L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo III

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO III.


La partenza — La marea crescente — Olmi e loti — Piante diverse — Il jacamar — Aspetto della foresta — Gli eucalyptus giganteschi — Perchè vengono chiamati «alberi della febbre» — Frotte di scimie — Attendamento per la notte.

Il domani, 30 ottobre, tutti erano pronti per la disegnata esplorazione che gli ultimi avvenimenti rendevano urgentissima. In fatti le cose erano andate in guisa che i coloni dell’isola Lincoln potevano immaginare di non esser più ridotti a domandare soccorsi, ma in grado di darne.

Fu dunque convenuto di risalire la Grazia fin dove la corrente del fiume fosse praticabile. A questo modo una gran parte della via dovevasi fare senza fatica, e gli esploratori potrebbero trasportare le loro provviste e le loro armi fino ad un punto avanzato nell’ovest dell’isola.

Era stato necessario, infatti, pensare non solo agli oggetti che essi portavano, ma eziandio a quelli che il caso avesse a permettere di riportare al Palazzo di Granito. Se vi era stato un naufragio sulla costa, come tutto dava a credere, non sarebbero mancati i rottami, e dovevano essere di buona preda. In tale previsione il carro sarebbe senza dubbio convenuto meglio della fragile piroga; ma era pesante e massiccio e doveva essere tirato con gran fatica; ciò indusse Pencroff ad esprimere il rammarico che la cassa non avesse contenuto, insieme colla sua mezza libbra di tabacco, un paio di quei robusti cavalli di New Jersey che sarebbero stati utilissimi alla colonia.

Le provvigioni già imbarcate da Nab si componevano di conserve, di carne e di alcuni galloni di [p. 28 modifica]birra e di liquori fermentati: vale a dire il tanto da sostentarsi per tre giorni: il massimo tempo che Cyrus Smith assegnava all’esplorazione. D’altra parte si faceva conto di rinnovare le provviste per via all’occorrenza, e Nab non dimenticò il fornelletto portatile.

In fatto d’utensili i coloni presero le due accette da legnajuolo, che dovevano servire ad aprire un sentiero nella fitta foresta, e in fatto d’istrumenti il cannocchiale e la bussola da tasca.

Per armi si scelsero i due fucili a pietra, più utili in quell’isola che non fossero i fucili a percussione, per ciò che non adoperavano altro che il silice, facile a sostituire, mentre gli altri richiedevano le capsule fulminanti, che si dovevano consumare assai presto coll’uso.

Nondimeno fu pure presa una delle carabine e qualche cartuccia. Quanto alla polvere, di cui i barili contenevano circa cinquanta libbre, bisogno pur portarne una certa provvista; ma l’ingegnere faceva conto di fabbricare una sostanza esplosiva che permettesse di farne economia.

Alle armi da fuoco si aggiunsero i cinque coltellacci colla guaina di cuojo; in queste condizioni i coloni potevano arrischiarsi in quell’ampia foresta con probabilità di cavarsi d’impaccio.

È inutile aggiungere che Pencroff, Harbert e Nab erano al colmo dei loro voti, benchè Cyrus Smith avesse fatto prometter loro di non sparare una schioppettata senza necessità. Alle sei del mattino la piroga era spinta in mare. S’imbarcarono tutti, compreso Top, e si diressero verso la foce della Grazia.

La marea saliva solo da mezz’ora. Vi eran dunque alcune ore di flusso, di cui bisognava trarre partito, perchè più tardi il riflusso dovea rendere difficile il risalire il fiume.

Il flusso era già forte, perchè la luna doveva essere [p. 29 modifica]piena tre giorni dopo, e la piroga, che bisognava mantenere nella corrente, camminò lesta fra le due rive senza che fosse necessario aumentare la velocità coll’aiuto dei remi. In pochi minuti gli esploratori erano giunti al gomito formato dalla Grazia, e precisamente all’angolo in cui sette mesi prima Pencroff aveva costrutto il suo primo traino di legno. Dopo quell’angolo acuto, il fiume incurvandosi volgeva a sud-ovest ed il suo corso si sviluppava sotto l’ombra di grandi conifere perennemente verdi.

Magnifico era l’aspetto delle ripe della Grazia. Cyrus Smith ed i suoi compagni non potevano che ammirare senza riserva i vaghi effetti che la natura ottiene facilmente coll’acqua e cogli alberi. Man mano che s’innoltravano, si modificavano le essenze forestiere: sulla riva destra del fiume si schieravano magnifici campioni delle olmacee, quei preziosi olmi tanto ricercati dai costruttori e che hanno la proprietà di conservarsi lungamente nell’acqua. Poi erano numerosi gruppi appartenenti alla medesima famiglia, e fra gli altri si vedevano loti la cui mandorla produce un olio utilissimo. Più oltre Harbert notò alcune lardizabalate, i cui rami flessibili macerati nell’acqua forniscono eccellenti cordami, e due o tre tronchi di ebanacee che presentano un bel colore nero intersecato da vene capricciose. Ogni tanto, nei luoghi in cui era facile approdare, il canotto s’arrestava. Allora Gedeone Spilett, Harbert e Pencroff, col fucile in mano, preceduti da Top, battevano la spiaggia. Senza contare la selvaggina, potevano incontrarsi alcune piante utili che non bisognava punto sdegnare, ed il giovane naturalista fu servito secondo i propri desiderî, perchè scoprì una specie di spinacci selvatici della famiglia delle chenopodee, e molte famiglie di crocifere appartenenti al genere cavolo, che doveva certo essere facile ad incivilire col trapiantamento. Erano crescione, ravanelli, rape ed infine [p. 30 modifica]piccoli steli ramosi coperti di lieve peluria, alti un metro, che producevano grani quasi bruni.

— Sai tu che pianta è questa? domandò Harbert al marinajo.

— Tabacco! esclamò Pencroff, che evidentemente non aveva mai visto la sua pianta prediletta se non nel fornello della pipa.

— No, Pencroff, non è tabacco, è senape.

— E sia pure senape, ma se per caso si presentasse una pianta di tabacco, giovinetto mio, non sdegnarla.

— Ne troveremo un giorno o l’altro, disse Gedeone Spilett.

— Davvero! Ebbene, in quel giorno io non so davvero che cosa mancherà alla nostra isola.

Quelle diverse piante, che erano state sradicate con cura, furono trasportate nella piroga che Cyrus Smith, sempre assorto nelle proprie riflessioni non lasciava un istante.

Il reporter, Harbert e Pencroff sbarcarono così molte volte, ora sulla riva destra ora sulla mancina, la quale era meno scoscesa ed insieme meno boschiva. L’ingegnere potè accertarsi, consultando la sua bussola da tasca, che la direzione del fiume, dal primo gomito, era sud-ovest e nord-est e quasi rettilinea per una lunghezza di tre miglia circa. Ma era da supporre che quella direzione si modificasse più lungi e che la Grazia risalisse a nord-ovest verso i contrafforti del monte Franklin, che dovevano alimentarla colle loro acque. In una di quelle escursioni, Gedeone Spilett riuscì a impadronirsi di due coppie di gallinacei viventi. Erano volatili a becco lungo e delicato, dal collo pure lungo, dalle ali corte e senza coda apparente. Harbert diede loro con ragione il nome di critturi, e fu risoluto di far di essi i primi ospiti del futuro cortile.

Finora i fucili non avevano detta la loro, ed il [p. 31 modifica]primo sparo che echeggiò in quella foresta del Far-West fu provocato dall’apparizione d’un vago uccello che assomigliava ad un martin pescatore.

— Lo riconosco, esclamò Pencroff, e si può dire che il colpo partì suo malgrado!

— Che cosa riconosci? domandò il reporter.

— Il volatile che ci è sfuggito nella nostra prima escursione e del quale abbiamo dato il nome a questa parte della foresta.

— Un jacamar! esclamò Harbert.

Era infatti un jacamar, bell’uccello le cui piume ruvide hanno un riflesso metallico. Alcuni pallini lo avevano atterrato. Top lo trasse al canotto insieme con una dozzina di turacos-loris, specie d’arrampicanti grossi come un colombo, tutti chiazzati di verde, con una parte delle ali color cremisi e un ciuffo dritto a festoni bianchi. Al giovane toccò l’onore di quel bel colpo di fucile, ed egli se ne mostrò fiero. I loris erano una selvaggina migliore del jacamar, la cui carne è un po’ coriacea; ma difficilmente si sarebbe fatto credere a Pencroff che egli non avesse ucciso il re dei volatili commestibili.

Erano le dieci del mattino, quando la piroga giunse ad un secondo gomito, a cinque miglia circa dalla foce. Si fece colà una fermata per far colazione, fermata all’ombra de’ begli alberi che durò circa una mezz’ora.

Il fiume aveva ancora da cinquanta a sessanta piedi di larghezza ed il suo letto cinque o sei piedi di profondità. L’ingegnere aveva osservato che molti affluenti ne affrettavano il corso, ma non erano che semplici rigagnoli non adatti alla navigazione. Quanto alla foresta, così col nome di bosco di Jacamar, come con quello di foresta del Far-West, si stendeva fino dove giungeva l’occhio.

In nessun luogo, nè sotto gli alberi, nè sotto gli arboscelli degli argini della Grazia, si scorgeva la [p. 32 modifica]presenza dell’uomo. Gli esploratori non poterono trovare alcuna traccia, ed era evidente che non mai l’accetta del boscajuolo aveva intaccato gli alberi, nè il coltello reciso le liane tese da un ramo all’altro, in mezzo ai fitti cespugli ed alle lunghe erbe. Se qualche naufrago aveva approdato nell’isola, certo non avea lasciato ancora il litorale; perciò non era già sotto quella fitta vôlta che bisognava cercare i superstiti del presunto naufragio.

L’ingegnere mostrava una certa fretta di giungere alla costa occidentale, distante, a suo credere, cinque miglia almeno.

Fu dunque ripresa la navigazione, e sebbene per la sua naturale direzione la Grazia sembrasse correre verso il monte Franklin, fu deciso di servirsi della piroga fino a tanto che si trovasse acqua sufficiente per galleggiare. Erano insieme molte fatiche risparmiate e tempo guadagnato, perchè sarebbe stato necessario aprirsi la strada coll’accetta attraverso i fitti cespugli. Ma in breve il flusso venne a mancare, sia che la marea calasse — e doveva in fatti calare a quell’ora — sia che non si facesse più sentire a quella distanza dalla foce della Grazia; bisognò dunque adoperare i remi. Nab ed Harbert si posero sulla loro panca, Pencroff al timone, e si continuò a risalire il corso del fiume.

Pareva allora che la foresta tendesse a diradarsi dalla parte del Far-West. Gli alberi vi erano meno affollati e spesso si mostravano solitarî. Ma per ciò appunto che si trovavano più al largo, profittavano più ampiamente di quell’aere libero e puro che circolava intorno ad essi, ed erano magnifici. Oh! gli splendidi campioni della flora di quella latitudine! Certo ad un botanico sarebbe bastata la loro presenza per fargli determinare senza esitazione, il parallelo che attraversava l’isola Lincoln!

— Ve’! gli eucalyptus! aveva esclamato Harbert. [p. 33 modifica]

Erano infatti questi superbi vegetali, gli ultimi giganti della zona extra-tropicale, i congeneri di quegli eucalyptus dell’Australia e della Nuova Zelanda, situati entrambi nella medesima latitudine dell’isola Lincoln. Alcuni s’ergevano all’altezza di dugento piedi. Il loro tronco misurava venti piedi di circuito alla base, e la loro corteccia solcata dalle reti d’una resina profumata, aveva fino cinque pollici di grossezza. Nulla di più maraviglioso e di più bizzarro di quegli enormi campioni della famiglia delle mirtacee, il cui fogliame si presentava di profilo alla luce e lasciava giungere fino a terra i raggi del sole. Ai piedi di quegli eucalyptus un’erba fresca tappezzava il suolo, e dalle zolle spiccavano il volo stormi di uccelletti che splendevano ai raggi luminosi a guisa di carbonchi alati.

— Questi sono alberi! esclamò Nab; servono essi a qualche cosa?

— Peuh, peuh! rispose Pencroff, deve accadere dei vegetali giganteschi come degli uomini giganti, che non servono se non ad esser mostrati nelle fiere.

— Credo che vi sbagliate, Pencroff, rispose Gedeone Spilett, e che il legno degli eucalyptus cominci ad esser usato con profitto nell’ebanisteria.

— Aggiungete, disse il giovinetto, che questi eucalyptus appartengono ad una famiglia che contiene molti membri utili: il guajavo che dà le guajave! il garofano che dà i chiodi di garofano; il melagrano che dà le melagrane; l’eugenia cauliflora, i cui frutti servono a fabbricare un vinello; il mirto, ugni, che contiene un eccellente liquore alcoolico; il mirto carjophillus, la cui corteccia forma una cannella stimata; eugenia pimenta da cui proviene il pimento della Giamaica; il mirto comune, le cui bacche possono sostituire il pepe; l’eucalyptus robusta che produce una manna eccellente; l’eucalyptus Guney, la cui corteccia si trasforma in birra per la fermentazione; infine tutti quegli alberi conosciuti col nome [p. 34 modifica]di “alberi della vita o alberi di ferro” appartenenti a questa famiglia delle mirtacee, che contiene quarantasei generi o milletrecento specie.

Si lasciava dire il giovinetto, il quale pronunziava con molta foga la sua lezioncina di botanica. Cyrus Smith l’ascoltava sorridendo, e Pencroff con un sentimento di tenerezza intraducibile.

— Sta bene, Harbert, disse, ma io oso giurare che non tutti i campioni utili che hai citati sono giganti come questo.

— È vero, Pencroff.

— Dunque è vero quanto ho detto, disse allora il marinajo, e cioè che i giganti non sono buoni a nulla.

— E qui sta il vostro errore, aggiunse l’ingegnere, perchè questi giganteschi eucalyptus servono a qualche cosa.

— Ed a che?

— A rendere salubre l’aria. Sapete come vengono chiamati alla Nuova Zelanda?

— No, signor Cyrus.

— Alberi della febbre.

— E perchè, perchè la danno?

— No, perchè la impediscono.

— Sta bene; ne piglierò nota, disse il reporter.

— Prendetene pure nota, perchè pare provato che la presenza degli eucalyptus serve a correggere i miasmi delle paludi. Si fece esperimento di questo preservativo naturale in certe regioni del mezzodì dell’Europa e del nord dell’Africa, il cui terreno era estremamente malsano, e si vide lo stato sanitario dei loro abitanti migliorare a poco a poco. Non vi hanno febbri intermittenti nelle regioni vicine alle foreste di queste mirtacee. Il fatto è oramai fuor di dubbio, ed è una fortunata combinazione per noi altri coloni dell’isola Lincoln.

— Ah! che isola, che isola benedetta! esclamò Pencroff; ve lo dico io, non ci manca nulla... tranne.... [p. 35 modifica]

— Verrà anche questo, Pencroff, rispose l’ingegnere; ma ripigliamo la nostra navigazione e spingiamoci fin dove il fiume potrà portare la nostra piroga.

Proseguirono adunque l’esplorazione per due miglia almeno, in mezzo ad una regione coperta di eucalyptus che dominavano tutti i boschi di quella porzione dell’isola. Lo spazio che essi coprivano si stendeva oltre i confini dello sguardo da ogni parte della Grazia, il cui letto sinuoso si scavava allora fra alti argini verdeggianti. Quel letto era spesso ostruito da altre erbe ed anche da roccie acute che rendevano difficile la navigazione. L’uffizio dei remi ne era incagliato, e Pencroff dovette spingersi innanzi con una pertica. Si sentiva pure che il fondo saliva a poco a poco e che non era lontano il momento in cui il canotto per mancanza d’acqua sarebbe obbligato ad arrestarsi. Già il sole declinava all’orizzonte e gettava sul suolo le ombre smisurate degli alberi. Cyrus Smith, vedendo di non poter giungere in quella giornata alla costa occidentale dell’isola, risolvette di attendarsi colà dove, per mancanza d’acqua, la navigazione fosse necessariamente interrotta.

Egli credeva d’essere a cinque o sei miglia dalla costa: troppo grande era questa distanza, nè egli tento di superarla durante la notte, in mezzo a quei boschi sconosciuti. Il battello fu dunque spinto senza indugio attraverso la foresta, che poco alla volta si rifaceva più fitta e sembrava anch’essa abitata; perocchè, se gli occhi del marinajo non l’ingannavano, egli credeva di scorgere frotte di scimmie che correvano sotto i boschetti. Talvolta anzi due o tre di codesti animali s’arrestavano a qualche distanza dal canotto e guardavano i coloni senza manifestare alcun terrore, come se, vedendo gli uomini per la prima volta, ancora non avessero imparato a temerli.

Sarebbe stata facile cosa atterrare quei quadrumani a schioppettate, ma Cyrus Smith si oppose a [p. 36 modifica]tale strage inutile che tentava alquanto l’arrabbiato Pencroff. D’altra parte, ciò pure consigliava la prudenza, perocchè codeste scimmie robuste ed agilissime potevano essere formidabili, e meglio era non aizzarle con una aggressione assolutamente inopportuna.

Vero è che il marinajo considerava la scimmia dal lato puramente alimentare; ed in fatti codesti animali, che sono erbivori, riescono un cibo squisito; ma siccome le provviste abbondavano, era inutile consumare le munizioni.

Verso le quattro la navigazione della Grazia divenne difficilissima, perchè il suo corso era ostruito da piante acquatiche e da scogli; gli argini s’elevavano sempre più, e già il letto del fiume si avvallava fra i primi contrafforti del monte Franklin. Le sue sorgenti non potevano dunque essere lontane, giacchè si alimentavano di tutte le acque delle falde meridionali della montagna.

— Fra un quarto d’ora, disse il marinajo, saremo costretti a fermarci, signor Cyrus.

— Ebbene, ci fermeremo, Pencroff, ed allestiremo un attendamento per la notte.

— A qual distanza possiamo essere dal Palazzo di Granito?

— A sette miglia circa, rispose l’ingegnere, non tenendo conto delle giravolte del fiume che ci hanno portato a nord-ovest.

— Continuiamo ad andare innanzi? domandò il reporter.

— Sì, e finchè potremo farlo, rispose Cyrus Smith; domani all’alba abbandoneremo il canotto, percorreremo in due ore, spero, la distanza che ci separa dalla costa, e avremo quasi tutta la giornata per esplorare il litorale.

— Avanti! rispose Pencroff.

Ma poco dopo la piroga toccò il fondo petroso del [p. 37 modifica]rivo, la cui larghezza allora non passava i venti piedi. Una fitta volta di verdura s’incurvava sopra il suo letto, avvolgendolo in una penombra. S’udiva pure il rumore abbastanza distinto d’una cascata d’acqua che indicava ad un centinajo di passi più su la presenza d’un ostacolo naturale. E di fatto ad un’ultima gira volta del fiume apparve attraverso gli alberi una cascata. Il canotto toccò il fondo del letto, ed alcuni istanti dopo era ormeggiato ad un tronco presso la riva destra.

Erano le cinque all’incirca e gli ultimi raggi del sole, passando sotto il fitto fogliame, percotevano di sbieco la cascatella, il cui umido polverio splendeva dei colori dell’iride. Più oltre il letto della Grazia spariva sotto il bosco, dove si alimentava in qualche nascosta sorgente. I diversi rigagnoli che affluivano lungo il suo corso ne facevano più giù un vero fiume; ma allora non era più se non un ruscello limpido senza profondità.

Si posero le tende in quel luogo medesimo, ch’era delizioso; i coloni sbarcarono, e fu acceso un fuoco sotto un gruppo di larghi perlari, fra i rami dei quali Cyrus Smith ed i suoi compagni potevano al bisogno trovare un ricovero per la notte. La cena fu presto divorata, perchè si aveva fame, e più non si trattò che di dormire. Ma essendosi verso il tramonto uditi alcuni ruggiti di natura sospetta, fu alimentato il focolare per la notte in guisa da proteggere i dormienti; Nab e Pencroff vegliarono insieme, dandosi il cambio, e non risparmiarono il combustibile.

Forse non s’ingannarono quando credettero di vedere alcune ombre di animali vagare nei dintorni sotto il bosco o fra i rami; ma passò la notte senza accidenti, ed il domani, 31 ottobre, alle cinque del mattino, erano tutti in piedi pronti a partire.