16. Non demoralizziamoci!

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Non demoralizziamoci!


Ho tenuto per ultime alcune considerazioni d’ordine morale su quelle varietà di Eutanasia, dalle quali ho cominciato: la morte prematura concessa o legalmente sanzionata ai sofferenti, agli agonizzanti, ai decrepiti, a tutti coloro che, immersi nel dolore o nella miseria fisiologica, la nostra simpatia circonda di un sentimento di pietà, al quale essi medesimi fanno talvolta appello per finire una vita di angoscie, di pene, di impotenze.

Senza dubbio, l’uccisione pietosa sarebbe un derivato apparentemente logico e naturale della massima dell’“Aiutatevi„. In fondo, direbbe un eutanatista conseguente sino all’estremo, non sarebbe umano e perciò morale, che io prestassi l’opera mia a chi, disperato da infinito dolore, mi domandasse di essere aiutato a liberarsene? Il Régnault ha [p. 260 modifica]designato questa forma di soccorso materiale come “carità suprema„; ma noi abbiamo già veduto, che per far superare quel momento o periodo di disperazione il soccorso può e deve, almeno in principio, essere prestato in forma puramente morale: — confortare il paziente, consolarlo con dimostrazioni di calda simpatia, suggerirgli forza d’animo; — solo quando questi mezzi morali si dimostrassero affatto insufficienti, perchè il dolore di certi mali non si vince purtroppo con nessuna psicoterapia, si potrà ricorrere alla diminuzione o soppressione artificiale della sensibilità. Nè la Morale, nè la Fede possono condannare questo uso, anche spinto agli estremi limiti, dei farmaci sedativi e narcotici: l’averli scoperti non è fra le minori conquiste della intelligenza umana. E già un istinto naturale porta molti animali alla ricerca di erbe o di mezzi meccanici atti a lenire le loro sofferenze, come altri ne induce alla mutua difesa ed alla più commovente assistenza verso i loro compagni in pericolo di vita o per aggressione di nemici, o per accidenti improvvisi. Le opere di Houzeau, di Brehm, di Romanes (cito le più popolari) stanno là ad attestare che qualora l’Uomo negasse al suo simile un adeguato soccorso di opera e di sentimento nel caso di una disgrazia, scenderebbe sotto il livello della bestia: ed è già da arrossire che egli vi scenda nelle raffinatezze intelligenti e premeditate della sua crudeltà. [p. 261 modifica]

Ecco perchè l’omicidio, comunque sia motivato, non può trovare favore nè assenso, almeno in forma assoluta e legale, presso quanti sperano dalla Civiltà un progressivo miglioramento dei nostri ideali di Vita sociale! Noi speriamo che coll’educazione delle masse (ahimè, così suggestionabili anche nel male!) si svolga un sentimento sempre più vivo di solidarietà gregaria, si rinsaldi in fondo al cuore umano quel grande principio della mutua responsabilità, senza del quale è vano attendersi lo sviluppo di una Morale vieppiù alta.

Intanto una forte opposizione viene dalla Fede. Io non ho intenzione di trattare l’argomento sotto l’aspetto religioso, ma neanche intendo di poter passare sotto silenzio un lato così importante per i più. Ricorderò che un medico distinto, fervido e sincero credente, il dott. Guermonprez, si è dichiarato assolutamente contrario anche per motivi cattolici. Egli ricorda il precetto “Non uccidere„ della Legge Mosaico-cristiana, precetto che secondo lui si attaglia anche al suicidio; ripete con Paolo Bert, che pure era un libero pensatore, l’altra regola umana che “Contro i deboli, non si ha altro diritto che la carità„; cita molti argomenti teologici da un’autorità competente, il Padre Agostino Lehmkuhl, e finisce con sostenere che il medico commetterebbe una grave colpa se affrettasse la morte di un suo cliente in condizioni disperate, e anche se lo assopisse con sostanze [p. 262 modifica]narcotiche onde farlo passare “dolcemente„ dal sonno alla morte. Su quest’ultimo punto la Sacra Scrittura, come vedemmo, parla ai fedeli in senso ben diverso.

Ma guardiamo pure la tesi dal punto di vista esclusivamente etico o sociale. Si è detto: — la Eutanasia più che da riforme legislative imposte, dipenderà dai costumi, dalla opinione pubblica, da nuovi sentimenti sociali; come si è arrivati a tanti mutamenti nei nostri modi di vivere, di condurci, di considerare i rapporti fra i cittadini, fra i cittadini e i Poteri statali, fra gli Stati e le Nazioni, così avverrà dell’attuale “pregiudizio„ che si debba lasciar soffrire senza speranza, vivere senza utilità collettiva, esistere senza finalità alcuna. L’“idea„ della eutanasia è apparsa, dapprima, quasi timidamente, nelle speculazioni dei filosofi, ma sta facendo la sua strada fra il pubblico, che non se ne mostra stupito nè offeso; e come “usanza„, l’eutanasia, che si trova presso molti popoli antichi e moderni, non sempre incivili, anzi diggià inciviliti, a sua volta si estenderà e col tempo diventerà forse universale.

Si può rispondere considerando la cosa nei riguardi del sentimento di solidarietà e mutuo rispetto che si è sviluppato fra gli Uomini. Questo sentimento comincia dalla famiglia, di cui è dubbio se la pratica dell’“omicidio [p. 263 modifica]pietoso„ verrebbe a consolidare la già tentennante compagine. Verosimilmente, finchè durano nella immensa maggioranza delle nostre famiglie i due sentimenti fondamentali dell’amor parentale e della reverenza figliale, e finchè nel cuore umano albergherà la speranza che l’Arte medica trovi qualche sollievo ai nostri mali, la richiesta della morte anche da parte di infermi condannati non verrà ascoltata. Nè la compassione dei congiunti cercherà nella fine artificialmente affrettata del deforme, dell’idiota, del vecchio decrepito, quella liberazione dalla loro inconscia condizione, cui si opporrebbe certamente il loro istinto di vivere, qualora ne fossero coscienti.

Io reclamo per la specialità medica che coltivo il grande merito di avere, per la prima, prospettata questa necessità di moralizzarci di fronte al problema della Vita e della Morte, in quanto essa ha dimostrato come ogni infermo di mente non sia degenere, nè sempre inutile e pernicioso di sua scelta e per sua responsabilità, ma sia la vittima di cause di degenerazione quasi sempre indipendenti dalla sua volontà. Ora, queste cause, tanto d’ordine morale (miseria, ignoranza, vizi, libertà eccessiva nei matrimoni, malo esempio, disoccupazione, ecc.), quanto d’ordine fisico (mancanza di igiene pubblica, strapazzo nel lavoro, eredità patologica, sifilide, alcoolismo, pellagra, ecc.), hanno in realtà una origine collettiva, sono cioè il prodotto di mali del corpo [p. 264 modifica]sociale; e tocca a questo subire la sanzione di tutti quei gravami fino a che non abbia virilmente provveduto alla profilassi ed alla propria rigenerazione. In una Umanità civile la Eutanasia neuro-psichiatrica sarebbe quasi del tutto inconciliabile colla necessità di sempre meglio rinserrare, non di rallentare e distruggere, i vincoli di mutua responsabilità fra i suoi componenti, anche se di generazioni successive.

L’Eutanasia non arreca, secondo Lindsay, alcun benefizio sociale; essa abbassa il nostro rispetto per la vita umana, giacchè il miglioramento fisico dell’Umanità o della razza non deve ottenersi a scapito dei sentimenti morali. L’abnegazione per assistere ammalati ripugnanti, la compassione attiva per i nostri simili sofferenti, la simpatia per ogni creatura vivente, sono valori altamente utili, cui non dobbiamo rinunziare. D’altra parte, la sofferenza è un fattore di elevazione; il Dolore ha una finalità morale e quasi estetica; la Vita senza Dolore sarebbe insipida. È anche difficile stabilire se certe sofferenze individuali non siano utili, non tanto perchè espiazione di errori volontari da parte dell’individuo medesimo, quanto perchè ammaestramento della collettività spettatrice o superstite per avviarsi sulla strada della Ragione e della Giustizia, per apprendere quel rispetto delle leggi naturali di cui molto spesso la malattia dimostra il disprezzo o la trascuranza.

Scriveva Jean Finot nel suo bel libro [p. 265 modifica]Progrès et Bonheur (Parigi, 1914): “Si teme, si fugge, si maledice il Dolore; ma esso arriva egualmente, e quando è arrivato, dà valore alla gioia passata e ne darà a quella futura... Come il suolo che non dà frutti se non è tormentato, così la nostra anima domanda l’intervento del Dolore per mostrare di che sia capace... Il Dolore nobilita l’anima, le impone della riflessione, la purifica, le serve di scuola, le mostra gli errori della strada percorsa, le scopre le vie nuove... E i popoli sono come gli individui: il Dolore li spiritualizza e li ingrandisce„. È giusto; l’ultima Guerra ha spremuto dall’anima dei popoli Europei, colle sue immani sciagure, tutto ciò che essa conteneva, quasi a loro insaputa, di buono: il sacrificio, l’abnegazione, la solidarietà, la carità, la pietà, il civismo, il patriottismo, l’eroismo, la fede. Togliete il Dolore dalla evoluzione umana, e ne avrete arrestato il Progresso.

Ai medici, in particolare, spetta un còmpito nobilissimo in questa educazione anti-egoistica e, direi, stoica del coraggio, in questa dignitosa rivolta dell’Uomo contro le inesorabili leggi di Natura. Tutti i più grandi deontologi, che trattarono dei doveri e diritti dei medici, a cominciare dall’epoca della stampa (molte opere dell’Antichità classica sul tema andarono perdute), cioè da Argen[p. 266 modifica]terio e Brassavola di Padova nel sec. XVI, da Tommaso Brown nel XVII, da Gagliardi, Ettmüller e De La Mettrie nel XVIII, ad Hufeland, Scoutetten, Littré, Peisse, Max Simon, Dechambre, G. Surbled nel XIX (il XX secolo se n’occupa, a dir vero, assai poco!), tutti senza distinzione, in maniera più o meno aperta, hanno escluso che il medico possa in qualsiasi modo alimentare nei propri ammalati l’idea del suicidio; e ciò anche quando la Medicina non aveva i mezzi che ora possiede per togliere il dolore. Sydenham alzava un inno all’oppio, come al gran mezzo che permetteva all’uomo di combattere i patimenti inflittigli dalle forze naturali. Pagine eloquenti io ricordavo di aver letto in un bel libro del dottissimo Dechambre, che fu un medico ed uno scienziato di alto valore e che sentiva tutta la dignità della nostra professione. L’ho ripreso ora in mano, dopo quarant’anni, e ne riporto le parole, ben sapendo che non saprei dir meglio:

“[Nel caso che il malato sappia della incurabilità del suo male] l’azione del medico può ancora esercitarsi con vantaggio sul morale... Lo stoicismo, che ha fatto i Catoni, i Seneca, i Marco Aurelio..., ha ancora dei rimedi efficaci contro le sofferenze irrimediabili; in mancanza della consolazione, ha l’abnegazione, il sacrifizio di sè stessi. Questo sacrifizio, gli stoici d’una volta; lo spingevano fino al suicidio; e oggi il pensiero di questo ultimo rifugio sorge ancora in certi clienti. [p. 267 modifica]Quando lo scopra, quando soltanto lo sospetti, il medico ha il dovere di combatterlo. Se il suicidio è un atto di libertà perchè doma il corpo, dipende anche da una servitù in quanto è una capitolazione davanti al soffrire: esiste inoltre il principio dell’inviolabilità della vita umana, conquista della Civiltà, che nessuno può rinnegare. Queste sono verità che ogni medico può avere occasione di utilizzare. Ciò vuol dire che mancano alla loro missione quei medici che abusando delle agevolezze della professione, procurano del veleno ai loro clienti, come fu veduto in circostanze memorabili. Che non ci si meravigli dunque di apprendere che tale mansione ci è tuttora domandata abbastanza spesso, con una ostinazione, con una perseveranza che mettono a dura prova la coscienza del medico. Anzi, vi son persone sane che vogliono essere munite di mezzi di suicidio per il giorno in cui dovessero cadere in malattie dolorose o irrimediabili.

“Se vi son malati che si posson sostenere svegliandone la energia di carattere, altri ve n’ha che è meglio attaccare per la via del sentimento. Così la religione può diventare, sull’iniziativa del medico, un mezzo di sollievo; giacchè non bisogna dimenticare che qualsiasi rimedio valga ad alleviare, entra negli obblighi dell’uomo dell’Arte... Prescindendo dalle dottrine filosofiche o dalla religione, la voce del sentimento ha più maniere di farsi intendere. Un’anima elevata com[p. 268 modifica]prenderà qual piccolo incidente sia la sua miseria particolare nell’immenso, desolante spettacolo delle miserie umane; e come siano ben più da compiangere coloro la cui malattia abbia per corteo la fame, il freddo, le privazioni, la solitudine. Se il cliente è ricco, quello è il momento per fare appello alla sua generosità... Ma per la grande maggioranza degli ammalati, il mezzo più sicuro per smuovere i loro buoni sentimenti, è di dimostrar loro la più affettuosa devozione; sono le cure onde li si circonda; sarà l’assenza visibile di ogni ripugnanza per gli orrori della loro infermità...

“Così, come appare giusto, doppiamente giusto [oggi diremmo umano] il precetto anti-ippocratico di Hufeland e di Max Simon, i quali insistono sul dovere del medico di non abbandonar mai il capezzale di nessun infermo col pretesto della sua incurabilità!... Non v’è oggi affezione incurabile in cui non si possa congiungere all’efficacia dell’azione morale, ora suggestionatrice ed ora riconfortatrice, quella più diretta e sicura d’alcuni agenti terapeutici contro il dolore; numerosi analgesici e la siringa del Pravaz sono risorse quasi inesauribili„.

Non è inopportuno, poichè ho già citato un’opera del Maeterlinck in cui domina il pensiero dell’Oltre la Morte, concludere con uno spunto filosofico. [p. 269 modifica]

Ogni pensatore o studioso positivista ammette senza contestazione, sulla triplice base dei dati biologici, psicologici e sociologici, che sarebbe cosa utile e bella per l’Umanità che o la Morte ci raggiungesse silenziosa ed indolora, improvvisa ed incosciente, o che ciascuno di noi vi andasse incontro con animo sereno e preparato, colla rassegnazione all’Inesorabile, come vi andarono in tutti i tempi i martiri dell’Idea, gli eroi del Patriottismo, le vittime delle Religioni e delle Tirannidi. Sì: la calma considerazione della Morte è una nobilitazione dell’anima umana; gli Antichi ce ne lasciarono esempi memorabili. Il suicidio cresce nella Società moderna, non già perchè si consideri la Morte con occhio più sereno, ma perchè non ci riesce più di sopportare il Dolore; il che mostra una sensibilità esagerata, un sentimentalismo a base egoistica. Educhiamoci al rispetto della Natura, cominciando dal riconoscere questo fatto universale: che ogni creatura è una porzioncella dell’Essere, e che chi riceve vita od ha vissuto deve ritornare al Tutto da cui deriva. La filosofia stoica non aveva il terrore della morte: “Obbedisci, così lasciava scritto Marco Aurelio, alla Natura; essa ha creato il vincolo, dessa lo romperà. Il vincolo sta per rompersi? Ebbene: sii calmo, prendi congedo come quando si lasciano gli amici, ma senza lacerazione del tuo cuore, senza aver bisogno che ti si solleciti a morire„.

È curioso che l’eutanasia procurata con [p. 270 modifica]mezzi subitanei, anche se dolci, ma sempre violentando le leggi di Natura, possa svegliare l’opposizione non solo dei credenti, ma pur degli spiritisti, occultisti, immortalisti, secondo i quali l’individuo ucciso violentemente, pur disincarnandosi, non si allontana nel suo “spirito„, nel suo “aggregato animistico„ dal luogo della tragedia, e talvolta vi ritorna come un “fantasma„ o vi si fa sentire con rumori, spostamenti di oggetti, sassaiole (case infestate, “dove ci si sente„, per dirla popolarescamente). Questi “disincarnati„ sarebbero dunque dei disgraziati tenuti quaggiù nelle basse sfere dell’Occulto, non si sa mai per quanto tempo: in alcuni casi le “apparizioni„ e le “infestazioni„ durano per secoli, come si crede avvenga delle tante “Dame Bianche„ premonitrici di disastri alle Case regnanti (Hohenzollern, Danimarca, ecc.). Ci pensino gli eutanatisti prima di lanciare con violenza uno “spirito„ nelle Tenebre eterne! E dico questo in vista del momento storico in cui viviamo; da molti anni, forse pel dissolversi delle vecchie credenze, lo Spiritismo col suo dogma della sopravvivenza personale viene assumendo in molte anime la profondità e la forza di una vera fede religiosa, che, prescindendo dalle “prove„ futili ed ingannevoli sulle quali in generale si fonda, merita rispetto come ogni altra forma di sentimentalità umana.

Perciò, finchè sussisterà un problema dell’Al di Là, finchè ci resterà ignoto (e sarà [p. 271 modifica]forse per sempre, checchè pensi Oliviero Lodge) quello che ci aspetta oltre al varco supremo, l’Uomo non guarderà mai freddamente la morte come un semplice passaggio dalla veglia al sonno, nè il dopo-morte come uno stato simile al sonno. Il Sonno eterno, coi terrori che da immemorabili secoli sveglia in tutti i viventi, con le credenze cui ha dato origine e che la massima parte delle religioni ci ha profondamente radicato nell’animo, non può nè deve essere anticipato dalla volontà nostra od altrui neanco di un solo attimo; e pur quando la volontà dell’individuo ce lo domandi, non saremmo mai certi che giunto l’estremo attimo la sua indifferenza persisterà o non verrà sostituita da reazioni emotive che non vediamo. Io sono con Bouquet: non si ha il diritto di lanciare una vita verso la morte dal momento che nè Filosofia nè Scienza sanno ciò che esiste nell’Oltre-vita.

Non credo che il mio atteggiamento in faccia a questo Enigma sia sospettabile di serotine incertezze: ho tante volte recitato il mio “credo„, che nessuno oserà dubitare delle mie convinzioni. Ma qui non scrivo nè opino per me: scrivo per una collezione, dove si debbono rispettare le opinioni di tutti i suoi lettori. È vero che la Medicina — la “Scienza„, come si dice dalla gente — rende in generale i medici e specialmente gli alienisti (non tutti intanto!) abbastanza scettici sul dogma spiritualistico della sopravvivenza, poichè il concetto che con la morte tutto ciò [p. 272 modifica]che è in noi di “personale„ si dissolva nel gran Tutto (che alcuni denominano erroneamente il Nulla!) scaturisce quasi per logica irresistibile dai postulati psico-fisici. Ma questo atteggiamento mentale del ceto medico, che ha figurato per anni ed anni nella letteratura, nell’arte e nella opinione popolare come un “materialismo„, laddove è soltanto, almeno nei più colti di noi, la consapevolezza del relativismo della Scienza, non conduce alla indifferenza verso le credenze altrui, tanto meno a disprezzarle e ad offenderle.

Diciamo invece che i medici sono fra gli intellettuali la classe più propensa alle indulgenze verso i difetti, gli errori e i pregiudizi, perciò la più rispettosa degli altrui diritti sentimentali. Ben più di qualsiasi idealista fanatico, noi sappiamo riverire la Morte poichè le stiamo dinanzi quasi ad ogni momento, e scorgendovi la fatalità dell’umano destino, presentiamo pure il gelo terribile delle sue tenebre sempiterne. Ecco perchè dobbiamo assolutamente rifiutarci a spingervi i nostri simili, siano pur grandi le loro sofferenze, sia pure imminente nell’agonia il loro irrevocabile passaggio, sia pure miserabile e ignobile, indecorosa od inutile, la loro esistenza.