L'innamorata/Parte prima/II

Parte prima - II

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Parte prima - I Parte prima - III


Il conte Paolo Cappello, sebbene educato con quella leggerezza d’animo e di costumi che usa oggi nella nostra aristocrazia, conservava ancora, in grazia della sua estrema giovinezza, molte illusioni. La Leona che, per un vecchio libertino, sarebbe stato tutt’al più il capriccio di qualche settimana, fu per lui l’amore vero, perché il primo; l’ideale desiderato e cercato; la forma di donna spirituale e divina a cui egli tendeva inutilmente le braccia nei sogni della sua prima adolescenza.

In quell’età quando la fantasia ha il sopravvento sulla ragione Paolo vedeva Leona con tutt’altro occhio che gli amici. Persino ciò che a loro sembrava più spregevole in lei, l’origine e la condizione, le conferiva grazia e poesia nell’immaginazione del giovane. Per uno scettico e per un uomo di mondo, una cavallerizza non era altro che una saltatrice da Circo; per il giovane era, quale egli l’aveva vista con il cuore ardente e inesperto, una forma aerea e gentile, fatta di luce, di profumo e di fiamme; una creatura del mondo superiore e inaccessibile onde vengono radianti; tutta veli e sorrisi, bella come un angelo, leggera come il vento, luminosa come l’aurora e penetrante come la fragranza di un fiore tropicale.

Egli la vedeva sempre così agile e slanciata volare, con aperte narici, come sospesa sul suo cavallo, date le braccia e i capelli al vento, in un’onda di luce elettrica, fra il clamore delirante di migliaia e migliaia di spettatori, che tutti la invocavano, tutti la provocavano con vani ruggiti di desiderio. E il pensiero che egli, solo, aveva saputo conquistare quella donna, gli gonfiava il petto di un orgoglio delizioso: inoltre, si figurava che una donna così diversa dalle altre, dovesse amare in un modo nuovo, più etereo e più caldo, senza le piccolezze e le volgarità degli amori di tutti. E avrebbe voluto trovare un nido misterioso e incantevole, dove andare a nascondere quel suo primo sogno di piacere e d’amore; dove andare a morire delle beatitudini, delle ebbrezze, dei rapimenti indicibili che se ne riprometteva.

Ne scrisse, prima di partire per Napoli, a un amico, il quale gli rispose per telegramma, mentre egli appunto metteva il piede sulla predella del vagone, che il nido era trovato. Paolo diede l’annuncio a Leona, la quale lo ringraziò con un sorriso adorabile.

Che viaggio fu quello! Era una mite sera d’ottobre: il mezzo vagone, che Paolo aveva preso tutto per loro due soli, aveva, oltre i due sportelli da lato, una lunga vetrata dirimpetto al sedile: Paolo poi aveva disposto, prima della partenza, che fosse tutto adornato di fiori e di stoffe orientali, tra le quali Leona, ravvolta in una preziosa pelliccia di martora, si rannicchiava come un uccello freddoloso.

Il treno, rombando e fischiando, correva: e, come quel vagone era l’ultimo, così attraverso il cristallo di mezzo, si vedeva allargarsi la campagna solitaria e oscura: dei grandi alberi parevano fuggire, come ombre di belve, all’avvicinarsi della locomotiva; dei gruppi di case biancheggiavano ancora fra le balze, alla luce dell’estremo crepuscolo. Lontano, un lembo di cielo appariva ancora chiaro: e le nuvole vi si intagliavano più nere e più enormi, mentre la luna, pallida e grande, a poco a poco sorgeva dietro una catena di monti.

Paolo si era messo a giacere ai piedi della sua amata e, la testa appoggiata sulle ginocchia di lei, la divorava con gli occhi, in silenzio. Ella rosicchiava delle violette candite, che teneva nel grembo, e sorrideva: ogni tanto si curvava su di lui e gli metteva in bocca una violetta e un bacio umido e lungo. E quel dolce silenzio, tra il fragore della locomotiva, non era interrotto fuorché dai nomi appassionati che ella gli dava, dopo i baci, in italiano e in spagnolo:

- Chico! Querida! Amor de mi alma! Tesoro! Bello! - a cui egli rispondeva con voce mezzo spenta, languendo d’amore. La sera era alta, e la luna brillava pura, in mezzo al cielo, senza una nuvola.

Quando il convoglio entrò nella popolosa e tumultuosa stazione di Napoli, era vicina la mezzanotte. Paolo, con gli occhi e i capelli disfatti, fece aprire lo sportello, e si trovò davanti all’amico, Gennaro dei duchi di Paganica, il quale, galantemente, porse la mano a Leona per aiutarla a scendere, e ordinò a un servitore che aveva condotto con sé, indicandogli il vagone:

- Domenico, bada tu che non ci rimanga nulla.

Poi, rivolto a Paolo:

- Quello è Domenico, il tuo cameriere. Una perla, fidati di me.

Fece salire i due giovani nella sua carrozza; vi salì egli stesso, e li accompagnò alla loro dimora, a Pizzofalcone. L’appartamento di nove stanze, arredato con molto gusto, era stato ceduto, per millecinquecento lire al mese, da una signora napoletana, che passava l’inverno a Parigi.

Sulla soglia dell’alta porta di vetri opachi aspettava la cameriera, una napoletana grassoccia, dai capelli neri e crespi, dal naso rincagnito, di nome Marianna. Il duca di Paganica introdusse gli amanti nell’appartamento illuminato; accolse con un inchino cerimonioso i ringraziamenti di Leona e con una stretta di mano quelli di Paolo; poi, discretamente si ritirò.

I primi giorni, Leona non si stancava di ammirare la sua casa e quel lusso a cui non era mai stata avvezza, e il paesaggio che si stendeva davanti le sue finestre. Paolo era sempre al suo fianco; e passavano ore e ore sulla terrazza, contemplando il mare turchino di Santa Lucia, che lampeggiava nel sole; il Vesuvio che levava nel cielo limpido e dolce il suo gran pennacchio di fumo; l’isola di Capri, vaporosa e azzurra nella lontananza, e l’arco della costiera sonante e popolata di bianche case fino a Torre del Greco. Sotto i suoi piedi, Leona vedeva aprirsi le quadrate terrazze delle case borghesi: delle donne, rimboccate le maniche, appendevano i panni di bucato sulle corde distese: udiva dei brani di conversazioni in quel molle e vivace dialetto napoletano che ella quasi intendeva, tanto rassomigliava ai dialetti di Valenza e di Murcia.

- Ne’ Carminé, damm’a cammisa!

- A lloco stà!

- Donna Lucié, avete vist’a Pappona?

- Ove’ ch’è passata?

- Sta cuieta, sta cuieta, Marié, lassa stà o cane!

Erano grida, risa, lamenti, latrati, imprecazioni, querele, tutto il clamore di una fiera, che saliva da quelle terrazze, dalle terrazze lontane, dalle piazze, dai vicoli, da tutta la città rumorosa, in echi più fievoli a mano a mano che le distanze si facevano maggiori, ma sempre con le stesse intonazioni, con le stesse cadenze, quasi che i suoni di quel quartiere, per virtù di eco miracolosa, si propagassero in onde successive ed eguali per i quartieri vicini, per i quartieri lontani, dovunque.

Sulla spiaggia i pescatori stavano seduti al sole, al mite sole di ottobre, chiacchierando e fumando; i venditori di ostriche, vestiti di maglie turchine, diritti dietro le loro bancherelle, gridavano a intervalli: - Ostricaro! Ostricaro! - le vetture di piazza passavano rapidamente, salendo da Chiaia o scendendo verso Posillipo. Era un’allegria, un’animazione universale, come di un giorno di festa; e i due amanti, avvezzi alla pace claustrale di Roma, si sentivano invasi come da una ebbrezza nuova, come da un desiderio più forte di muoversi, di godere, di vivere.

Rientravano in casa, quando il cameriere veniva ad annunciare che la colazione era in tavola. Il mobilio della stanza da pranzo, arredata in stile del Cinquecento, era composto di due alte dispense di legno scolpito, di una dozzina di seggioloni coperti di cuoio antico e di un divano largo e profondo come un letto. Alle pareti pendevano arazzi rappresentanti motivi di caccia: un trofeo di armi e di pelli di belve sorgeva in un angolo; nei tre altri, delle statue di ninfe reggevano dei vasi mobili di cristallo con frutta e con dolci.

Leona, che mangiava assai svogliatamente, si contentava di qualche ostrica, di un brodo ristretto e di un bicchiere di Bordeaux; poi si buttava sulle frutta e sui dolci e, golosa come una bambina, non smetteva più di mangiarne.

Anche Paolo si affrettava per arrivare ai dolci, sapendo che quello era il momento buono. Licenziavano le persone di servizio, e rimanevano soli. Allora Leona andava a sedersi sul divano, vicino all’amante, e si divertiva a farsi imboccare da lui. Ogni fetta di mela, ogni acino di uva, ogni marrone candito, ogni sorso di vino o di caffè bisognava che glielo mettesse in bocca lui con la sua bocca; e lei rideva, di un riso tremante, accendendosi a poco a poco, dichiarando che i bocconi così le parevano più saporiti.

Poi era lui che voleva bere lo sciampagna nel cavo delle mani di lei. Era una faccenda delicata e deliziosa. Prima di tutto, bisognava che lei si rimboccasse le macchine di trina; e i bei polsi bianchi e vigorosi apparivano ignudi sotto i cerchi d’oro dei bracciali. Ella protendeva le due mani raccolte a guisa di coppa; egli, inginocchiato su un cuscino di raso, versava il vino spumeggiante e ardente, come oro liquido, si chinava e cominciava a bere. Ma sollecitata dalle carezze della lingua di lui, Leona si contorceva e rideva, spasimando, finché cadeva sul divano, come svenuta.

Così lasciavano venire la sera; e allora andavano a spasso. Leona, dopo l’abbandono di tutta se stessa, già cominciava a manifestare dei gusti plebei, e voleva sempre andar a pranzo fuori di casa, in qualche gargotta di Posillipo o di Pozzuoli. E Paolo, ridendo di quel capriccio, ve l’accompagnava. Il più sovente si recavano in una piccola trattoria aperta da un oste romantico sulla tragica rovina del palazzo Donn’Anna. Andavano diritti alla sala estrema, aperta, per un vano, sul mare.

Era un’antica sala dai muri foschi e cadenti, butterati di fori neri: il soffitto alto si squarciava da un lato, scoprendo un lembo di cielo profondo, dove qualche stella ammiccava, pallida e tremolante; sotto un ammasso di pietre che sostenevano, contro la furia dell’onda, l’apertura rassomigliante alla bocca di una spelonca, il mare procelloso mugghiava, urlava, spumeggiava e conquistava i sotterranei destando, con rombi formidabili, gli echi morti di quella fantastica rovina.

Senza intendere bene la poesia selvaggia di quel luogo, Leona, per istinto, l’amava. L’oste recava in tavola un fumoso lume a petrolio, delle posate di latta, dei grossi bicchieri di vetro, una bottiglia di vino e il miglior pane che avesse, guardando con riverente stupore quei due signori che si arrischiavano nella sua trattoria.

Leona, tutta felice tra quel puzzo mescolato di petrolio, di muffa e di rigovernatura di piatti, si levava i lunghi guanti profumati e il cappellino elegante, si accomodava d’un gesto i braccialetti scintillanti di gemme sui polsi e il boa intorno al collo, e cominciava a sorbire le ostriche e a esaltare la bellezza del luogo, mescolando al suo recente italiano lunghe frasi spagnole e ardite interiezioni napoletane in un cinguettio pieno di una grazia indescrivibile.

Si faceva narrare da Paolo quanto egli sapeva circa la storia di quel castello, e ascoltava a bocca aperta, come una bambina i racconti delle fate. Ogni tanto, in mezzo il pasto, si alzava per affacciarsi dall’apertura e guardare sotto il mare che intorno alle rovine del palazzo Donn’Anna fremevano e singhiozzavano, fischiavano e urlavano, e si rifrangevano tornando per gli anditi sottostanti. Se ne ritraeva quasi subito con un brivido di paura e di freddo, e rimettevasi a sedere e a ciarlare e a sgranocchiare nocciole e a bere vino bianco di Capri.

Il ritorno era dolce. Nella solitudine lunga della riviera di Chiaia, Paolo se la pigliava sotto il braccio, e le mormorava nell’orecchio roseo e caldo, protetto dalla pelliccia odorosa, le frasi più tenere e più appassionate.

- Leona, ti adoro, ti adoro!

Ella l’avvolgeva tutto con la carezza dei suoi grandi occhi neri e gli serrava il braccio con il braccio. Poi gli diceva:

- Chico! come ti voglio bene! Quando penso che tu sei tanto buono con me, con la povera Leona, e che sono qui, al tuo fianco, non so, ma mi sento venire le lacrime agli occhi... Senti, è vero che non mi abbandonerai mai sola al mondo? Sono una povera ragazza, sai, e non ho altri che te, te, a cui ho dato tutto, tutto... lo sai!...

- Amore, perché mi fai questi discorsi? Cattiva! Tu sai bene che io ti amo, che io ti idolatro... Come farei a vivere senza di te?

La riviera, palpitante di lumi, si incurvava davanti a loro lontano, fino a Resina. Il grande occhio di fuoco del Vesuvio lampeggiava e si spegneva, a intervalli eguali, sull’orizzonte. Più in qua, il faro brillava di una luce più languida, ora bianca, ora verde, sempre diversa. E tra la riva e il Castel dell’Ovo, che torreggiava a poche braccia di distanza come un gran masso ciclopico, le onde si querelavano mugghiando cupe e venivano irose a urtare sulla spiaggia sassosa, levando alti sprazzi che talvolta, ricadendo sui marciapiede, giungevano fino ai due amanti. Leona dava un piccolo grido e si ritraeva. Paolo ne profittava per metterle un bacio tra i capelli o sul collo, alla ventura.

- Se un giorno - ripigliava Leona - la mia compagnia ti infastidisse, dimmelo; io saprò morire; ma star sola, no, mai, mai, mai!

- O che grullina! - esclamava Paolo, invaso da una tenerezza infinita. E perché non reggeva più alla voglia di baciarla, si guardava attorno per vedere se ci fosse nessuno; poi si svincolava da lei e lì, in mezzo alla strada, le prendeva la testa fra le due mani, e le premeva la bocca sulla bocca, lungamente, silenziosamente.

- Ay de mi! - gridava lei, ridendo e dibattendosi; e ripigliavano insieme la strada, felici.

Vivevano così, soli, lontani dal mondo, senza ricevere e senza dare notizie, come in un sogno. Leona non si stancava di godersi la sua casa e il suo amore: non usciva che la domenica, per andare ad ascoltare la messa. Del resto ella provava una gioia infantile a passeggiare sui suoi tappeti morbidi e alti, dove i piedini calzati di babbucce turche affondavano; a stendersi sui suoi divani coperti di pelle di belve che emanavano un profumo acre e penetrante; di toccare i grandi arazzi di raso nero rilevati a guerrieri panciuti e deformi, tutti d’oro, del salotto giapponese; a fiutar tutte le essenze della stanza da bagno, dove gli odori più acuti e più languidi invitavano a sognare e ad amare.

Non punto avvezza a tutti questi raffinamenti del lusso, passava delle ore a esaminare a uno a uno gli innumerevoli gingilli dell’appartamento, quando Paolo usciva solo, per impostare qualche lettera o per fare qualche acquisto. Prendeva in mano le statuine di terracotta e di bronzo, i vasi di maiolica pieni di fiori freschi, i ventagli colorati come grandi farfalle, i parasoli bizzarri, i piatti antichi delle pareti; e stava a osservarli, pensosa. Come sarebbe stata contenta di vivere sempre in una casa come quella, fra tanti oggetti carini, con l’amante suo... Oh, mio Dio, se codesto avesse potuto durare!... Un’ombra nera, a volte, le sorgeva nel cuore; ma ella si consolava pensando che non aveva ragione di sospettare. Paolo l’adorava; perché non avrebbe seguitato a volerle sempre lo stesso bene? Ella sarebbe stata così umile, così sottomessa... A ogni modo, ora non voleva pensare a nulla - e scrollava le spalle: - poi sarebbe stato quel che sarebbe stato.

Per cacciare via i cattivi pensieri, sedeva al piano, che ella suonava un poco, e canticchiava delle canzoni popolari del suo paese. Erano melodie semplici e appassionate, piene talvolta di un’allegria spensierata e scomposta, talvolta di una mestizia infinita. Ella cantava senza avere studiato, come gli uccelli; e non di meno sapeva dare al suo canto un’espressione così immediata e sincera, che la gente si fermava per la via ad ascoltare. Segnatamente quando ella diceva alcune frasi che poco o molto si potevano riferire alla sua condizione, il suo canto diventava qualcosa di così puro, di così alato e insieme di così intensamente comunicativo da parere che ella prorompesse davvero nelle risa e nei singhiozzi onde accompagnava quelle armonie bizzarre, a strappi e a riprese, mescolate di sibili, di grida, di voci inattese e di cadenze indefinibili, di ondeggiamenti inafferrabili e irriproducibili. Così quando cantava

Ay! que placer
Que es el amar
Si se halla un alma
Angelical!
Y que dolor
Si hay falsedad
No, no, no, no,
Huye de mi
Duda fatal,

la sua voce, dapprima lenta, molle, come rapita in un’immensa beatitudine, a mano a mano diventava rauca e stridente, pregna di minacce e di lacrime, fino a uno scoppio terribile d’ira e di strazio: e gli occhi, ora socchiusi sotto la lunga ala delle ciglia umide e nere, ora scintillanti di passione crudele, e le labbra, ora respiranti il piacere come in un bacio, ora aride e secche, ma spalancate così da lasciar vedere i denti connessamente serrati, onde la voce passava sibilando, e le guance, ora rosse come la brace, ora pallide come un cencio, e il seno anelante e i capelli arruffati, tutto conferiva a dare all’espressione del canto più energia, più bellezza, quasi l’illusione della realtà.

Delle altre volte, ella cantava dei versi che le ricordavano la Spagna:

Cuanto contento
Siente mi alma
Cuando recuerdo
La bella España!
Los castellanos
Siempre galantes
Son muy constante
En el querer.

Allora, la tristezza di una nostalgia forse inconsapevole errava nel suo canto monotono e incerto: i suoi larghi occhi neri si fissavano nel vuoto, umidi e ardenti; i contorni del suo bel volto parevano disfarsi dalla grande dolcezza. E il suo accento diventava ancora più molle e insieme più ardente di desiderio e di preghiera, quando ella ripigliava il ritornello:

Querida España!
Oh! cielo hermoso,
Jardin precioso,
Suelo ideal,
Clima dulcìsimo
Que te sonrie
Que Dios te envie
Felicidad!

Spesso, Paolo tornava mentre ella stava ancora seduta al piano, e allora si fermava sulla soglia, dietro la portiera pesante, per non disturbarla, e ascoltava con il cuore gonfio di tenerezza. Poi, quando ella finiva, le batteva le mani: la ragazza trasaliva, come riscossa da un sogno; si levava e correva a buttargli le braccia al collo e a baciarlo, ancora tutta vibrante di commozione.

Anche Paolo, che era un elegante pianista, qualche volta suonava, specialmente la sera. Ma, ahimè! quelle belle fantasie del Mendelssohn, quelle belle mazurche sentimentali dello Chopin. Quelle belle rapsodie del Liszt, quelle gavotte, quelle fughe, tutta quella musica, così alta e sottile, non faceva che infastidire la bizzarra creatura, la quale, dopo le prime battute, gli si aggrappava al braccio per farlo smettere, e gli diceva piagnucolando:

- No, non voglio. Es feo!

Brutto! era brutto! Paolo, educato fin dall’infanzia a sentire levare alle stelle quella musica meravigliosa, si cacciava le mani fra i capelli, ridendo, e fuggiva. Lei per un po’ se ne aveva a male, e faceva il broncio; ma si rabboniva poi subito, rideva lei pure e batteva le mani come una bambina, se Paolo, per contentarla, tornava al piano e intonava qualche facile e briosa canzone napoletana.

La sola amarezza di Leona, in quei giorni della sua luna di miele, era il piglio insolente con cui si vedeva trattata dal cameriere. Con la Marianna, una napoletana bonacciona, sempre allegra e cordiale, un po’ troppo confidenziale, ma insinuante e devota, tanto quanto se la diceva; ma Domenico, un romano serio e impettito, con un eterno sogghigno di compatimento superiore sulle labbra rase, gli dava sui nervi. Per vendicarsi, Leona lo strapazzava tutto il giorno; lo faceva correre qua e là con un pretesto o con l’altro; gli faceva ridiscendere cento volte le scale, poi, per giunta, gli faceva delle partacce che non finivano mai.

Il cameriere se ne lamentava da solo a solo con il signor conte, assai rispettosamente, perché sapeva che quello era un signore davvero. Paolo stava a sentire, un po’ urtato da quei pettegolezzi, poi cercava di rabbonirlo, lo lodava del suo servizio, prometteva di pregar la "signora contessa" (Domenico faceva un risolino sottile sottile) che gli si volesse mostrare un po’ più indulgente.

Ma quando gliene parlava davvero, era una casa del diavolo, Leona, benché docile e affettuosa con il suo amante, non aveva punto lasciata la violenza della sua natura: e non le pareva di doversi frenare con gli altri come si frenava, senza sforzo, a volte, con Paolo. Sicché, soltanto a ricordarle quel "pillo" come ella qualificava Domenico c’era da farla uscire dai gangheri, proprio! Allora poi non guardava più in faccia a nessuno, e se l’amante non smetteva subito, correva il rischio di sentirsi trattare lui pure di tutti i nomi.

Paolo non voleva far dispiacere all’amica; ma d’altra parte era assai seccato di codesti fracassi. Se c’era qualcosa che gli riuscisse intollerabile, era l’idea che nel vicinato si parlasse di lui e della sua donna: ora egli sapeva bene che tra l’espansiva loquacità di Marianna e la rabbiosa maldicenza di Domenico, presto l’intero rione sarebbe stato pieno dei fatti suoi.

Altro rimedio non c’era contro tale pericolo, che il mandar via Domenico. Ma il conte temeva, a ragione, che il cameriere sarebbe andato a sfogarsi con il Paganica che glielo aveva dato per un servitore modello: e al suo amico, meno che agli altri, egli avrebbe voluto far sapere le cose di casa sua. Di modo che seguitava a tirare innanzi, non sapendo a che santo votarsi; quando un bel giorno fu inaspettatamente costretto a fare per forza quello che fino allora non aveva voluto fare per amore.

Una mattina Leona, svegliatasi un po’ più presto del solito, toccò due o tre volte il bottone del campanello elettrico, per ordinare alla cameriera di portarle la tazza di latte caldo, che ella soleva bere tutti i giorni prima di alzarsi da letto. Ma fosse difetto di acqua nelle pile, fosse altro guasto dell’apparato, il campanello non suonò: e bisognò che la signora si levasse da sola, si gettasse un accappatoio sulle spalle e andasse in cucina. Trovò il latte sul fuoco, lo prese e già apriva bocca per chiamare qualcuno, quando le parve di udire profferire il suo nome, nella vicina stanza da pranzo, con una risata beffarda, da Domenico.

Gli occhi le sfavillarono dalla collera; ristette e si pose in ascolto. Marianna diceva:

- E va bene! E tu che vuoi? Se al signorino è piaciuto di pigliarsi colei?

- Sarà - rispondeva il romano - ma quella di godersi gli avanzi dei butteri...

Leona non lo lasciò terminare. Spalancare bruscamente la porta, dare in un ruggito di belva e lanciare in faccia al mascalzone il vaso del latte fu un punto solo. Domenico, bianco come un cencio, era rimasto come colpito dal fulmine: ella intanto digrignando i denti e brandendo quel suo pugno bianco ma muscoloso di scudiera, gli andava addosso. Per fortuna Marianna si diede a strillare come un’aquila; il conte intervenne e, informato dell’accaduto, consegnò al cameriere il salario del mese e lo mise, con una solenne pedata, fuori dell’uscio.

Tutto quel giorno, Leona non si poté dar pace dell’offesa ricevuta. Piangeva, gridava, smaniava: avrebbe voluto che quel briccone fosse fatto a pezzi. La sera, per farla distrarre un po’ e per calmarla, Paolo le propose di condurla a San Carlino, un teatro che ancora pochi anni addietro, sulla piazza del Municipio, attirava la bordaglia di Napoli.

La donna accettò giubilando. Era inutile: per quanto Paolo facesse, per quanto facesse ella medesima alla fine di raffinarsi un poco, i suoi istinti popolareschi scattavano su francamente, a ogni occasione. Paolo, in fondo, si divertiva di trovarla così sbarazzina, non fosse altro che per il contrasto con se medesimo: e i suoi sensi di signore di razza si trovavano stranamente solleticati dall’acre soffio di plebe che quella ragazza recava dappertutto.

Il San Carlino degli ultimi tempi era una specie di cantina sotterranea, divisa in due ordini di palchi, il loggione, la platea e il palcoscenico. Pochi lumi a petrolio lo illuminavano: fuori, sulla piazza, grandi cartelloni rossi annunziavano lo spettacolo della serata: Pulcinella finto medico, Le Novantanove disgrazie di Pulcinella, Pulcinella galantuomo in città e ladro in campagna, Il matrimonio di Pulcinella, e via dicendo; tutte vecchie commedie dell’arte rispolverate e rimesse a nuovo secondo il gusto dei tempi.

Verso le sei di sera, la gente cominciava ad affollarsi allo spaccio dei biglietti. Erano bottegai e camorristi, piccoli commessi di magazzino e vecchi impiegati borbonici, mogli di cocchieri e donne di piacere, strilloni di giornali e soldati; qualche signore in tuba e guanti, il virginia in bocca, un sorriso di sprezzante curiosità sulle labbra; qualche signora ardita e curiosa, il volto coperto di un fitto velo, le mani nascoste nel manicotto, impacciata e paurosa.

Prendevano il biglietto; poi per una scala sudicia e stretta scendevano nella cava, e si trovavano ai primi posti, ai posti distinti, ai posti di prima fila, davanti il sipario calato, che ogni tanto ondeggiava per lasciar passare una testa, la quale faceva cenno al direttore d’orchestra. Si udivano due colpi della bacchetta, e l’orchestra, composta di sei o sette strumenti, attaccava una quadriglia triviale.

Il conte Paolo e Leona arrivarono verso le sette, pochi minuti dopo che era cominciata la recita. Leona indossava, sotto la lunga pelliccia, un abito di velluto color foglia di rosa, chiuso di lato con una banda di velluto color verde Nilo; la scollatura quadrata, al pari del lembo dell’abito, era ornata di un superbo merletto di Venezia; aveva dei brillanti agli orecchi e sul petto; e un largo cappello di velluto color verde Nilo, ornata di piume alla Gainsborough, imprigionava il pesante volume della sua nera capigliatura.

Quando ella, con gran rumore di usci e di seggiole entrò nel suo palco di seconda fila, tutti gli spettatori della platea levarono gli occhi a guardarla; e più di uno esclamò, con accento di cupidigia persuasa:

- Quanto si bbona!

Si udì qualche risata, qualche zittìo; poi tutti tacquero. La Leona, le narici aperte e palpitanti, aspirava, con evidente soddisfazione, l’odor misto di aglio, di tabacco e di carne umana che impregnava l’aria: già le sue guance si erano fatte di fuoco, i suoi occhi si dilatavano. Ella rideva ogni momento; rideva delle mariolerie di Pulcinella, tutto vestito di bianco, il viso mascherato di nero, sul palcoscenico; rideva delle riprese inaspettate che venivano dal loggione e dalla platea; rideva della sensuale ammirazione onde si sentiva circondata; rideva di un riso schietto e sonoro, che faceva voltare la gente. Invano Paolo, che era rimasto indietro nel palco, si dibatteva sulla sua seggiola, e l’ammoniva di stare tranquilla: ella gli volgeva il bel viso annegato di una gioia infantile, e gli rispondeva:

- Oh mi diverto, mi diverto tanto!

E codesto era detto con tale abbondanza di cuore, che l’amante non aveva coraggio di replicare.

A poco a poco, ubbriacata da quella larga e gioconda effusione meridionale che rispondeva così bene al suo temperamento, anche Leona cominciò a pigliare parte alla gara di motteggi fra attori e spettatori. I guappi e le vaiasse della platea, vedendo una signora così perbene far lega con loro, dapprima la guardarono ridendo e battendo le mani; poi, con simpatia più clamorosa, l’apostrofarono direttamente, tutte le volte che lei dava una risposta salata ai lazzi di Pulcinella; e quando questi, sulla fine della commedia, accortosi della patria di lei e dell’esaltazione che ella destava nel pubblico, la salutò, a sproposito, con questo madrigale di basso porto spagnolizzato per la circostanza: - Evviva las sciascionas espagnolas! - Un urlo di entusiasmo indescrivibile empì il teatro; tutti si levarono in piedi agitando i fazzoletti, e il conte fu appena a tempo di trascinare Leona fuori del palco: ancora un istante e quella plebe così eccitabile, cordiale e chiassona, l’avrebbe portata in trionfo per via Toledo.