L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo VII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO VII.


Nab non è ancora di ritorno — Le riflessioni del reporter — La cena — Una cattiva notte che si prepara — La tempesta è formidabile — Si parte di notte — Lotta contro la pioggia ed il vento. — Ad otto miglia dal primo accampamento.

Gedeone Spilett immobile, colle braccia incrociate, era allora sulla spiaggia guardando al mare, il cui orizzonte si confondeva all’est con una grossa nuvola nera che saliva rapidamente verso lo zenit. Il vento era più forte e cresceva col declinare del giorno. Il cielo aveva un sinistro aspetto e si facevan manifesti i sintomi di un uragano.

Harbert entrò nei Camini, e Pencroff si diresse incontro al reporter, il quale, tutto assorto, non lo vide venire.

— Avremo una cattiva notte, signor Spilett, disse il marinajo; pioggia e vento da far allegria alle procellarie 1.

Il reporter voltandosi vide Pencroff, e le sue prime parole furono queste: [p. 62 modifica]

— A qual distanza dalla costa la navicella ha, secondo voi, ricevuto il colpo di mare che portò via il nostro compagno?

Il marinajo non s’aspettava questa domanda; penso un istante, e rispose:

— A due gomene al più.

— Ma che cosa è una gomena? domandò Gedeone Spilett.

— Centoventi braccia circa, e seicento piedi.

— Dunque, disse il reporter, Cyrus Smith sarebbe scomparso a mille e dugento piedi al di più dalla spiaggia?

— Circa, rispose Pencroff.

— Ed il suo cane anch’esso?

— Anch’esso.

— Mi meraviglia, aggiunse il reporter, che ammettendo che il nostro compagno sia perito, e anche Top abbia trovato la morte, nè il corpo del cane nè quello del suo padrone siano stati buttati alla spiaggia.

— Non v’è da meravigliarsi con un mare tanto grosso; e poi può darsi che le correnti li abbiano portati più lungi sulla costa.

— Dunque è proprio il vostro avviso che il nostro compagno sia perito nelle onde? domandò ancora una volta il reporter.

— È il mio avviso.

— Ed il mio, disse Gedeone Spilett, salvo ciò che devo alla vostra esperienza, è che il doppio fatto della scomparsa assoluta di Cyrus e di Top, vivi o morti, ha qualche cosa di inesplicabile e d’inverosimile.

— Io vorrei pensare come voi, signor Spilett, rispose Pencroff. Disgraziamente, oramai sono convinto.

Ciò detto il marinajo tornò ai Camini. Un buon fuoco scoppiettava nel focolare; Harbert vi aveva gettato un fastello di legna secca e la fiamma man dava bagliori ad illuminare le parti tenebrose del corridojo. [p. 63 modifica]

Pencroff s’occupò subito ad allestire il desinare, parendogli conveniente di introdurre nell’ordinario qualche cibo sostanzioso, poichè tutti avevano bisogno di rimettersi in forze; lasciati per il domani i curucù, vennero spennati due tetras, schidionati in una bacchetta e messi ad arrostire innanzi alle brage.

Alle sette pomeridiane Nab non era ancora di ritorno; quell’assenza prolungata doveva inquietare Pencroff riguardo al negro; egli doveva temere gli fosse toccato qualche accidente su quella incognita terra, o che il disgraziato avesse fatto qualche colpo di disperazione. Ma Harbert argomento di quell’assenza in maniera affatto diversa; per lui se Nab non tornava era segno che una nuova circostanza lo aveva indotto a prolungare le ricerche. Ora non vi poteva essere nulla di nuovo se non in vantaggio di Cyrus Smith. Perchè Nab non era rientrato, se una speranza qualsiasi non lo tratteneva? Forse egli aveva trovato qualche indizio, un’impronta di passi o qual che reliquia che l’aveva posto sulle traccie, o forse anche seguiva una pesca certa, o forse era vicino al suo padrone....

Così ragionava il giovinetto, e così parlò. I suoi compagni lo lasciarono dire, il solo reporter lo approvava col gesto. Quanto a Pencroff, egli non vedeva null’altro di probabile se non questo: che Nab avesse spinto più lontano della vigilia le sue ricerche sul litorale che perciò non potesse essere ancora di ritorno.

Peraltro Harbert, agitato da vaghi presentimenti, manifestò più volte l’intenzione di muovere incontro a Nab; ma Pencroff gli fece comprendere che quella sarebbe cosa inutile, che nell’oscurità e col tempo orribile che faceva non si potrebbero trovare le traccie di Nab, e che meglio era aspettare. Se al domani Nab non fosse tornato, Pencroff non esiterebbe ad unirsi ad Harbert per andar in cerca di Nab. [p. 64 modifica]

Gedeone Spilett approvò l’opinione del marinajo per questo rispetto, che non bisognava dividersi: Harbert dovette rinunciare al proprio disegno, ma due grosse lagrime gli caddero dal ciglio. Il reporter non potè trattenersi dall’abbracciare il generoso fanciullo. Il cattivo tempo si era assolutamente manifestato; soffiava sulla costa un vento di sud-est con una violenza senza l’eguale, e s’intendeva il mare, che allora si abbassava, muggire contro la prima linea di scogliere al largo del litorale. La pioggia, ridotta dall’uragano ad un polverio, si levava come una bruma liquida: parevano cenci di vapori che si trascinassero sulla costa, i cui ciottoli rombavano violentemente col rumore di carrette di sassi che si vuotassero. La sabbia sollevata dal vento si mesceva alla pioggia e ne rendeva l’impeto irresistibile. Vi era nell’aria tanta polvere minerale quanta ve n’era di acqua. Fra la foce del fiume e la falda della muraglia turbinavano ampi gorghi, e gli strati d’aria che sfuggivano da quel maëlstrom, non trovando al tra uscita fuorchè la stretta valle in fondo a cui si sollevava il corso d’acqua, vi si inabissavano con irresistibile violenza. Il fumo del focolare, respinto per lo stretto condotto, empiva i corridoj e li rendeva inabitabili.

Perciò non appena i tetras furono cotti, Pencroff lasciò spegnere il fuoco e non conservò se non alcune brage sotto la cenere.

Alle otto Nab non era ancora riapparso; ma si poteva ammettere oramai che solo quell’orribile tempo lo avesse trattenuto e che egli avesse dovuto cercare rifugio in qualche cavo per aspettare la fine della tormenta od almeno il ritorno dell’alba. Quanto ad andargli incontro, ed a tentare di ritrovarlo in tale condizione, gli era impossibile.

La selvaggina formò l’unico piatto della cena.

Si mangiò volentieri di quella carne squisita. Pen[p. 65 modifica]croff ed Harbert, cui la lunga escursione aveva cresciuto l’appetito, divorarono.

Poi ciascuno si ritrasse nel cantuccio in cui aveva già riposato la notte precedente, ed Harbert non tardò ad addormentarsi accanto al marinajo che s’era sdrajato lungo il focolare. Al di fuori, colla notte che si avanzava, la tempesta prendeva formidabili proporzioni. Era un colpo di vento paragonabile a quello che aveva trasportati i prigionieri da Richmond sino alla terra del Pacifico. Tempeste frequenti durante l’equinozio, fecondo di catastrofi, terribili sopratutto su quel largo campo che non oppone ostacolo al loro furore! E si comprende che una spiaggia così esposta all’est, vale a dire direttamente ai colpi dell’uragano, e colpita in pieno, fosse battuta con una forza di cui non è descrizione che valga a dare un’idea.

Per buona sorte il cumulo di roccie che formava i Camini era solido. Erano enormi massi di granito, alcuni dei quali, peraltro, non abbastanza equilibrati, parevano tremare sulla loro base. Pencroff sentiva codesto, e sotto la sua mano appoggiata alle pareti correvano rapidi fremiti; ma dopo tutto egli pensava, con ragione, non esservi nulla a temere, e si teneva sicuro che il suo ricovero improvvisato non avesse a franare. Però intendeva il rumore dei sassi che si staccavano dal sommo dell’altipiano, strappati dai gorghi del vento, e cadevano sulla spiaggia; taluni rotolavano anche alla parte superiore dei Camini ed andavano in ischegge quando venivano avventati perpendicolarmente. Due volte il marinajo si risollevò e venne strisciando all’orifizio del corridojo per guardare al di fuori, ma quelle frane poco considerabili non formavano un vero pericolo, onde egli riprese il suo posto dinanzi al focolare, la cui bragia crepitava sotto la cenere.

Malgrado il furore dell’uragano, il tuonare della tormenta, Harbert dormiva profondamente. [p. 66 modifica]

Il sonno finì pure coll’impadronirsi di Pencroff, cui la vita di marinajo aveva avvezzo a tutte quelle violenze. Solo Spilett era tenuto desto dall’inquietudine. Egli si rimproverava di non aver accompagnato Nab. Si è visto come ogni speranza non lo avesse abbandonato e come i presentimenti che avevano agitato Harbert agitassero esso pure. Il suo pensiero si concentrava con Nab.

Perchè Nab non era ritornato? Si volgeva sul suo letto di sabbia quasi non badando alla lotta degli elementi; talvolta gli occhi suoi, fatti grevi dalla stanchezza, si chiudevano un istante, ma un nuovo pensiero li riapriva quasi subito.

Frattanto s’avanzava la notte, e potevano essere le due del mattino, quando Pencroff, profondamente addormentato, fu scosso vigorosamente.

— Che c’è? esclamò egli svegliandosi e ripigliando le proprie idee con quella prontezza che contraddistingue gli uomini di mare.

Il reporter era curvo sopra di lui e gli diceva:

— Ascoltate, Pencroff, ascoltate!

Il marinajo porse l’orecchio e non udì alcun rumore, fuorchè quello delle raffiche.

— È il vento, diss’egli.

— No, rispose Gedeone Spilett, mi è parso di intendere....

— Che cosa?

— I latrati d’un cane.

— Un cane! esclamò Pencroff balzando in piedi.

— Sì, dei latrati....

— Non è possibile, rispose il marinajo, e d’altra parte come mai col muggito della tempesta....

— Ecco.... ascoltate.... disse il reporter.

Pencroff ascoltò più attentamente e credette infatti in un momento di quiete d’udire latrati lontani.

— Ebbene? disse il reporter stringendo la mano del marinajo. [p. 67 modifica]

— Sì... sì..! rispose Pencroff.

— È Top! è Top! esclamò Harbert, che si era destato; e tutti e tre si slanciarono verso l’orifizio dei Camini.

Durarono molta fatica ad uscire, chè il vento li respingeva, ma finalmente vi pervennero e non poterono mantenersi in piedi se non addossandosi alle roccie; guardarono, non poterono parlare. L’oscurità era assoluta. Il mare, il cielo, la terra, si confonde vano in un’eguale intensità di tenebre. Pareva non vi fosse atomo di luce diffusa nell’atmosfera.

Per alcuni minuti il reporter ed i suoi compagni rimasero così come schiacciati dalla raffica, immollati dalla pioggia, acciecati dalla sabbia, poi intesero ancora una volta quei latrati e riconobbero che dovevano essere molto lontani. Non poteva essere che Top che così abbajava! Ma era egli solo, od accompagnato? È più probabile fosse solo, poichè ammettendo che Nab fosse con esso, Nab si sarebbe diretto in gran fretta ai Camini.

Il marinajo strinse la mano del reporter, dal quale non potea farsi intendere, in una maniera che indicava “aspettate,” poi rientrò nel corridojo.

Un istante dopo ne usciva con un fastello acceso che gettava nelle tenebre mandando fischi acuti.

A quel segnale, che si poteva credere fosse aspettato, risposero latrati più vicini, e non andò molto che un cane si gettò nel corridojo. Pencroff, Harbert e Gedeone Spilett gli vennero dietro.

Un fastello di legna secca fu gettato sui carboni ed il corridojo fu illuminato da una viva fiamma.

— È Top! esclamò Harbert.

Era Top difatto; magnifico cane anglo-normanno, che delle due razze incrociate aveva la velocità delle gambe, e la finezza dell’odorato: le due doti migliori del cane corridore.

Era il cane dell’ingegnere Cyrus Smith. [p. 68 modifica]

Ma era solo; nè il suo padrone, nè Nab lo accompagnavano.

Pure, come mai l’istinto poteva averlo guidato fino ai Camini, che non conosceva? Ciò pareva inesplicabile, sopratutto in quella nera notte e con simile tempesta. Ma, cosa ancor più singolare, Top non era stanco e nemmeno sporco di mota o di sabbia! Harbert lo aveva chiamato a sè e gli stringeva la testa tra le mani; il cane lasciava fare fregando il collo sulle mani del giovinetto.

— Se il cane è ritrovato, il padrone si ritroverà anch’esso! disse il reporter.

— Dio lo voglia! rispose Harbert. Partiamo; Top ci guiderà.

Pencroff non fece alcuna obiezione, comprendendo bene che l’arrivo di Top poteva dare una smentita alle proprie congetture.

— In cammino! diss’egli.

Ricoprì con cura i carboni del focolare, collocò alcuni pezzi di legna sotto le ceneri in modo da ritrovar fuoco al ritorno, poi preceduto dal cane, che sembrava invitarlo a venire con sommessi latrati, e seguito dal reporter e dal giovinetto, si slanciò al di fuori, dopo aver preso seco le reliquie della cena.

La tempesta era allora violentissima, nel massimo forse della sua intensità. La luna, allora nuova, e perciò in congiunzione col sole, non lasciava filtrare il menomo barlume attraverso i nugoli, onde diveniva difficile seguire una via rettilinea; il meglio era fidarsi all’istinto di Top: e così fu fatto. Il reporter ed il giovinetto camminavano dietro al cane, ed il marinajo in coda a tutti. Non fu possibile dir parola; la pioggia non cadeva abbondantissima, poichè si polverizzava al soffio dell’uragano, ma questo era terribile.

Una cosa peraltro favorì il marinajo ed i suoi due compagni, ed è che il vento soffiava dal sud-est, e [p. 69 modifica]così li spingeva alle spalle; la sabbia, che veniva avventata con impeto e che non sarebbe stata sopportabile, poteva essere tollerata a patto di non volgersi; così i viaggiatori non erano incomodati in modo da trovar imbarazzo nell’andar innanzi. Andavano soventi volte più presto che non volessero, talvolta pur precipitavano il passo per non essere rovesciati, ma un’immensa speranza raddoppiava le loro forze: questa volta non più a casaccio risalivano la spiaggia, e non ponevano neanco in dubbio che Nab avesse ritrovato il suo padrone e mandato loro il cane fedele. Ma l’ingegnere era egli vivo, ovvero Nab mandava a chiamare i suoi compagni solo per rendere gli ultimi doveri al cadavere del disgraziato Smith?

Dopo di aver sorpassato la punta dell’alta terra da cui si erano prudentemente scostati, Harbert, il reporter e Pencroff s’arrestarono per pigliar fiato. Il giro della roccia li riparava dal vento, ed essi respiravano dopo quella camminata d’un quarto d’ora che era stata meglio una corsa.

Potevano ora intendersi, rispondersi; ed avendo il giovinetto pronunciato il nome di Cyrus Smith, Top prese a latrare, quasi volendo dire che il suo padrone era salvo.

— Salvo, non è vero? ripeteva Harbert; salvo, Top?

Ed il cane latrava come per rispondere. Furon ripigliate le mosse; erano circa le due e mezzo del mattino. Il mare cominciava a salire, e spinta dal vento, la marea, che era di sizigia, minacciava d’essere fortissima. Le grandi ondate rumoreggiavano contro le scogliere e le assalivano con tanto impeto che probabilissimamente dovevano passare al di sopra dell’isolotto allora assolutamente invisibile. Quella lunga diga non copriva dunque più la spiaggia, direttamente esposta alle onde d’alto mare.

Non appena il marinajo ed i compagni si furono staccati dalla punta, il vento li percosse di nuovo [p. 70 modifica]con estremo furore; curvandosi in arco e porgendo le spalle alla raffica, camminavano frettolosi seguendo Top, che non esitava sulla direzione da prendere. Risalirono al nord, avendo a dritta un’interminabile cresta di ondate che si avventava con frastuono assordante, ed a mancina un’oscura regione di cui era impossibile veder l’aspetto, ma che si comprendeva dovesse essere relativamente piana, poichè l’uragano passava ormai sopra di essi senza avvolgerli in giro, come avveniva quando percoteva la muraglia di granito.

Alle quattro del mattino si poteva stimare di aver percorso uno spazio di ben cinque miglia; le nuvole s’erano leggermente risollevate, e più non strisciavano sul suolo. La raffica, meno umida, si propagava in correnti vivissime d’aria più asciutta e più fredda. Non abbastanza protetti dalle loro vestimenta, Pencroff, Harbert e Gedeone Spilett dovevano soffrire crudelmente, ma non emettevano un lamento. Erano determinati a seguire Top fin dove l’intelligente animale volesse condurli.

Verso le cinque incominciò a farsi giorno. Prima allo zenit, in cui i vapori erano meno densi, alcune tinte grigiastre frastagliarono gli orli delle nuvole; poco dopo, sotto una striscia opaca, una linea più luminosa disegnò più nettamente l’orizzonte del mare. La cresta delle onde apparve chiazzata di lievi bagliori fulvi, e la schiuma ridivenne bianca. Allo stesso tempo, a mancina, le parti occidentali del litorale cominciavano a disegnarsi confusamente, ma non erano e ancora se non tinte grigie su fondo nero.

Alle sei del mattino era giorno chiaro, e le nubi correvano con estrema rapidità in una zona relativamente alta. Il marinajo ed i compagni erano allora a sei miglia circa dai Camini e seguivano una spiaggia molto piana, fiancheggiata da un lembo di scogli, le cui punte soltanto emergevano allora dal mare. A mancina il paese, accidentato da alcune dune, irte [p. 71 modifica]di cardi, offriva il selvaggio aspetto d’un’ampia regione sabbiosa; il litorale era poco frastagliato e non offriva al mare altra barriera fuorchè una catena irregolare di monticelli; qua e là qualche albero piegato all’ovest, coi rami pure rivolti in quella direzione; assai più lungi, a sud-ovest, il lembo dell’ultima foresta.

In questo momento Top diede non equivoci segni di commozione; andava innanzi, tornava presso al marinajo e pareva eccitarlo ad affrettare il passo. Il cane aveva allora lasciata la spiaggia, ed obbedendo al suo mirabile istinto, senza esitazione di sorta, si era cacciato fra le dune.

Lo si seguì. Il paese era assolutamente deserto. Nessun essere vivente lo animava. Quel lembo di dune era composto di monticelli ed anche di colline capricciosamente distribuite. Era come una piccola Svizzera di sabbia, e non ci voleva meno d’un istinto prodigioso per raccapezzarvisi.

Cinque minuti dopo aver lasciata la spiaggia, il reporter ed i suoi compagni arrivarono innanzi ad una specie di cavo aperto ai piedi di un’alta duna. Quivi Top s’arresto e mandò un limpido latrato. Spilett, Harbert e Pencroff penetrarono nella grotta.

Nab era colà inginocchiato presso ad un corpo disteso sopra un letto d’erbe....

Era il corpo dell’ingegnere Cyrus Smith.

Note

  1. Uccelli di mare che amano di svolazzare in mezzo alle burrasche.