L'avvenire!?/Capitolo quattordicesimo

Capitolo quattordicesimo

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Edward Bellamy - L'avvenire!? (1888)
Traduzione dall'inglese di Anonimo (1891)
Capitolo quattordicesimo
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CAPITOLO QUATTORDICESIMO




Durante la giornata piovve forte, sicchè supposi, che lo stato delle strade, avrebbe costretto i miei ospiti a rinunciare al progetto di andar a pranzo fuori, sebbene la trattoria, a quanto mi avevano detto, fosse vicinissima a casa. Fui quindi assai stupito di vedere, all’ora fissata, le signore pronte ad uscire, ma senza ombrelli.

Quando fummo in istrada, il mistero fu chiarito, chè scorsi una solida ed impermeabile tettoia al disopra del marciapiede, il quale era così convertito in un chiaro ed asciutto corridoio, ove circolavano uomini e signore in abito elegante. Editta Leete, accanto alla quale camminavo, fu sorpresa nell’udire che, a’ tempi miei, le vie di Boston, nei giorni piovosi, erano inaccessibili a chi non fosse munito di paracqua, di stivaloni e di abiti pesanti.

«Non si usavano dunque i ripari di marciapiede?» chiese ella.

«Si usavano; ma isolatamente e senza sistema», risposi, «erano imprese private».

Essa, allora, mi disse che tutte le vie erano, col cattivo tempo, così riparate; l’apparecchio veniva poi avvoltolato quando non era più necessario».

Il dottor Leete, che ci precedeva, udì la nostra conversazione e si volse indietro per dirci che si riconosceva la differenza, tra il secolo dell’individualismo e quello della generalità, alla circostanza che, nel secolo XIX, quando pioveva, vi erano a Boston trecento mila ombrelli aperti su trecento mila capi, mentre nel 20°, un solo riparo bastava per tutte le teste.

Editta mi disse: «Il paracqua è la figura che il babbo predilige per illustrare il vecchio sistema in grazia del quale ognuno pensava solo a sè ed alla propria famiglia. Nella galleria dei quadri, ve n’è uno del secolo XIX che rappresenta una folla; ogni uomo ha un’ombrello con cui ripara sè e la propria moglie, lasciando [p. 82 modifica]che l’acqua goccioli sul vicino; mio padre asserisce che l’artista ha voluto lanciare una satira alla sua epoca».

Entrammo in un vasto edifizio che rigurgitava di gente. In causa della tettoia, non potei vederne la facciata; ma se essa corrispondeva all’interno, che era più bello di quello del magazzino, doveva essere grandiosa e la mia compagna mi disse che il gruppo scolpito sull’ingresso era ammiratissimo. Salita una scalinata, attraversammo un largo corridoio ai lati del quale erano molte porte ed entrammo in una di esse su cui stava scritto il nome del mio ospite. Ci trovammo allora in un’elegante sala da pranzo con una tavola apparecchiata per quattro persone. Le finestre davano su di un cortile in mezzo al quale si ergeva una fontana, ed una musica soave risuonava.

«Sembra di essere a casa», dissi, dopo che ci fummo seduti a tavola e che il dottor Leete ebbe toccato il campanello elettrico.

«Questa è appunto una parte della nostra casa, un po’ divisa però dal resto», aggiunse egli. «Ogni famiglia nel circondario può avere in questa trattoria, una camera a lei riservata, purchè paghi un piccolo affitto annuo. Per gli ospiti di passaggio e per le persone sole vi sono sale in un altro piano. Quando vogliamo mangiar qui, avvisiamo la sera antecedente; il pasto può essere semplice o grandioso a seconda del nostro desiderio; però tutto costa assai meno ed è migliore che se dovessimo ammannirlo a casa. Non v’è cosa alla quale il popolo s’interessi maggiormente, quanto al provvedimento delle vettovaglie ed alla cucina, e confesso che ci prevaliamo alquanto del successo ottenuto in questo ramo del servizio. Caro signor West, non posso figurarmi nulla di più umiliante dei cattivi pasti che, i ricchi eccettuati, si dovevano fare ai vostri tempi».

«Niuno può pensare a confutarvi» dissi. Allora comparve il cameriere, un bel giovane che vestiva una specie d’uniforme; lo guardai ben bene, che era la prima volta che mi era dato di osservare un membro dell’esercito industriale; quel giovanotto doveva essere ben educato, e, sotto vari rapporti, uguale a quelli che serviva. Il dott. Leete parlava col giovanotto con fare da gentiluomo, senza alterezza, ma senza nemmeno cadere in un [p. 83 modifica]tono di preghiera, ed il contegno del cameriere era semplicemente quello di una persona che si applica ad adempiere bene il compito assegnatole, senza famigliarità nè umiltà soverchia. Era quello il contegno di un soldato sotto le armi, privo però della rigidezza militare. Quando egli fu uscito dalla stanza, dissi: «Sono assai stupito di vedere che una persona appartenente alla servitù, abbia l’aria di essere sì contento del proprio impiego».

«Che cos’è la servitù? Non ho mai udito questa parola». disse Editta.

«È una parola fuori d’uso», osservò suo padre. «Se non erro, essa si riferiva a persone che facevano, per conto d’altri, un lavoro spiacevole e noioso; ed aveva un significato dispregiativo. Non è così signor West?»

«Sì, all’incirca», risposi. «I servizi personali, come il servire a tavola, facevano parte del lavoro della servitù ed erano, ai giorni miei, considerati come talmente abbietti, che una persona istruita avrebbe preferito sopportare la miseria che acconciarsi a far ciò».

«Che idea strana e stiracchiata», esclamò la signora Leete assai sorpresa.

«Eppure questi servizi erano necessari», disse Editta.

«Naturalmente», risposi; «ma noi li conferivamo ai poveri od a coloro cui non rimaneva altra scelta se non volevano morir di fame».

«E così, disprezzandoli, rendevate ancora più dolorosa la posizione che loro imponevate», osservò il dottor Leete.

«Non capisco bene,» disse Editta. «Intendete forse dire che permettevate che taluni facessero cose, che meritavano il vostro disprezzo, oppure che accettavate da altri, servizi che voi stessi non avreste mai consentito a prestar loro? È impossibile che la pensaste così, signor West?»

Dovetti dirle che le cose stavan proprio così; ma il dottor Leete venne in mio aiuto.

«Affinchè possiate comprendere lo stupore di Editta», disse, «occorre che vi dica, che noi abbiamo un principio etico per cui l’accettare da altri un servizio che, in caso di bisogno, noi [p. 84 modifica]non saremmo disposti a prestargli, è considerato cosa spregevole, quanto il chiedere ad imprestito danaro con l’intenzione di non restituirlo mai. Il costringere poi una persona a renderci quel servizio, approfittando della sua povertà e della sua bassa condizione, sarebbe un delitto uguale ad un furto. Il difetto maggiore dei sistemi che dividono gli uomini in classi ed in caste, consiste nell’affievolire il sentimento di un’umanità comune; la ripartizione disuguale delle ricchezze e più ancora la differenza d’istruzione, dividevano, a tempi vostri, la società in classi, i cui membri si consideravano come uomini diversi fra loro.

Non v’è però gran differenza fra ciò ed il nostro modo di spiegare la quistione del servizio; all’epoca vostra i signori della classe colta non avrebbero certamente chiesto, ad un loro simile, di prestar loro un servizio, che essi stessi avrebbero avuto vergogna di restituire; i poveri e gl’ignoranti venivano da loro considerati come uomini diversi. Ora invece, una ricchezza uguale e l’occasione di istruirsi tutti ugualmente, ci han fatti tutti membri di una sola classe, che corrisponde alla vostra classe privilegiata. L’idea dell’unità del genere umano e della fratellanza di tutti gli uomini, non poteva avverarsi se non dopochè fosse divenuta realtà l’uguaglianza di tutte le classi sociali. Queste eran frasi che si usavano ai giorni vostri, ma non erano che frasi».

«I camerieri sono essi volontari?»

«No,» rispose il dottor Leete «i camerieri fan parte dell’esercito industriale, essi non appartengono ancora a nessuna classe, e possono quindi provare quelle occupazioni che non richiedono un’abilità speciale, tale è il servire a tavola: sicchè ogni giovane recluta può farlo facilmente. Io stesso, quaranta anni fa, ho servito in questa trattoria, e vi ripeto che non v’è lavoro, imposto dalla nazione, che non sia più o meno dignitoso. L’individuo non vien tenuto come servitore da quelli che serve; nè si considera come tale, essendo da loro indipendente; egli serve soltanto la nazione. Non v’è nessuna differenza fra un cameriere ed un operaio; l’idea che egli serve, non ha nessuna influenza sulla nostra considerazione, poichè anche un dottore serve. Se io guardassi dall’alto un cameriere, egli potrebbe farlo con me quando io lo servissi come dottore». [p. 85 modifica]

Dopo pranzo i miei ospiti mi fecero visitare l’edifizio di cui ammirai, sorpreso, la vastità, lo splendore architettonico e la ricca ornatura. Non pareva una semplice trattoria, ma anche un luogo di ritrovo socievole del circondario, perchè non vi mancava nulla per divertirsi e per distrarsi.

Siccome esprimevo la mia ammirazione, il dottor Leete disse: «Voi trovate qui illustrato quanto vi dissi nel nostro primo colloquio, mostrandovi la vista della città, circa lo splendore della nostra vita pubblica, paragonato con la nostra vita privata e domestica e circa il contrasto che, in ciò, esiste fra il nostro ed il secolo XIX. Allo scopo di evitare fastidi inutili, in casa teniamo soltanto ciò che è puramente necessario al nostro benessere; ma la nostra vita sociale è regolata con un lusso tale che mai il mondo non vide l’uguale. Ogni corpo industriale o professionale ha un club come questo; oltre poi a casini di campagna, in montagna o in riva al mare, per riposarsi o divertirsi durante le vacanze».