allora alle affettuose parole di Carlo Martello e alle sdegnose di Cunizza, e alle accuse che lancia Folchetto a Firenze,

Che ha disviate le pecore e gli agni Perocche fatto ha lupo del Pastore [...] (Par., IX, 131-132);

ci esaltiamo alla fiera predizione che il

Vaticano e l’altre parti elette
Di Roma che son state cimitero
Alla milizia che Pietro seguette,
Tosto libere fien dall’adultero (Ivi, 139-142) .

E Cacciaguida? E san Pietro? Essi dimenticano volentieri la loro beatitudine e il loco dove sono; risentono tutto l’impeto delle umane passioni, e prorompono in parole di fiamme con-tro a

quell’ingrato popolo maligno
Che discese da Fiesole ab antico
E tiene ancor del monte e del macigno(Inf., XV, 61-62. Sono parole di Brunetto Latini);

contro Roma fatta cloaca

Del sangue e della puzza onde il perverso
Che cadde di quassù, laggiu si placa (Par., XXVII, 26-27) ;

contro ai lupi rapaci in vesta dipastori, contro ai nemici del Poeta e d’Italia e della cristianità.
 
I loro dardi infuocati si dirizzano tutti ad un segno; la dove si appuntano i desiderj, le speranze, gli sdegni implacabili del Poeta; il quale, imponendo a tutti dispoticamente la sua indomabile volonta, a tutto e a tutti sovrasta, anche all’eterne sostanze beate, che diventano suoi interpreti e portavoci.

Quando il torrente delle passioni gl’imperversa nell’anima, egli non è più l’umile pellegrino inalzato dall’amore e purificato dalla grazia divina; egli è piuttosto Lucifero che prorompe vittorioso dinanzi a Dio nelle favolose regioni del Paradiso, in cui trapianta animosamente la vita mortale, costringendo ad ascoltare la sua sdegnosa parola e a trascolorarsi ed impallidire quei poveri spiriti e la stessa Beatrice, la quale non può fare a meno di vergognarsi,

come donna onesta che permane

Di sè sicura, e per l’altrui fallanza
Pure ascoltando timida si fane (Ivi, 31-33).

Tanto è vero, che l’arte non attinge mai vera ispirazione se non dalla terra, e che il Poeta allora solo riesce a dar vita alle sue creazioni quando sa limitarle e circoscriverle nel reale, in cui tutto è relativo e finito.