Parte prima - I

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Parte prima Parte prima - II


Il Circo Alhambra rigurgitava di gente. L’aria era calda: gli spettatori, quasi diritti, rossi, urlanti, applaudivano e sventolavano i fazzoletti. Le fiammelle del gas si agitavano nel soffio crescente di quell’entusiasmo popolare. Grida, rumori, muggiti quasi feroci, uscivano da quella moltitudine sbalordita e commossa. Le signore, vestite di chiaro, si curvavano sui parapetti dei palchi, guardando verso l’arena; gli uomini, in piedi, acclamavano. E l’orchestra seguitava a eseguire una seguedilla malinconica e ardente, che si udiva a tratti, sopra il fragore incessante del pubblico, come il grido di una procellaria sul tumulto di un oceano in tempesta.

Sull’arena due clowns, dalla faccia spalmata di biacca e di minio, dalla parrucca di stoppa, insaccati in un largo abito di cotone bianco dipinto di tutti i segni dello zodiaco, facevano versacci agli spettatori; li guardavano con la bocca spalancata, che pareva enorme così tinta in giro di rosso vivo, si rincorrevano a scapaccioni e a pedate, e finivano a battere le mani anche loro, stupidamente.

D’improvviso un leggero grido si udì; l’orchestra intonò un motivo di galoppo; la gente sedette; un gran silenzio si fece, e su un bel cavallo arabo, agile come una freccia e nero come la notte, apparve una creatura veramente meravigliosa.

Senza esser troppo alta, ella si slanciava arditamente con tutta la persona diritta sulla groppa del cavallo: il gonnellino leggero di veli, che le serrava la vita, lasciava ignude le belle braccia di un bruno dorato, svelte e rotonde come l’anse di un’anfora antica. La capigliatura disciolta le si svolgeva come un tenebroso torrente fin sulle caviglie dei piedi piccoli e mobili, calzati di scarpine rosee che si agitavano fra l’abbondante criniera del cavallo, come due farfalle sull’erba. In mano teneva, invece del frustino, un ventaglio.

Com’ella apparve nel Circo, un nuovo e più alto fragore di battimani salì alla turba degli spettatori. Ella fece un gesto di ringraziamento e di saluto, e gridò al cavallo:

- Olé! hop!

Il cavallo, animato da quella voce, dal rombo della moltitudine, dall’orchestra sonora, si slanciò a tutta corsa. La fanciulla rimase dritta sulla groppa dell’animale, volgendo qua e là la testa e mandando lampi dai grandi occhi neri: poi, lentamente, accendendosi a poco a poco, ricominciò le sue prove ginniche e coreografiche.

Si muoveva sul dorso del nudo cavallo con la stessa disinvoltura di una signora nel suo salotto: strisciava inchini; eseguiva passi da ballo; si raggiustava le vesti; si metteva a sedere o coricata supina con le belle braccia rotonde in arco dietro la testa; si faceva aria col ventaglio: fumava delle sigarette; si metteva e si levava degli abiti, che le porgeva un palafreniere vestito all’inglese. Così apparve, a mano a mano, mutata in castellana del Trecento, la borsa al fianco, la lunga veste di lana con lo strascico, il cappello a cono dal velo diffuso sulle spalle; in cortigiana del Cinquecento, eretta nella veste tessuta d’oro onde emergeva l’arco marmoreo delle spalle mal protette dalla bernia foderata di zibellino, china la pura fronte nel velo verde orlato di perle; in marchesa del Settecento, la mosca sulla guancia, incipriati i capelli, alta e lunga la vita nel guardinfante; in paggio, in monaca, in zingara, in contadina, in mendica. A ogni trasformazione erano applausi da far venire giù il teatro; ella, seria, in un torrente di luce elettrica che l’avvolgeva come di un nimbo, risalutava; poi subito, volgeva gli occhi e la voce, in lingua spagnola, al cavallo:

- Olé, Campeador! Caramba! Que tal? Muy bien! Olé, hop!

E ricominciava gli esercizi. Si lasciava sdrucciolare lungo il fianco dell’animale, galoppante, e rimaneva così, non seduta, ma appena aderente, per tre o quattro giri, poi, con agilità incredibile, passava, senza toccar terra, sotto il ventre di Campeador e risaliva dall’altro fianco; gli si appendeva con i piedi alla coda fluttuante e si lasciava trascinare sfiorando della testa l’arena inondata dalla larga capigliatura fuggente: e di nuovo era in piedi. Il pubblico l’acclamava freneticamente.

Ma lo spettacolo nuovo, che esaltava e faceva accorrere la gente in teatro, era l’ultimo; in cui Leona, detta la Perla di Granata, faceva prova di un coraggio e di una destrezza veramente straordinaria.

La cavallerizza difatti, che fino a quel punto aveva eseguito i suoi volteggi con piglio d’indifferenza suprema, scivolò giù dal cavallo, l’arrestò per il morso, di botto, e si mise a palpargli i fianchi e la testa, a carezzarlo, a parlargli all’orecchio. La bella bestia intelligente pareva intendere, perché drizzava le orecchie e abbassava il capo, sbuffando, sulla spalla della padrona.

Ella si allontanò, e fece un atto della mano, come se si segnasse; l’orchestra riattaccò il tempo di galoppo, e il cavallo ricominciò di carriera, ma solo, il giro dello steccato.

Volava, volava, con il vento, quando la fanciulla, impassibile sebbene un po’ pallida, si mise attraverso il suo cammino, le spalle voltate dalla parte onde Campeador, anelando e fumando, veniva. Senza arrestarsi un istante, il nobile animale afferrò con i denti la cavallerizza per la vita, e di un moto brusco della cervice superba, la lanciò in aria. Ella ricadde in piedi, diritta sul dorso dell’animale che non aveva interrotto la corsa.

Un grido d’ammirazione proruppe da tutte le bocche; e, quasi a un tempo, un enorme mazzo di viole, partito da un palco di prima fila, andò a colpire in pieno petto la Perla di Granata, che fu quasi per perdere l’equilibrio. Con un atto sdegnoso della bocca, ella si voltò con gli occhi fiammeggianti, verso quel palco, e gridò forte in modo che tutti potessero udire:

- Necio! (stupido).

Il pubblico fischiò il bellimbusto che aveva commesso quell’atto e stava ancora sul davanti del palco, guardando con aria di orgoglioso disprezz la folla, per darsi un contegno; poi ricominciarono i battimani, gli evviva, i brava, gli sventolamenti dei fazzoletti all’indirizzo dell’amazzone meravigliosa: e ci volle una buona mezz’ora, prima che la rappresentazione potesse ricominciare. Ma perché non agiva più Leona, molti uscirono e invasero il caffè attiguo il teatro, a bere una ghiacciata o un bicchiere di birra.

Anche il bellimbusto che aveva fatto quella prodezza, era entrato al caffè con alcuni suoi amici, e seduto a un tavolino già ingombro di bottiglie e di paste, teneva testa come poteva al fuoco di fila dei loro motteggi.

- Bravo, Cappello! - gli gridava uno - sei di parola! Ti eri messo in testa di fare un regalo alla tua bella nemica e gliene hai fatto uno di cui porterà il ricordo per un pezzo.

- Sfido io! - aggiunse un altro ridendo - un mazzo leggero come la lista dei suoi debiti!

- Avete da dire quel che volete - strillò un terzo - ma insomma, stavolta, Cappello ha fatto colpo.

- Sei proprio un innocente tu, caro Paolo - disse un giovane di trent’anni, già calvo, che si atteggiava a uomo finito - immaginarsi che le saltatrici da Circo si conquistino con i mazzi di violette! Scudi voglion essere, bimbo mio: si ha un bel chiamarsi Paolo Cappello e aver nelle vene sangue di principi; si ha un bell’essere ancora imberbi e forniti di una chioma assalonnica come la tua: senza gli scudi, non si cava un ragno da un buco: dà retta a uno che la sa lunga!

Senza far motto, con quel freddo sorriso di compostezza inalterabile che dà l’abitudine della società anche ai più inesperti, Paolo Cappello, un giovane poco più che ventenne, quasi un fanciullo, ascoltava i suoi amici intingendo tranquillamente un biscotto inglese in un bicchierino di malaga. Quando ebbe finito, si levò in piedi, si sbirciò nello specchio dirimpetto, e disse agli amici che già ricominciavano a canzonarlo per la sua ritirata:

- Chi di voialtri ha un biglietto da mille lire da buttar via?

- Per che fare? vuoi comprare per domani sera un mazzo del calibro di quello che ha quasi schiacciato la povera Leona? - disse uno.

- Ah no, caro io non fornisco armi ai patiti contro le loro belle - gridò un altro.

- Be’, lasciamo gli scherzi da parte - interruppe Paolo, impassibile - chi vuole scommettere mille lire che domani, a Villa Borghese, durante il passeggio, dò un bacio a Leona?

- Se ti riesce! - osservò qualcuno. Ho paura che Leona ti mandi a dire che preferisce i tuoi mazzi di viole ai tuoi baci.

- Insomma, c’è qualcuno qui che scommette? - ripicchiò Paolo, battendo col pomo della canna sul tavolino, un po’ spazientito.

- Se ti può far piacere di perdere le mille lire, scommetto io - rispose il giovane calvo, ghignando di compassione. - A un patto, però: che tu ne esca sano e salvo. Perché non mi meraviglierei che quella zingara, per far salire i prezzi, ti piantasse un coltello nel cuore.

- Sarebbe il giusto contraccambio dell’attentato di stasera - esclamò qualcuno.

- Dunque, accettato, eh, Sant’Elmo? - concluse Paolo, serio, abbottonandosi i guanti.

- Accettato - rispose l’altro, ridendo. Paolo salutò gli amici, pagò la consumazione, e uscì.

- È proprio cotto! - esclamò Sant’Elmo, arrotolando una sigaretta di latakiè con le dita di una mano sola, per darsi importanza di uomo che ha conosciuto i piaceri.

- Eh! - osservò Giorgio Ozanil, un bel giovane con una gran barba nera che dava maggior rilievo a due labbra grosse, rosse e sensuali - quelli di primo volo sono tutti così: pigliano fuoco subito.

- Il guaio è che la madre, che è stata informata della cosa, ha tagliato i viveri al figliuolo; il quale è naturalmente costretto ad accettare le grazie degli strozzini che gli pigliano il cento per cento - assicurò Gabriele Caligaris, un biondo alto, magro, con un naso pulcinellesco e una barbetta rada: un veneto, del paese di Paolo Cappello.

- Ma come gli è venuto in testa d’innamorarsi di Leona? domandò uno, tanto per dire.

- Come vuoi che gli sia venuto? Così - rispose l’Ozanil, scrollando una spalla. - Se Leona gli avesse dato subito retta, a quest’ora lui ne avrebbe fin sui capelli; invece l’ha messo bravamente alla porta, e il ragazzo, si sa, dà in ismanie.

- Ma è proprio onesta, Leona? - domandò qualcuno. Il Sant’Elmo fece un mezzo sogghigno; il Caligaris rispose:

- No, no, è inutile che tu faccia l’uomo superiore, mio caro. Onesta, onesta. Forse non sarà sempre tale, perché ha un po’ troppo cuore.

- Io poi sarei curioso di sapere perché Leona, che riceve tutti noialtri, proibisce soltanto a Paolo di metter piede in casa sua - domandò l’Ozanil.

- Oh Dio! Capisci, Paolo era troppo noioso. Tutto il giorno da lei a frignare; e poi la sera, sempre tra i piedi dei servi, degli scudieri, delle cavallerizze, per cogliere il momento di farle la solita dichiarazione; e non basta: pretendeva anche che Leona dovesse ricevere lui solo, perché era geloso; sicuro, geloso di tutti noi!

- Poveraccio! - esclamò il Sant’Elmo ridendo e scrollando la testa in atto di compassione alquanto beffarda.

- Senti questa - raccontò l’Ozanil - una sera le rubò una pantofola, e non gliela voleva più dare. Lei a corrergli dietro, lui a girar per la casa: noi ci si teneva i fianchi dal ridere: una commedia ti dico!

- O quando si era nascosto carponi sotto il suo letto, e non voleva più uscirne? - gridò il Sant’Elmo.

- La Leona mi ha raccontato che quando lo mise alla porta, lui, dopo averla minacciata, supplicata, ingiuriata, alla fine si lasciò cadere per terra sul pianerottolo, e scoppiò in un pianto dirotto. Dice che faceva pietà; e lei dovette far forza a se stessa per non riaprirgli.

- Ma, e la scommessa di domani non è una stravaganza peggio delle altre? - disse il Caligaris.

- Bah! non ne farà nulla - sentenziò il Sant’Elmo.

- Vedrai che lo farà.

- E io ti dico che non ne farà nulla.

- A ogni modo, domani io sarò a Villa Borghese.

- Oh, anch’io!

- Anch’io, di certo! - esclamarono tutti, e si levarono per rientrare nel Circo, dove il direttore della Compagnia presentava due stalloni ammaestrati in libertà, come diceva il programma.

Il domani, verso le sei, quando Villa Borghese accoglieva nell’ombra dei suoi viali freschi e fioriti, sotto i rami dei suoi grandi alberi folti e frondeggianti in boscaglie, con gli ultimi raggi del sole, la gente rimasta in Roma durante l’estate, nessuno ancora aveva visto né la Perla di Granata, né il suo minaccioso adoratore. Gli amici della sera avanti erano venuti tutti: il duca di Sant’Elmo, a cavallo di un bel sauro dorato; il Caligaris e l’Ozanil in vettura scoperta; altri a piedi. Si eran dati convegno in piazza di Siena.

Il conte Paolo Cappello montava un baio delle scuderie Telfener. Snello com’egli era, stava in sella con molta grazia; sebbene il suo cavallo ardente, perché giovane assai, avesse spesso bisogno di sentire il freno della mano inguantata. Paolo sorrideva con la balda arroganza comune ai giovani, e ogni tanto si cavava il cappello per salutar qualche signora che, passando in vettura scoperta, lo guardava con curiosità.

La voce di quella singolare scommessa si era, infatti, già sparsa rapidamente tra quella società frivola e spensierata a cui il giovane apparteneva; e tutti aspettavano, con una certa sospensione d’animo, lo scandalo. Donna Ortensia d’Agrippa, che era stata la prima iniziatrice di Paolo ai misteri d’amore, guidava ella medesima il suo calesse per tutti i viali, cercando con i grandi occhi, irrequieti, invasa dalla smania di assistere a quello scandalo.

Paolo andava al passo. Fece il viale d’ingresso tra le querce giovani che si arrampicavano e si spargevano per un’ascesa ineguale da un lato, e si diradavano per una discesa più ripida dall’altra; giunse alla prima fontana, il cui zampillo alto brillava come un diamante nel vespero chiaro, e svoltò a destra. Gli passavano accanto vetture larghe e pesanti di monsignori, vetture agili e preste di sportsman, carrozze eleganti di famiglie signorili e sgangherate carrozze di rimessa, uomini a cavallo e uomini a piedi; delle voci, delle risa, dei brani di conversazione salivano fino a lui dai gruppi di gente che si lasciava dietro: egli badava soltanto a carezzare il collo del suo cavallo, e guardava giù in fondo, tra la foresta che si raffittiva lasciando appena intravvedere ogni tanto la barra d’oro luminoso del tramonto autunnale.

Passò tra i due obelischi di mattone rosso senza neanche vederli: era come trasognato; in fondo gli seccava d’aver fatto quella scommessa. S’era accorto dai visi, dai gesti, dalle parole delle persone di sua conoscenza, che la notizia si era sparsa più assai che egli non avesse preveduto o voluto; e avrebbe desiderato potersi tirare indietro, ma la paura del ridicolo lo pungeva forte.

Il tramonto era assai dolce. Fra le grandi palme che spandevano qua e là la gloria delle loro fronde, tra gli abeti che ergevano i piani digradanti della loro architettura da tempio orientale, tra l’esercito delle querce che si disperdevano in tronchi innumerevoli per ogni lato della villa, apparivano dei lembi di cielo giallo, di un giallo sulfureo, orlati di un rosso vivo che si andava dileguando e moriva in un azzurro di cenere. Tutto intorno, attraverso i grandi alberi folti, sull’estremo limite delle boscaglie, dietro i poggi incoronati di cipressi e di pini, pareva che la villa fosse avvolta dall’incendio. E giù, verso Roma, pareva che la fiamma di quell’incendio si riflettesse nelle nuvole ardenti del cielo, sui tetti delle case, fino al confine del lontano orizzonte.

Paolo Cappello giunse sul limitare di piazza di Siena. L’immenso steccato era deserto; solo si vedeva lontano, sotto il gruppo di alberi del centro, una compagnia di pretini rossi, del Collegio germanico, giocare al pallone. La piazza era tutta circondata da un bosco cupo di querce, di cipressi, di pioppi, di pini: in mezzo al bosco, una palazzina bianca si annidava, come una colomba.

Mentre Paolo si voltava da tutte le parti per scoprire i suoi amici, vide venire il legno dell’Ozanil e del Caligaris, che fino allora lo aveva seguito. Il legno si fermò, e l’Ozanil disse, ridendo nella barba nera e lucente:

- Ebbene, come stiamo a coraggio?

Paolo, a quella prima voce di scherno, si sentì riaccendere tutti gli spiriti, come un generoso corsiero al sibilare del frustino. Sorrise con quel suo fare d’indifferenza orgogliosa, e disse:

- L’avete vista, Leona?

- No, ma l’ha vista Sant’Elmo.

- Ti avverto, peraltro - disse Gabriele Caligaris sporgendo fuori del legno la mano e il viso papagallesco - che se fra un quarto d’ora la grande impresa non sarà compiuta, io vado via, perché comincia a far freddo.

In quel momento, proprio dal viale opposto a quello onde era venuto Paolo, apparve Leona accompagnata dal duca di Sant’Elmo. Ella indossava un’amazzone che le aderiva al corpo come una maglia e scendeva in una stretta gonnella sul fianco del suo bel cavallino arabo; portava il cappello alto con il velo, e teneva le redini in una mano e lo scudiscio nell’altra. Infilò, con il duca, il viale a destra, che mette capo al tempietto di Faustina.

Anche Paolo si mosse, e tenne loro dietro. Sotto i filari dei grandi alberi oscuri, delle statue annerite e ammuffite dal tempo sorgevano lungo una cancellata di ferro. In fondo gli avanzi di doratura dei capitelli corinzi del tempietto sfavillavano ai raggi estremi che il sole mandava dalla cima luminosa di un colle. E Paolo vedeva l’ardita e bella figura di Leona, eretta in quel bagliore occidentale, guidare il cavallo con elegante maestria, senza affatto voltarsi. Il viale era quasi deserto.

Il conte Cappello, sentendo dietro a sé il rumore del legno del Caligaris sulla sabbia, e le risa discrete dei due amici, fu preso da un iroso desiderio di finirla al più presto, e spronando il suo baio si trovò a lato della cavallerizza. Ella arrestò il suo morello d’un tratto.

- Sapete - disse Paolo alquanto eccitato - che ho fatto una scommessa con Sant’Elmo?

- Gliel’ho detto io - rispose il Sant’Elmo, fissando con i suoi occhietti stanchi e beffardi il giovane conte.

Leona era divenuta pallidissima. Mormorò, con voce tremante.

- No hacia Usted tonterias... Non faccia sciocchezze, la prego.

- Che male c’è? - replicò Paolo che si sentiva a disagio e non sapeva come uscire da quell’imbroglio.

- Usted es un cattivo ragazzo e niente altro - soggiunse la donna, cercando di voltare il suo animale; ma in quello stesso istante, Paolo si chinò da un lato della sella, e riuscì a sfiorare con la bocca il viso dell’amazzone. Non si era ancora ben rivelato, che una formidabile scudisciata lo colpì in faccia: traballò come stordito, e cadde rimanendo impigliato fra le staffe; il cavallo, sentendosi libero, prese il galoppo, trascinando il cavaliere fino in fondo al viale, dove il Caligaris, che si era buttato giù dalla carrozza, lo raccolse sanguinante, fra le sue braccia.

Leona era partita al galoppo.

Quando Paolo Cappello, nella vettura del Caligaris, fu trasportato in casa sua, alla salita di San Sebastianello, dietro piazza di Spagna, egli non aveva ancora ripreso i sensi. Un lungo segno sanguigno gli attraversava la faccia rossa, qua e là macchiata da chiazze livide; un filo di sangue gli scorreva dal naso; ogni tanto il suo corpo era scosso da contrazioni violente. Fu chiamato un dottore, il quale dichiarò che c’era un principio di congestione cerebrale, e ordinò che l’infermo fosse messo subito a letto, gli fosse applicata una vescica di ghiaccio alla testa, e fosse lasciato in assoluto riposo.

Gabriele Caligaris, che da principio aveva approvato la condotta di Leona e aveva accolto Paolo in carrozza con un: - Gli sta bene - volle rimanere a vegliarlo tutta la notte, insieme a Nazareno il servitore del Conte.

Circa le nove di sera, Paolo incominciò a riprendere i sensi. Aprì gli occhi e li richiuse subito con un gesto di spasimo, perché la fiamma della lampada gli dava troppo fastidio. Gabriele abbassò il paralume, e si accostò all’infermo per domandargli:

- Come ti senti?

- Oh! - fece Paolo con un gemito - la testa!... la testa!... - e si teneva con le mani la testa dolorosamente.

- Vuoi pigliare qualcosa? un brodo? - riprese il Caligaris.

- Sì, un brodo - sospirò Paolo.

Gli portarono un brodo ristretto, che egli bevve a piccoli sorsi. Non si reggeva a sedere sul letto: bisognò che l’amico e il cameriere lo tenessero l’uno da una parte, l’altro dall’altra. Il dottore aveva ordinato che gli applicassero dei senapismi sulla nuca: l’infermo si lasciò medicare; ma quando cominciò a sentire il tiramento profondo, come di tentigini ardenti, del senapismo, si diede a smaniare, gridando che lo volevano uccidere, che erano tutti vili e briganti, che lo lasciassero in pace.

- Ha il delirio - disse il Caligaris - non bisogna contrariarlo. - E gli liberò la nuca, contentandosi di lasciargli la vescica di ghiaccio, che ogni tanto veniva rinnovata, alla testa.

Dopo quello sforzo, il giacente parve addormentarsi. Ma il suo non era un sonno tranquillo. Spesso si agitava, si lamentava di aver dei chiodi alle tempie, diceva parole e frasi incoerenti, parlava di Leona, della scommessa, di giuoco, di cavalli, di sua madre, di mille altri argomenti che gli turbavano lo spirito. Respirava affannosamente, e bisognava che spesso l’amico gli rimettesse la testa pesante sui guanciali che la tenevano sollevata. Gli dava noia il lume; ogni rumore lo faceva scuotere; si trovava in uno stato di irritazione invincibile. Solo dopo qualche ora, l’affanno decrebbe, il delirio cessò, e il sonno divenne meno agitato e meno interrotto.

Gabriele Caligaris s’era buttato su una poltrona della camera da letto, per sorvegliare l’infermo; quando lo vide più calmo, passò nel salotto vicino, dove si era fatto portare il pranzo, e prese un boccone, in piedi. Durante la serata, alcuni amici, il Sant’Elmo, l’Ozanil, altri ancora, erano venuti a trovare Paolo; Gabriele li aveva congedati tutti sulla soglia dell’uscio dicendo:

- Non bisogna disturbarlo.

- Ma è cosa grave? - aveva domandato qualcuno.

- Principio di congestione cerebrale - rispondeva gravemente Caligaris, secondo che aveva sentito dire al dottore - una paralisi dei nervi vasomotori con eccesso di contrazioni cardiache per effetto della commozione provata. Ne avrà per una ventina di giorni; e avrà almeno imparato a non fare l’asino - soggiungeva pacatamente, chiudendo la porta in faccia ai visitatori.

Verso le due dopo mezzanotte, Gabriele, vedendo che Paolo riposava, si buttò su un divano ai piedi del letto, e cercò di dormire pure lui. Non si udiva che il respiro regolare, un po’ rauco, del malato, e il palpito frettoloso dell’oriolo sul caminetto. Gabriele rimase un pezzo a guardare le ombre che la lampada proiettava sulle stoffe antiche della parete; fantasticò sulle conseguenze probabili di quella baggianata del suo amico, e alla fine si addormentò.

Fu svegliato dopo l’alba da Nazareno, che gli diceva all’orecchio in tono concitato:

- Signore! signore!

- Eh! eh! cosa c’è? - fece l’altro stropicciandosi gli occhi e balzando a sedere sul divano.

- C’è una signora che le vuol parlare.

- Nazareno! - gemette in quel momento la voce di Paolo.

- Signor conte, comandi! - fece il cameriere, accostandosi al letto.

- Con chi parlavi?

- Buon giorno, bel mobile! - esclamò il Caligaris rizzandosi in piedi. - Pare che si vada un po’ meglio, eh, stamane?

- Gabriele! come ti trovi, tu, qui?

- Eh! casi che si danno - fece quello con il suo sorriso di giovialità canzonatrice. - Come ti senti?

- Mi duole la testa, assai, assai... - rispose il malato. - E curioso come non mi ricordi più nulla...

Non aveva ancora finito la frase, che una figura di donna, il viso coperto di un fitto velo, si slanciò nella stanza, si precipitò in ginocchio al capezzale di Paolo, e cominciò a singhiozzare:

- Perdonatemi! Perdonatemi!

A quella voce, Paolo trasalì e fece per rizzarsi sul gomito; ma una fitta acuta alla testa lo fece ricadere sul guanciale. Gabriele Caligaris si accostò all’inginocchiata, e le disse, con voce in cui si sentiva l’immensa stupefazione:

- Leona! ma Leona! che siete matta?...

- No, lasciatemi! - diceva lei, piangendo forte. - Non mi muovo di qui fino a quando non sarà guarito...

Intanto, Paolo, con la mano convulsa, tirava il braccio di Leona. Ella sollevò la testa, sollevò il velo sulla fronte, guardò il giovane, gli lesse in viso e, con un grido di giubilo doloroso, si levò e gli si buttò fra le braccia, a baciarlo, a carezzarlo, a inondargli di lacrime le ferite del viso, a dargli i più dolci nomi, a domandargli perdono.

Gabriele Caligaris guardava come incantato. Molte volte egli era stato testimone degli sgarbi che Leona aveva fatto al giovane; e anche il giorno avanti, o non era stata lei che gli aveva applicato quel colpo che l’aveva messo a letto chi sa per quanto tempo? E ora!... Ah, le donne, le donne! - pensava il Caligaris scuotendo il capo, con gli occhi ancora fuori del capo per la meraviglia.

La bella Leona si installò in casa del conte Cappello. Era lei che gli preparava i brodi; lei che gli rinnovava la vescica di ghiaccio sulla testa; lei che gli applicava i senapismi e gli faceva pigliare le medicine. A volte, specialmente verso sera, la febbre tornava al giovane, che dava in ismanie disperate: Leona gli sedeva accanto, gli asciugava la fronte umida e ardente, gli porgeva da bere, lo confortava con le buone parole e con i baci. Quando Paolo accennava di voler riposare, ella si buttava sul divano e sonnecchiava; ma a una voce, a un soffio del malato, balzava in piedi, gli si accostava, gli domandava ansiosamente se desiderasse qualcosa, non si stancava di prodigargli tutte le cure più umili e più affettuose.

Le notti cominciavano a diventare lunghe e un po’ rigide. Fino a ora tarda Leona rimaneva a tenere compagnia all’infermo, che andava migliorando: gli leggeva dei libri, gli raccontava una parte della sua vita, gli cantava delle canzoni del suo paese, per addormentarlo, com’ella diceva con un bel sorriso infantile.

Una sera Paolo le domandò:

- Ma come sei venuta, dopo quello che c’è stato?...

Ella arrossì fino alla cima dei capelli; voltò la testa dall’altra parte, e rispose piano:

- Così.

- Ma pure?...

- Così. Perché ti amo.

- Ma se mi ami, perché mi hai trattato a quel modo?...

- Perché... così. Ma non parliamo di ciò, ti prego. Che t’importa? Non ti basta che ti ami? Non volevi questo?

E non c’era verso di cavarle altro di bocca. Paolo provava una sensazione assai dolce, avendo quella fanciulla vicino a sé, mentre egli era malato. Essendosi accorto che ella lo carezzava durante il sonno, perché il dottore aveva ordinato che non lo disturbassero, certe sere fingeva di addormentarsi. Allora Leona gli prendeva una mano, gliene baciava a una a una le dita, gliene baciava la palma, gliene baciava il dorso; poi lo baciava piano sugli occhi sulla lacerazione quasi già cancellata del viso, sulla bocca, pianamente, mormorando delle parole spagnole con la voce gonfia di tenerezza:

- Pobrecito!... Amar de mi alma!... Gachòn mia!... Hijo mio! Hijo mio!...

E durava così per qualche ora, finché Paolo non faceva un movimento un po’ brusco. La ragazza allora, spesso con le lacrime agli occhi, s’allontanava in punta di piedi e si metteva in ginocchio davanti al divano; cavava dal petto una corona e un abitino della Madonna, e pregava con un ardore così sincero, che nessuno avrebbe riconosciuto in quella fanciulla devota, dall’acconciatura modesta e dimessa, dalla pietà viva e profonda, la cavallerizza del Circo equestre dei fratelli Balzano.

Come Paolo era entrato in convalescenza, i suoi amici erano venuti a trovarlo e a fargli un po’ di compagnia. Spesso la Leona era uscita per qualche compera; e allora, come ognuno può immaginarsi, il discorso cadeva sull’inaspettata dedizione della ragazza, in città non si era parlato d’altro: tutti volevano spiegare la cosa secondo il proprio criterio. Chi raccontava che ella aveva avuto una scena violenta con il direttore della compagnia, il quale aveva creduto compromessi i suoi affari da quello scandalo, e non l’aveva voluta più seco: onde ella si era arresa per disperazione; chi trovava mille argomenti per sospettare che Leona era stata sempre innamorata di Paolo e gli aveva resistito per la sua onestà, ma non aveva più potuto far forza a se stessa, quando l’aveva saputo malato, e malato per cagion sua; chi si contentava di alzare le spalle e di esclamare che le donne sono tutte pazze; il duca di Sant’Elmo diceva che la sera del fatto, essendo andati parecchi amici a trovare Leona e avendole descritto lo stato di Paolo, ella da prima si era fatta pallida e aveva chiesto i più minuti particolari; poi, così senza ragione, era scoppiata in un pianto dirotto, ed era fuggita in un’altra stanza, lasciando alla cameriera la cura di accompagnarli alla porta.

Quando Leona tornava, tutti tacevano. Ella salutava senza imbarazzo, come se non fosse accaduto mai nulla, e andava a sedere vicino a Paolo, senza curarsi dei visitatori, i quali, dopo essere rimasti un poco a guardarsi in viso, si levavano e uscivano. Allora la donna gettava le braccia al collo del convalescente, lo copriva di baci e gli diceva in quel suo bizzarro e dolce linguaggio, misto di castigliano e di italiano, che pareva il cinguettio di un uccello:

- Me quieres? dimmi que me quieres, niño mio. Come sei bello! come sono belli i tuoi occhi! come sono belli i tuoi capelli! Tu non sai come ti amo, chico!

Egli allora cercava di attirarla a sé, per ricambiarle le carezze; ma ella, dolcemente, glielo impediva.

- No, no, sei ancora tanto debole! - gli diceva.

Ma non si sentiva la forza di resistergli troppo; e si lasciava lei pure carezzare e baciare le mani, gli occhi e la bocca, sorridendo con una certa vergogna. Ella non accennava mai nei suoi discorsi alla scena di Villa Borghese; ma ricordava molti particolari antecedenti, ai quali egli non s’immaginava punto che ella avesse badato. Una sera, mentre lei gli teneva sollevata la testa, perché gli erano tornate le trafitture alle tempie, e divideva un gelato con lui, Paolo le chiese:

- Quando hai cominciato ad amarmi?

- La prima volta che ti ho veduto - rispose lei semplicemente.

- E perché non me lo hai detto?

- Perché non volevo essere la tua amante, allora.

- E ora?

Con un atto di grazia indefinibile, ella gli abbandonò la bella testa bruna, dai capelli abbondanti e impregnati di un profumo caldo, sul seno. Egli si divertì a scioglierle la massa dei capelli neri, ad affondarvi dentro la faccia, il collo, le mani.

- Ahi! ahi! - gemeva lei ogni tanto ridendo e cercando di divincolarsi.

- Ah, come mi fa bene! ah, come mi fa bene! - diceva lui respirando quel profumo acre e penetrante.

Ma come ella vide che gli occhi gli si accendevano, si trasse indietro, si raccolse in fretta i capelli sulla nuca e minacciò il giovane, levando il dito per chiasso, e dicendo:

- Guarda, che se non stai buono, vado via.

- No, non mi lasciare, non mi lasciare più, mai, mai! - esclamava Paolo ricadendo sul letto, indebolito.

- Oh chico, oh chico mio! - rispondeva Leona, tornando ad avvicinarsi, con una gran tenerezza nel volto e nella voce.

In quello stato di leggerezza e quasi di rinnovellazione che è la convalescenza, Paolo faceva spesso dei progetti per godersi meglio il suo amore, il suo primo e splendido amore. Bisogna lasciare Roma: in questo Leona era d’accordo con lui; e quando ragionavano di ciò che farebbero, lei non mancava di dirgli con un accento pieno di stanchezza e di desiderio:

- Oh portami via, portami via!

Dove sarebbero andati? che importava, a patto che fossero soli e felici. Egli si ripeteva dei versi di un poeta che aveva letto, fantasticando, altra volta:

Fuggir lontano, ignoti al mondo, insieme,
Senza un addio, dimenticare! O rive
Dove s’intaglian per le sere estive
Gruppi immoti di palme, e l’aria freme
Di penetranti balsami impregnata,
e cala a balzi l’antilope, e guata!

E l’immaginazione, abbandonata a se stessa in quelle ore di ozio languido e lento, gli rappresentava paesaggi incantevoli dove poter nascondere l’amor suo a tutti gli uomini: rive d’oro sul mare silenzioso; boschi profondi e fragranti di palme e di pini; vasti giardini di rose illuminati dalla luna; asili innumerevoli di piacere e d’amore.

Anche Leona, gli occhi fissi e largamente aperti, lo seguiva in quei pellegrinaggi ideali; e quando egli aveva finito di descrivere quei luoghi evocati e animati dall’ardore del suo desiderio, ella batteva le mani come una bambina, e gridava:

- Oh, andiamo là! andiamo là!

Quando Paolo poté levarsi dal letto, la sua prima cura fu quella di provvedersi di un orario delle ferrovie, per studiare il viaggio che avrebbero fatto. Come si avvicinava il giorno che egli avrebbe potuto mettere a effetto il suo disegno, cominciava a interessarsi dei particolari; scriveva delle lettere ad amici lontani e conferiva coi vicini, per procurarsi i mezzi di vedere avverato il suo sogno. Aveva fatto venire delle sarte perché Leona si provvedesse di abiti per l’inverno imminente; ella aveva molti gioielli e altri lui gliene aveva comprati; l’appartamentino era tutto ingombro di casse, di bauli, di scatole, di arnesi per viaggio. Oramai si sentiva forte, benché il dottore gli raccomandasse sempre il riposo; e quando non si occupava del viaggio, passava il tempo a guardare la sua amante, a guardarla lungamente, tenendole strette le mani; tanto gli pareva incredibile che fosse lei, proprio lei, che stava con lui, in quella casa, sola, in potere suo, umile e devota come una schiava. Gli amici, seccati alla fine di quella storia, non erano più venuti; e Leona, come diceva a Paolo, li ringraziava dal più profondo del cuore.