L'isola misteriosa/Parte prima/Capitolo VI
Questo testo è completo. |
◄ | Parte prima - Capitolo V | Parte prima - Capitolo VII | ► |
CAPITOLO VI.
L’inventario degli oggetti posseduti da quei naufraghi dell’aria, gettati sopra una costa che pareva disabitata, sarà fatto alla lesta.
Essi non avevano nulla, tranne gli abiti che portavano al momento della catastrofe. Pur bisogna menzionare un taccuino ed un orologio che Gedeone Spilett aveva conservato, certo sbadatamente; non un’arme, non un utensile, nemmeno un temperino. I passeggieri della navicella avevano buttato via ogni cosa per alleggerire l’aerostato.
Gli eroi immaginari di Daniele de Foe e di Wyss, al par dei Selkirk e dei Raynal naufragati a Juan Fernandez o nell’arcipelago delle Aukland, non furono mai in tanta miseria. O ricavavano grandi soccorsi dalla loro nave arenata, grano, bestiame, utensili, munizioni; oppure giungeva a costa qualche rottame che permetteva loro di provvedere ai primi bisogni della vita. Non si trovavano sulle prime assolutamente disarmati in faccia alla natura; ma qui non uno stromento qualsiasi, non un utensile: dal nulla toccherebbe loro riuscire a tutto! Fosse almeno stato con essi Cyrus Smith, avesse almeno l’ingegnere potuto mettere la sua scienza pratica, il suo spirito inventivo al loro servigio, forse ogni speranza non sarebbe stata perduta! Ma ahi! non bisognava più far conto di rivedere Cyrus Smith. I naufraghi non dovevano aspettar nulla fuorchè da sè stessi e da quella Provvidenza che mai non abbandona coloro che han fede sincera in essa.
Ma innanzi tutto dovevano essi accomodarsi in quella parte della costa, senza cercar di sapere a qual continente appartenesse; se fosse abitata, o se quel litorale altro non fosse che la spiaggia d’un’isola deserta?
Era un quesito importante da risolvere, ed al più presto, che la soluzione doveva suggerire i provvedimenti da prendersi. Peraltro, stando all’avviso di Pencroff, parve conveniente d’aspettare alcuni giorni innanzi d’intraprendere un’esplorazione. Bisognava, infatti, preparar viveri e procurarsi alimento più fortificante di quello unicamente dovuto alle uova ed ai molluschi. Gli esploratori, esposti a sopportare lunghe fatiche, senza un ricovero per riposare il capo, dovevano, prima d’ogni altra cosa, rimettersi in forze.
I Camini offrivano un bastevole ricovero temporaneamente; il fuoco era acceso, e sarebbe facile conservar le bragie; le conchiglie e le uova per ora non mancavano nelle roccie e sulla spiaggia, e certo si troverebbe modo di ammazzare qualcuno di quei colombi che volavano a centinaja sulla cresta dell’altipiano, magari a colpi di bastone od a sassate. Fors’anco gli alberi della vicina foresta fornirebbero frutti commestibili. Infine, si aveva l’acqua dolce. Fu dunque convenuto che, per alcuni giorni, si rimarrebbe ai Camini per prepararvisi ad un’esplorazione, sia sul litorale, sia nell’interno del paese.
Questo disegno conveniva in ispecial modo a Nab, ostinato nelle proprie idee e nei proprî presentimenti; egli non aveva alcuna fretta di abbandonare quella parte della costa ch’era stata teatro della catastrofe: non credeva, non voleva credere alla perdita di Cyrus Smith; no, non gli pareva possibile che un siffatto uomo avesse finito in modo tanto volgare, spazzato via da un colpo di mare, annegato nelle onde a poche centinaja di passi; fino a tanto che le ondate avessero respinto il corpo dell’ingegnere, fino a tanto che egli non avesse visto coi proprî occhi, toccato colle proprie mani il cadavere del suo padrone, non crederebbe fosse morto. Quest’idea si radicò sempre più nel suo cuore ostinato. Era forse illusione, ma illusione rispettabile, e Pencroff non volle distruggerla. Quanto a lui non vedeva più speranza: era certo che l’ingegnere fosse perito annegato, ma con Nab non era luogo a discutere. Fedele come un cane che non può lasciare il luogo in cui è caduto il padrone, costui dimostrava tanto dolore da far credere che non sopravviverebbe.
In quel mattino, 26 marzo, all’alba, Nab aveva ripreso sulla costa la direzione del nord ed era tornato là ove il mare s’era, senza dubbio, chiuso sul capo dello sventurato Smith.
La colazione di quel giorno si compose unicamente di uova di colombo e di litodomi. Harbert aveva trovato del sale deposto nel cavo delle roccie dalla evaporazione, e questa sostanza minerale venne molto opportuna. Terminato il pasto, Pencroff domandò al reporter se volesse accompagnarlo nella foresta, dove Harbert ed egli andrebbero a caccia. Ma pensandoci bene, era necessario che qualcuno rimanesse per mantenere acceso il fuoco e per il caso improbabilissimo che Nab avesse bisogno di ajuto. Onde il reporter rimase.
— A caccia, Harbert, disse il marinajo; troveremo munizioni per via e taglieremo il nostro fucile nella foresta.
Ma, al momento di partire, Harbert fece osservare che, poichè mancava l’esca, sarebbe forse prudente sostituirla con altra sostanza.
— Quale? domandò Pencroff.
— Tela abbruciata, rispose il giovinetto; essa può, al bisogno, servir d’esca.
Il marinajo trovò il consiglio molto savio; aveva solo l’inconveniente di rendere necessario il sacrificio d’un pezzo di fazzoletto; pur la cosa ne valeva la pena, ed il fazzoletto a grandi scacchi di Pencroff fu in breve ridotto in parte allo stato di cencio mezzo abbruciato. Questa materia infiammabile fu deposta nella camera centrale, in fondo ad un picciol cavo di roccie al riparo dai venti e dall’umidità.
Erano allora le nove del mattino, il tempo minacciava e la brezza soffiava da sud-est. Harbert e Pencroff girarono l’angolo dei Camini non senza aver volto lo sguardo al fumo che si levava in spirale sopra la punta d’una roccia; poi risalirono la riva sinistra della riviera.
Giunto alla foresta, Pencroff strappò al primo albero due robusti rami, che trasformò in bastoni e di cui Harbert aguzzò la punta sovra una roccia. Ah! che non avrebbe egli dato per un coltello! Poi i due cacciatori s’avanzarono nelle alte erbe seguendo l’argine; lasciato il gomito che ne rimenava il corso a sud-ovest, la riviera si restringeva a poco a poco, e le sue sponde formavano un letto coperto dalla doppia arcata degli alberi; Pencroff per non smarrirsi risolvette di seguire il corso d’acqua che doveva sempre ricondurlo al punto di partenza; ma la cosa non era già senza ostacoli; qui alberi, i cui rami flessibili si curvavano sino al livello della corrente; altrove liane o spine che bisognava spezzare a colpi di bastone. Talvolta Harbert si cacciava fra i rami rotti colla destrezza d’un gatto, e spariva nella macchia; ma Pencroff lo richiamava subito pregandolo di non allontanarsi. Frattanto il marinajo osservava attentamente la disposizione e la natura dei luoghi. Su quella riva sinistra il suolo era piano e risaliva insensibilmente verso l’interno umido, che talvolta pigliava aspetto acquitrinoso. Vi si sentiva tutta una rete sottostante di fili liquidi che per qualche sotterranea apertura dovevano mettere nella riviera. Talvolta, s’incontrava pure un rigagnolo che attraversavano a stento. L’opposta riva sembrava più accidentata, e la vallata, di cui la riviera occupava il thalweg, vi si disegnava più nettamente. La collina coperta d’alberi disposti a piani formava una cortina che mascherava lo sguardo. Su quella riva destra sarebbe stato difficile camminare, poichè i declivi s’avvallavano bruscamente e gli alberi curvati sull’acqua si mantenevano solo per la robustezza delle radici.
È inutile aggiungere che la foresta, al par della costa già percorsa, era vergine d’ogni umana impronta. Pencroff vi notò solo traccie di quadrupedi, fresche pedate di animali di cui non poteva riconoscere la specie. Certamente — e tale pure fu l’opinione di Harbert — alcune pedate appartenevano a formidabili belve colle quali si avrebbe senza dubbio a fare, ma in nessuna parte le traccie di un’accetta sul tronco d’un albero, nè reliquie di fuoco spento, nè impronta di un passo: del che era forse a rallegrarsi, poichè su quella terra, nel mezzo del Pacifico, la presenza dell’uomo sarebbe stata più a temere che a desiderare.
Harbert e Pencroff, non scambiando quasi parola, poichè le difficoltà della via erano grandi, s’avanzavano lentamente, così che, dopo un’ora di cammino, avevano appena percorso un miglio. Fino allora la caccia non aveva dato frutto; pure alcuni uccelli cantavano e svolazzavano sotto gli alberi, come se l’uomo inspirasse loro istintivamente timore. Fra gli altri volatili Harbert segnalò in una parte acquitrinosa un uccello dal becco aguzzo ed allungato che rassomigliava anatomicamente al martin-pescatore, ma dal quale differiva per le ruvide penne a riflessi metallici.
— Debb’essere un jacamar, disse Harbert cercando di accostarsi all’animale.
— Sarebbe pur l’occasione di assaggiare lo jacamar, rispose il marinajo, se quell’uccello acconsentisse a lasciarsi arrostire.
In quella un sasso, lanciato destramente e con forza dal giovinetto, colpì il volatile all’appiccatura dell’ala, ma non bastò il colpo, e lo jacamar se ne fuggì con tutta la velocità delle sue gambe e sparve in un istante.
— Imbecille ch’io sono! esclamò Harbert.
— No, fanciullo mio, soggiunse il marinajo, il colpo era portato bene ed è molto non aver sbagliato l’uccello. Via, non vi stizzite! Lo piglieremo un altro giorno.
Continuò l’esplorazione. Man mano che i cacciatori s’avanzavano, gli alberi più separati divenivano magnifici, ma nessuno produceva frutti commestibili. Invano Pencroff cercava alcuno di quei preziosi palmizi che servono a molti usi della vita domestica e la cui presenza fu segnalata fino al 40° parallelo dell’emisfero boreale, e fino al 35º soltanto dell’emisfero australe. Ma quella foresta si componeva solo di conifere, come a dire “deordas”, già riconosciuti da Harbert, di “douglas” simili a quelli che crescono sulla costa nord-ovest dell’America, e di meravigliosi abeti alti ben centocinquanta piedi.
In quella un volo d’uccelli di piccola statura e di leggiadre penne, dalla coda lunga e cangiante, si sparpagliarono fra i rami spargendo le piume debolmente attaccate che coprirono il suolo d’una fina peluria. Harbert raccolse alcune di quelle piume, e, dopo d’averle esaminate, disse:
— Sono curucù.
— Preferirei una gallina faraona, rispose Pencroff; ma almeno sono buone da mangiare?
— Certo che sì, ed anzi la loro carne è delicata, rispose Harbert; d’altra parte, se non m’inganno, è facile accostarci ad essi ed ammazzarli a colpi di bastone.
Il marinajo ed il giovinetto, cacciandosi fra le erbe, giunsero al piede d’un albero i cui bassi rami erano coperti di uccelletti. Quei curucù aspettavano al passaggio gl’insetti che servono loro di nutrimento, e si vedevano colle zampe pennute serrar forte i ramoscelli che servivano loro di sostegno.
I cacciatori si raddrizzarono allora e, maneggiando i bastoni a guisa di falci, atterrarono file intere di quei curucù, che non pensavano a volarsene via e si lasciavano uccidere stupidamente; ve n’era un centinajo per terra quando gli altri si risolvettero a fuggire.
— Bene, disse Pencroff, ecco una selvaggina che par fatta a posta per i cacciatori simili a noi; si lascerebbe pigliar colle mani.
Il marinajo infilò i curucù a guisa di allodole per mezzo d’una bacchetta flessibile, e continuò l’esplorazione. Si potè osservare che il corso d’acqua s’incurvava lievemente in guisa da fare un gomito verso il sud, ma quella giravolta non pareva si prolungasse, poichè il fiume doveva aver la sua sorgente nella montagna ed essere alimentato dalla fusione delle nevi che tappezzavano i fianchi del cono centrale.
L’oggetto principale di codesta escursione era, come si sa, di procurare agli ospiti dei Camini la maggior quantità possibile di selvaggina. Non si poteva dire che finora lo scopo fosse raggiunto, epperò il marinajo proseguiva alacremente le ricerche e si arrabbiava quando qualche animale, cui non aveva nemmanco il tempo di riconoscere, fuggiva fra le alte erbe. Avesse egli avuto almeno il cane Top! Ma Top era scomparso allo stesso tempo del suo padrone e probabilmente era perito con lui.
Verso le tre dopo il mezzodì, nuove frotte di uccelli furono intravvedute attraverso certi alberi, specialmente ginepri, di cui beccavano le bacche aromatiche. D’un tratto echeggiò nella foresta un vero suono di tromba. Le bizzarre e sonore fanfare erano prodotte da quei gallinacei che si chiamano tetras agli Stati Uniti. Presto se ne videro alcune coppie dalle penne fulve e brune e dalla coda scura. Harbert riconobbe i maschi dalle due alette aguzze formate dalle penne rilevate del collo. Pencroff giudicò cosa indispensabile l’impadronirsi di uno di quei gallinacei grosso come una gallina, la di cui carne vale quanto quella della pollastra regina; ma era difficile, poichè non si lasciavano accostare. Dopo molti tentativi infruttuosi, che non ebbero altro risultato fuorchè di spaventare i tetras, il marinajo disse al giovinetto:
— Assolutamente, poichè non possiamo ammazzarli al volo, bisogna cercare di prenderli colla lenza.
— Come carpi? disse Harbert meravigliatissimo della proposta.
— Come carpi, rispose il marinajo sul serio.
Pencroff aveva trovato nelle erbe una mezza dozzina di nidi di tetras aventi ciascuno da due uova. Egli ebbe gran cura di non toccare quei nidi ai quali i proprietarî non dovevano tralasciare di far ritorno. Fu intorno ad essi che immaginò di tendere le lenze, non già lenze a laccio, ma vere lenze ad amo. Egli trasse Harbert a qualche distanza dai nidi, e colà preparò i suoi congegni singolari colla cura che vi avrebbe messo un discepolo di Isacco Walton 1. Harbert seguiva quell’operazione con un interesse facile a comprendere, pur dubitando della riuscita. Le lenze furono fatte di liane sottili attaccate le une alle altre e lunghe da quindici a venti piedi. Grosse e robuste spine dalle punte ricurve, fornite da un cespuglio di acacie, furono legate alle estremità delle liane a guisa di ami. L’esca fu preparata con grossi vermi rossi che strisciavano sul suolo.
Ciò fatto, Pencroff, passando fra le erbe e nascondendosi destramente, andò a collocare l’estremità delle sue lenze armate di ami presso ai nidi di tetras, poi tornò a prendere l’altro capo e si nascose con Harbert dietro un grosso albero. Entrambi allora aspettarono pazienti, sebbene Harbert, giova dirlo, non contasse gran fatto sulla riuscita dell’invenzione di Pencroff.
Trascorse una buona mezz’ora, ma, come avea preveduto il marinajo, molte copie di tetras tornarono ai loro nidi; saltellavano beccavano il suolo, non sospettando in alcuna maniera la presenza dei cacciatori, che del resto avevano avuto cura di collocarsi sottovento ai gallinacei.
Certo il giovinetto si sentì allora vivissimamente interessato; tratteneva il respiro, intanto che Pencroff, sbarrando tanto d’occhi, a bocca aperta, colle labbra tese come se stesse per assaggiare un boccone di tetras, respirava appena.
Frattanto i gallinacei passeggiavano fra gli ami senza molto inquietarsene. Pencroff allora diede picciole scosse che agitarono l’esca in guisa da far credere che i vermi fossero tuttavia viventi.
Senza dubbio il marinajo provava allora una commozione ben altrimenti intensa di quella del pescatore alla lenza, il quale non vede mai venire la sua preda attraverso le acque.
Le scosse svegliarono l’attenzione dei gallinacei e gli ami furono assaliti a beccate. Tre tetras, voracissimi in vero, inghiottirono insieme l’esca e l’amo. Pencroff diede una strappata improvvisa, e lo starnazzare delle ali lo avvertì che gli uccelli erano presi.
— Evviva! esclamò egli precipitandosi verso la selvaggina, di cui s’impadronì in un istante.
Harbert aveva battute le mani. Era la prima volta che vedeva prendere gli uccelli colla lenza; ma il marinajo, modestissimo, gli affermò che non era già quello il suo primo esperimento e che del resto egli non aveva il merito dell’invenzione.
— In ogni caso, aggiunse, nella situazione in cui siamo bisogna aspettarci a veder ben altro.
I tetras furono attaccati per le zampe, e Pencroff, lieto di non tornare a mani vuote, e vedendo che il giorno cominciava a scendere, giudicò conveniente di rimettersi in cammino verso la comune abitazione.
La via da seguire era naturalmente indicata dal corso del fiume che bastava ridiscendere; verso le sei ore, stanchi della loro escursione, Harbert e Pencroff rientravano nei Camini.
Note
- ↑ Celebre autore d’un trattato sulla pesca alla lenza.