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II IV


L’errore principale di coloro che si son messi a studiare l’amore e il carattere di Dante è questo, secondo me: che han voluto distinguere e suddividere in due o tre specie e nature quella passione ch’è sostanzialmente una; che non fa altro che svolgersi e trasformarsi, seguendo fatalmente le leggi naturali, le circostanze della vita, l’indole dell’intelletto e del cuore del nostro poeta.

La prima fase di questa passione comune a tutti gli esseri viventi, e che nell’animo dell’Alighieri prende proporzioni, carattere, attitudini ed espressioni singolarissimi, noi la troviamo nella Vita Nuova, la seconda nel Convito, la terza ed ultima nella Commedia.
I critici, che distinguono nel poeta due generi d’amore, uno naturale, l’altro intellettuale, non sanno, in verità, che si dicano: anime di cartapecora che pretendono spiegare i fenomeni del cuore con le grette suddivisioni della scolastica, non intendono le naturali evoluzioni e le trasformazioni molteplici delle cose, e non osservano degli oggetti che la superficie.

L’amore di Dante non è di quelli che momentaneamente s’accendono, che ciecamente vivono, e rapidamente, al primo inciampo, si spengono. Esso nacque, possiamo dire, col poeta stesso, come nasce insieme ad ogni anima gentile, anzi è con l’anima gentile una sola cosa:

Amor e cor gentil sono una cosa (Ivi, XX);

si svolse con un processo lento; si accrebbe e si nutrì del consiglio della ragione, dominò non solamente il cuore ma l’intelligenza, non solo un’età, ma tutta la vita dell’Alighieri.
Parve talvolta, che il soffio potente di altre passioni avesse voluto smor-zarne la fiamma; ma esso si piegò e divampò meglio.
Un amore semplicemente naturale noi non lo comprendiamo, come non intendiamo un amore esclusivamente intellettuale e filosofico.
L’amore ama per natura i contrarii e non esclude, anzi comprende le differenze, l’antagonismo, la lotta.
Un amore completo come quello di Dante attinge forza a due fonti: è vivificato dal pensiero che crea e dalla bellezza creata; si pasce di ciò che costituisce un momento razionale e necessario nell’universale sistema degli esseri, e di ciò che costituisce la bellezza circoscritta nelle membra d’una fragile creatura.

L’anima come divisa in due nature, l’animale e la razionale, è spinta perciò a generare doppiamente nel mondo corporeo e nel mondo spirituale; dal connubio fra l’anima e l’amore nasce l’arte, che, seguendo la natura dei suoi genitori è finita ed infinita, individuale ed universale: infinita ed universale come pensiero; individuale e finita come espressione.
Per questo appunto il poeta nostro dice con singolare personificazione, che l’arte è nipote a Dio; perchè, essendo Dio, secondo lui, il pensiero e lo spirito infinito, e la natura il sensibile corporeo individuale e finito, l’arte, che discende virtualmente nell’anima nostra e dall’anima nostra si esprime, ritiene di Dio infinito che crea la natura, e dalla natura che le presta la forma sensibile; e siccome la natura, secondo il pensiero di Dante, è cosa finita, così la materia è sorda a rispondere alle esigenze del concetto infinito dell’arte.

Comunque sia, le contrarietà e le battaglie che si riflettono in tutte le cose della natura e dell’anima, sono come l’essenza dell’amore; costituiscono il dramma di questa passione e di tutta la vita.

I pedanti, che non hanno anima capace di abbracciare l’insieme di questo dramma, suddividono, distinguono, sminuzzano; allontanano il pensiero dall’espressione, l’arte dalla vita.

Venendo poi a discorrere di Dante e ad esporre l’intendimento e la forma della Vita Nuova, non si possono capacitare come il divino poeta potesse amare una semplice creatura mortale, nè più nè meno che qualunque altr’uomo.
 
Tiran però l’oroscopo della loro retorica, e trampolando, almanaccando, delirando, vedon metafore e allegorie e gergo furbesco di settario e indovinelli e sciarade da rompiscatole là dove altro non è che il solco infuocato della passione e la nitida e superba schiettezza di chi va significando le cose a quel modo che amore gli detta dentro.

La vita di Dante è un continuo salire da carne a spirito, una battaglia senza fine, ricca di svariati episodi, ma tutta e costantemente rivolta a un sol fine; animata da una sola speranza, da un intendimento: la conquista d’un supremo ideale: in Firenze la composizione dei partiti; in Italia l’unità di reggimento, fosse anche tedesco; nel mondo la Monarchia universale; e questo nel campo politico; nel religioso: una religione sola cattolica, quella di Cristo; un pastore e un ovile; un Dio in cielo e un pontefice in terra; nel filosofico: una scienza rivolta esclusivamente alla conquista dell’assoluto bene, nel godimento del quale risiede la beatitudine.

A questa gran luce diffusa, desiderio infinito di ogni anima, bisogna ad ogni costo arrivare. Beatrice lo precede, lo guida, lo illumina; gli mostra la via che al ciel conduce.
Egli è smarrito nella foresta; bisogna che si liberi, che vinca le tre fiere che gli tolgono l’andata; che si travagli a tutt’uomo per giungere a quell’altezza da cui Beatrice lo chiama. Questo travaglio è tutta la vita dell’Alighieri; Beatrice è tutto il suo destino.

I gradini per cui l’anima del poeta s’innalza alla conquista del bene non si possono salire e discendere con la stessa facilità della scala sognata da Giacobbe. Beatrice, angioletta giovanissima, discesa in terra soltanto per mostrare la potenza del suo fattore, fa presto a salire al cielo, a trasformarsi in angelo. Dante però deve lottare contro i suoi nemici, contro i suoi tempi, contro la fortuna, contro sè stesso. Questa lotta eroica, che è come la titanomachia umana, costituisce il soggetto del divino poema.

Il poeta, non più individuo, ma centro di tutta la società dei suoi tempi, è l’eroe della triplice epopea, il Prometeo del medio evo: la Divina Commedia è però una vasta rappresentazione di cui gli attori son tutto un popolo, ed argomento una civiltà.
Se grande è la potenza che giunge a incarnare tanta varietà d’uomini e di cose, eminentemente drammatico ed interessante è l’interno lavorio del poeta, che, svolgendosi con ogni eroico sforzo dalle spire funeste delle terrene passioni, e valicando gli allegorici regni della morte, giunge finalmente all’altezza luminosa, in cui divinamente bella si asside la perfezione ideale di Beatrice.

Quando io considero questi sforzi più che umani dell’anima di Dante, io non posso non correre col pensiero al gruppo sublime di Laocoonte, e ai versi di Virgilio che lo scolpiscono.
Ma l’anima del poeta, più gagliarda e più fortunata dell’infelice sacerdote di Nettuno, giunge a svincolarsi dai mortiferi abbracciamenti, e s’inalza vittoriosa alla conquista della beatitudine.
L’amore che opera il miracolo di questo trionfo è in generale e sin da principio un che di sintetico e d’armonioso; ma il sentimento nella prima fase predomina: l’amore del giovane poeta è ancora una specie, un individuo, una donna; e Beatrice Portinari. Vero è che in essa è qualcosa di sovrumano e celestiale; che la sua bellezza accompagnata da sovrana modestia

e di tanta virtude Che nulla invidia all’altre ne precede [... (Ivi, XXVII)

qualità rarissima che c’indica come la beltà di Beatrice era così superiore a quella di tutte le altre donne, invidiose per debole natura, che non dava luogo a confronti di sorta; vero è che il poeta vedeala di sì nobili e laudabili portamenti che di lei si potea dire quella parola d’Omero: «Ella non parea fatta da uomo mortale, ma da Dio» ; ma essa è pur sempre una donna, anima d’angelo sì, ma venuta in terra e vivente in came umana.

Alla vista di lei che fa ogni cosa umile, all’avvicinare di questa gentilissima creatura che porta amore negli occhi, il pensiero del Poeta si smarrisce: egli trema e balbetta come un fanciullo, desidera irresistibilmente vederla, la cerca da per tutto, si pone al canto di una via per vederla passare, si appoggia al pilastro di una chiesa per goder lungamente della sua vista; ma appena le è vicino e sente il fruscio della sua veste, e il profumo della sua persona, il cuore gli batte fin nella gola, il coraggio gli manca; non osa alzar gli occhi; perde la voce e il respiro e la memoria e la coscienza di se stesso: siamo al momento descritto divinamente da Saffo:

Ciò che m’incontra nella mente muore
Quando vengo a veder voi, bella gioia,
E, quando vi son presso, sento amore
Che dice: fuggi, se il perir t’e noia. (Ivi, XV, 1-4.)

La fermezza e la ferrea volontà di Dante vacilla allo spettacolo di una fragile creatura; egli sente il bisogno di fuggire da quella donna che lo distrugge.
N’avrà poi la forza? Quando se n’allontana per poco, e l’impressione gli lavora nell’anima per via dell’immaginazione, allora, pur vagheggiando quella sovrumana bellezza, trova luogo alle riflessioni filosofiche e morali, all’esame, all’analisi, all’anatomia del suo sentimento, della belta virtuosa di Beatrice, del fenomeno naturale dell’amore.

Tutti li miei pensier parlan d’amore,
Ed hanno in lor si gran varietate,
Ch’altro mi fa voler sua potestate,
Altro folle ragiona il suo valore; (Ivi, XII, 1-4)

ecco un’analisi dei suoi pensieri.

Dagli occhi della mia donna si muove
Un lume si gentil, che dove appare
Si veggion cose ch’uom non può ritrare
Per loro altezza e per loro esser nuove; (Rime, XXVII)

e poco dopo:

Lo fin piacer di quello adorno viso
Compose il dardo, che gli occhi lanciaro
Dentro de lo mio cor quando giraro
Ver me, che sua beltà guardavo fiso; (Rime apocrife di Dante pp. 270-271)

ecco un esame delle impressioni avute. La famosa canzone:

Amor che nella mente mi ragiona (Conv., trattato III, canzone II, 1.)

è un panegirico spirituale della sua donna. Ma in mezzo a queste analisi più o meno fini del sentimento, in mezzo a tutti questi concetti più o meno peregrini e sottili tu vedi sempre un oggetto reale, terreno, sensibile: Beatrice è pur sempre una donna. Basta ch’ella si faccia vedere al Poeta, che gli neghi o gli consenta un saluto, perch’egli perda la padronanza di sè stesso, e confuso e sbalordito di tanta bellezza domandi:

«Cosa mortale
Com’esser puote sì adorna e pura?». (Vita Nuova, XIX, 11-12)

Il pensiero del poeta cristiano medioevale non si acqueta nella contemplazione e nel possedimento di una mortale bellezza; ha l’istinto dell’avvenire, la fede nel soprannaturale: l’oltre tomba è il fantasma che sta sempre dinanzi alla coscienza del medio-evo.
E la fede risponde al Poeta: l’aspetto della tua donna giova

A consentir cio che par meraviglia; (Conv., Loc. cit., 52)

e poco più giù:

Costei pensò chi mosse l’universo. (Ivi, 72)

Fin qui abbiamo Beatrice che si dibatte fra l’angelo e la donna.
L’anima del Poeta vede in lei queste due nature, ed ondeggia fra l’amore e l’adorazione: corre per abbracciare la donna e rimane sbigottito dinanzi all’angelo; si direbbe che Beatrice, senza ancor cessare di esser cosa mortale, lingueggiasse come una fiamma verso il cielo infinito, ch’è patria del Vero e di Lei, e dove è sicura di ritornare appena il desiderio degli angeli sarà soddisfatto da Dio.
 
Il Poeta sente tutto questo entro di sè; il suo amore perciò, pure essendo per una donna reale, è pieno d’immaginazioni, di visioni, di sogni: sente che dentro a quella piccola creatura che informa color diperla c’è l’infinito e l’eterno; ch’essa è come una gran catena misteriosa, il di cui primo anello si lega alla terra, mentre tutti gli altri si perdono nella luce dell’eterna beatitudine. Egli è sicuro che

Vede perfettamente ogni salute
Chi la sua donna fra le donne vede; (Ivi, XXVI, 1-2)

presènte

Che non può mal finir chi l’ha parlato; (Ivi, XIX, 42)

ma cio non toglie

Che non sospiri in dolcezza d’amore. (Ivi, XXVI, 14)

Questa fluttuazione incessante dell’anima costituisce il nodo drammatico della Vita Nuova.

Ma l’anima di Dante non è fatta per cullarsi placidamente siccome fiore sulla queta superficie di un lago.
Egli ha mestieri di contradizioni, di moto, di conflitti; è ambiziosissimo, nel senso più vasto e più nobile della parola: la sua attività si vuole esercitare egualmente nel campo morale, nel religioso, nel politico, nel letterario.
 
Lotta contro se stesso, per signoreggiare le buone e le cattive tendenze dell’animo; lotta contro gli altri per giungere al potere che per lui non è fine o mezzo di private soddisfazioni e di personali vendette, ma principio di giustizia, e mezzo di giovar alla patria; lotta con la materia sorda a rispondere, e la domina e la costringe ad incarnare i suoi titanici concepimenti in una forma nuova e caratteristica.
La sua volontà, si direbbe, che sieda in cima a tutte le altre facoltà, simile a una superba divinità di acciaro, ferma, dura inesorabile, che afferra per le chiome tutte le altre potenze soggette, e non s’illumina che della ragione.

Per questo la figura dell’Alighieri ci si disegna maschia, selvaggia, solitaria; essa non piace, ma domina; non parla, ma scolpisce.
Voi le passate dinanzi senza conoscerla, ed essa vi trattiene, non già con le seduttrici attrattive della forma e della parola, ma con le rigide imponenze dello sguardo, con la sdegnosa sprezzatura del portamento: ha qualcosa che vi fa pensare al Mosè di Michelangelo.

Qual differenza fra l’anima del Petrarca e questa del nostro Poeta!

Nell’anima del poeta aretino ci son tutte le mollezze, gli ondeggiamenti, i profumi, le bizze e i dispetti di un’anima muliebre.
Non si acqueta in nessuna cosa, ma non procede; non ha il coraggio o la modestia di affaticarsi, di lottare per giungere alla conquista di ciò che potrebbe essere il suo ideale: lascia che la corrente lo porti; si affida al caso, e si lamenta della fortuna quando dovrebbe affidarsi alla propria volontà e non lamentarsi che della propria impotenza.

L’amore del Petrarca, ciononostante, non è privo d’azione e di dramma; non è tutto della mente, come piace a molti asserire; non è solo artifizio scolastico cieco d’ogni lume di vero affetto, e perciò privo di interesse e di vita.
 
Petrarca non è un carattere intero, manca di qualcosa di energico che lo diriga, manca del timone della volontà; è carattere affatto moderno, tutto italiano.
 
In lui non c’è Prometeo, come in Dante; c’è l’uomo-femmina, c’è l’Apollo ermafrodita.

L’amor suo non è stagnante come acqua di palude, ma non è tempestoso come le onde dell’Oceano: somiglia piuttosto a un lago che s’increspa leggermente alla superficie, che raramente si turba e minaccia di flagellare la riva, come il Benaco descritto da Marone; ma che subito, come avesse senso e paura delle sue onde, si ravvede, si spiana, si racqueta, si compiace di riflettere l’azzurra faccia del cielo e le verdi colline circostanti, che vi si guardano dentro come Ninfe, curiose di loro bellezze.
 
E appunto in questi leggeri e istantanei turbamenti che noi sentiamo la vita e il carattere dell’uomo, indoviniamo quella parte viva e palpitante d’amore, ch’egli non ha il coraggio di rivelare, ma che pure si agita sotto alla trasparente vernice del Canzoniere.
Nella superficie Candida, lucida, levigata di quella poesia tu noti qua e la qualche screpolatura, e da queste screpolature, come da un campo di neve che principia a dimoiare e lascia veder qualche foglia di mammoletta ostinata, tu vedi guizzar fuori un non so che di umano e talvolta anche di sensuale, che ti annunzia la terra, la carne, il peccato.
Questi guizzi, questi fremiti inaspettati ed involontari dànno una gran luce e un profondo significato alla poesia petrarchesca, la quale, senza di essi, sarebbe da somigliare a una camelia, priva di quelle fragranze che sono le parole che la natura accorda a certe famiglie privilegiate di fiori.

Il carattere di Dante non ondeggia, non tituba, non ha altalene.
 
Beatrice, angelo o donna che sia, è pur sempre la sua mèta: a lei tende irresistibilmente, come per fatalità ragionata dell’animo; e l’intelletto, il sentimento, la volontà congiurati insieme lo spingono sempre innanzi, sempre verso quel fine ch’egli non raggiunge mai sulla terra; se le vicende fortunose della sua vita lo fanno talvolta oscillare, la sua oscillazione e simile a quella dell’ago magnetico.

E Beatrice non è soltanto il polo dell’animo innamorato di lui; è l’universo al quale si dirigono per intima legge tutte le facoltà del suo spirito.
Il suo amore non è però stazionario; ma precede sempre, e procedendo si modifica, si trasforma, in peggio o in meglio non so, ma certo procede in maniera che, nato nel profondo del cuore, s’inalza a poco a poco alle regioni dell’intelligenza, e da queste al mondo soprannaturale, in cui finalmente si acqueta.

Nella Vita Nuova noi troviamo la descrizione del primo periodo di questo amore originale; del periodo più umano e più comune di quella passione. E’ il primum ver, il ver novum dell’anima.

La narrazione di tutto ciò che il Poeta sente dentro di sè, e non solo la narrazione, ma lo studio di molti più o meno insignificanti incidenti che dànno luogo a parecchi importanti fenomeni psicologici, costituiscono la materia del giovanile libretto.
Non succede nessun piccolo incontro, non parola d’affetto, non sussurro di gente maligna, non visione, che il Poeta non prenda sul serio, non esamini, non si studii di spiegare.
Le menome circostanze operano direttamente e contemporaneamente sul suo cuore e sulla sua intelligenza: egli sente e ragiona al tempo istesso: mirabile armonia ed equilibrio perfetto di facoltà.

Non è però da far le meraviglie o da gridare allo scandalo, se lo scrittore, dopo uno sfogo irresistibile dell’animo e qualche volta al momento istesso, si avvede di ciò che fa, nota ciò che dice, chiosa e comenta il suo pensiero e la sua parola; ammucchia la sua fanciullesca erudizione su quelle cose che fanno palpitare il suo cuore.
Coloro che credono trovare in questa circostanza un argomento per impugnare la realtà dell’amore di Dante, o non hanno meditato abbastanza sul carattere del Poeta e dei tempi, o non sono capaci di meditare e sentire la profonda verità ch’è in tutte queste contradizioni che costituiscono la parte più vera di questa comune e sempre istranissima passione d’amore.

Quelli poi che sorridono di compassione a sentirsi con tanta serietà descritti codesti piccoli aneddoti, a cui il poeta s’interessa con tanta ingenua cordialità, possono andare a sfogare la lor libidine di cose nuove nella eccitante lettura dei tanti romanzi che con tanto diabolico profluvio si vanno scrivacchiando oggidì per tutte le cinque parti del mondo, e che sono il pascolo prediletto di quel numerosissimo armento, che là solamente trova gusto dove, non essendo nulla da imparare, non ha occasione di arrossire della sua superba ed asinina ignoranza.

Con codesti romanzi, che si addimandano realisti, solo perchè della realtà non ritraggono che la parte piu sudicia, e pare altra missione ed ufficio non abbiano che di strappare la foglia di fico che il pudore naturale ha voluto mettere sulle vergogne, il libretto originale della Vita Nuova non ha nulla che vedere.

Le fila che compongono la sua trama sono tenuissime, e sfuggirono a coloro che hanno grosso l’ingegno e incallito il cuore: non isfuggono però a quegli uomini del Trecento assai più aspri e selvatici in apparenza, ma certo e intimamente assai piu gentili di noi non veramente gentili, che gentilezza si accoppia benissimo a robustezza di fibre e virilità di carattere, ma piuttosto morbidi effeminati, non aventi altra forza che di sogghigno, non altro coraggio che di mostrare ignuda e di celebrare la clorotica floscezza dell’animo nostro annoiato.

Notevole anche da questo lato e quell ’ingenuo racconto che par concepito nella solitudine e nel ritiro d’un chiostro, o in tempi di quiete e di oblio, quando invece fu scritto da un uomo operosissimo e guerriero e in tempi e in paese agitatissimi dal febbrile parossismo di tante feroci passioni.

Gli animi, fossero anche faziosi e crudeli, sentivano allora il bisogno di sollevarsi di quando in quando alla soave contemplazione delle gioie spirituali, di liberarsi anche per un momento dalla torbida gora, in cui s’inzaccheravano insanguinandosi, e spaziare solingamente nelle reminescenze e nell’affetto di una cosa gentile.

E la Vita Nuova rappresenta appunto codesto momento, codesta faccia dell’animo dei suoi contemporanei: è il primo romanzo scritto in volgare e la più limpida incarnazione del nuovo concetto d’amore.

Lo stile di esso non è sempre semplice e piano e conveniente al soggetto; e non poteva essere altrimenti in un tempo in cui risvegliandosi il culto del sapere, le nuove e le vecchie cognizioni si mescolavano stranamente, e quel tanto che studiosamente si apprendeva volevasi con intemperanza giovanile metter subito in mostra.
Ma semplice e schietta e la sostanza del libro e sempre viva ed ingenua e direi quasi verginale la lingua.

Io non posso rileggere la Vita Nuova senza che mi vegga sfilare dinanzi agli occhi quelle figurine snelle, leggere, candidissime che Frate Angelico dipingeva nelle cellette di S. Marco a Firenze.
Si direbbe che l’arte nostra non avesse ancor preso consistenza, fosse ancora vaporosa ed indefinita come un pianeta in formazione; non avesse ancor la forza di ritrarre completamente il corpo, ma valesse mirabilmente a ritrarre lo spirito, non già per completa padronanza e ricchezza di mezzi artistici, ma per intima forza di sentimento, a cui bastavano poche linee per rivelarsi.

Anime riboccanti di fede, di amore, di attività gli artisti e gli scrittori di quel tempo esprimevano le loro concezioni ed i loro sentimenti in una forma naturalmente semplice e schietta e perciò naturalmente forbita.
La forbitezza degli artisti e poeti del Cinquecento è tutta artificiale ed esteriore; vernice spesso, non altro: la forma rimane al di sopra e come staccata ed estranea al concetto: non è la cosa stessa con questo, non è figlia del medesimo concepimento; è invece una superfetazione. La forbitezza dei trecentisti, al contrario, è tutta intima, deriva dalla cosa stessa, anzi è la cosa stessa che si esprime per virtù propria, che vien fuori per naturale, invincibile impulso.

Gli scrittori del Trecento son pero restati i veri maestri del nostro idioma e i migliori modelli di stile; non sono accademici che chiacchierano di ciò che non fanno e non sono capaci di fare, ma uomini che dicono meno di ciò che hanno fatto: sono i più robusti, perchè i più operosi; i più forbiti, perchè i più schietti; la schiettezza è dei forti, l’artificio dei deboli.
E gli scrittori più gagliardi e più schietti del Trecento sono gli uomini più operosi e più onesti: Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, i Villani.

E schietti e potenti sono anche gli scrittori di cose ascetiche, perchè allora la fede non era parola, ma opera; non mestiere, ma sentimento.
 
Fra Bartolomeo, Fra Cavalca, Caterina da Siena, Frajacopone, nei lucidi intervalli, qualunque abbiano a essere i loro sentimenti, hanno pure una fisionomia, un carattere: non sono vesti, come parecchi scrittori del secolo di Leone, ma sono anime.
E si osservi, che fra gli ascetici, questi che abbiamo nominati sono eccellenti perchè ciò che dicono proviene dalle viscere del loro sentimento; gli altri che narrano leggende, o espongono precetti per impaurire le mennti, per asservirle al potere ecclesiastico; che non iscrivono per intima forza dell’animo, ma per interesse e tornaconto della casta a cui appartengono, costoro riescono scrittori freddi, insipidi, uggiosi come il Passavanti.

L’arte del Trecento, a dir breve, ha questo di singolare, che si confonde con la vita; non è esercitazione, ma azione: ciò che esce però dalla cerchia di quella vita agitata, varia, potente, riesce languido e sfiaccolato.

La Vita Nuova, per quanto possa parere estranea alla febbrile attività di quel secolo, pure ne ritrae fedelmente un lato, il più spirituale, se vogliamo, ma non certo il più insignificante.
Il giovane Poeta vive ancora solitario co’ suoi libri, col suo amore, con le sue vergini fantasie; rappresenta quel bisogno di pace e d’isolamento, che ognuno allora sentiva, immerso corn’era fino ai capelli nei sanguinosi flutti delle civili discordie.