Sfila la corte del principe della Chiesa

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Zirolamo Losco è costretto a certificare che i lupi hanno sbranato quattro giumente di casa Gonzaga. La Mirandola riceve festosamente il cardinale d’Este, giunto con la propria corte per negoziare il matrimonio della figlia con Ludovico Pico. Annibale convalescente scrive le prime ottave di una favola in versi


La città è deserta, tutti gli abitanti sono usciti da porta Bonaga, sulla strada di Modena, in attesa dell’arrivo del cardinale. A Losco non importa del cardinale, deve consultare il dottor Cavizzani, ma a casa del notaio non è rimasta che una vecchia serva, che gli riferisce che il dottore è a castello, con i dignitari della signoria, per ricevere sua eminenza. Costretto ad attendere che si concluda la cerimonia, si dirige alla porta e si mescola alla folla in attesa ai lati della strada.

Al sole del breve pomeriggio invernale l’attesa è fervente. Passa, a intervalli di un quarto d’ora, una staffetta a cavallo, tutti si chiedono quali notizie porti: sua eminenza ha lasciato, a Modena, il palazzo offertogli dal governatore, o, per un impedimento, ha rinviato la partenza? Solcano la folla in attesa venditori di lupini salati e di castagne secche, la gente mastica e conversa. Finalmente passa al galoppo un cavallerizzo che grida "Arriva! Arriva!" Trascorrono lunghi minuti, si odono trombe e tamburi: su cavalli bianchi, i musicanti rivestiti dei colori degli Este sfilano al trotto, seguiti dalla schiera dei cortigiani con i mantelli da viaggio e i grandi cappelli piumati: brillano le borchie dei finimenti, gli speroni, l’elsa delle spade.

Segue i gentiluomini della corte un drappello di negri, in costume giallo e turbante, che incedono di corsa, ciascuno conducendo, al guinzaglio, un giaguaro o una coppia di levrieri: sono gli schiavi neri di Ippolito, per la loro prestanza oggetto di invidia da parte di tutti i signori d’Italia. Dopo schiavi e giaguari passano tre carrette di nani, buffoni e saltimbanchi, che nel gran clamore di sonagli e trombette, arringano chi, nella folla, non riesca loro gradito: "Tu con quel naso che ti fa fiutare una merda a tre miglia, soffialo, è pieno di caccole, così sentirai le merde a quattro miglia!" "Bella donna con quelle poppe che paion canestri, chissà il burro e il formaggio che ci cavi! Ma è quaresima, e di quaresima il burro paga penitenza!"

Dopo un’altra schiera di uomini d’arme passa, portata da quattro mule candide, la lettiga del cardinale, che si affaccia e saluta con un gesto largo della mano. Quando vede un gruppo di ragazzetti lancia una moneta d’argento e sorride al vedere i monelli contenderla ruzzando nel fango. Segue la lettiga la schiera dei servi, che cavalcano rozze e ronzini, qualcuno tenta di contarli, ma il numero scoraggia l’impresa. I più tenaci arrivano a computarne trecento, ma sono certi di non esser riusciti a numerarli tutti. Dopo la servitù passano tre carrozze di donne giovani e belle, che salutano la folla sventolando veli e cappelli. Tutti gridano: "Al putani dal cardinal! Al putani dal cardinal!" Al grido le belle moltiplicano l’impegno a salutare chi le acclama. "Quanto vuoi per questa sera?" grida un popolano ardito a una bionda che gli ha inviato un bacio. La risposta è un gesto osceno della mano sinistra appoggiata sull’avambraccio destro. Seguono altri servi, poi una coorte di alabardieri con le insegne di Francia: la scorta militare che sua maestà Arrigo provvede al suo legato in Italia.

Il corteo solca la folla che applaude, sua eminenza saluta con benevolenza, la portantina attraversa la piazza e si arresta sul sagrato della pieve. Tutta la corte della Mirandola fa ala attorno al veicolo che porta il principe della Chiesa. Quando due servi neri aprono lo sportello, e porgono il braccio a Ippolito per aiutarlo a superare il gradino, assolvendo alle incombenze di autorità ecclesiastica della città, Giuseppe Bernardi avanza verso l’ospite e pronuncia la solenne formula di benvenuto: "Benedictus qui venit in nomine Domini!" Si prosterna, quindi, per baciargli la mano. Il cardinale d’Este riconosce il chierico e lo rialza con un gesto familiare: "Il maestro del mio caro amico Farnese! Il dotto monsignor Bernardi: quale piacere, monsignore! Non ancora vescovo, ma presto, presto!" Si dirige, quindi, verso Ludovico Pico, che, la destra distesa sul petto, reclina le spalle nell’inchino più profondo che la ragion di stato consenta ad un principe davanti ad altro principe, laico o chierico. Ippolito lo trae con le due braccia a sé e lo bacia con familiarità. Tutti gli astanti applaudono.

Il cardinale e il conte entrano in chiesa, li segue Bernardi col cappellano del cardinale, poi, accoppiati secondo l’autorità rispettiva, i dignitari delle due corti. Giunto all’altare, Bernardi impugna il turibolo e dirige nuvole di incenso verso il crocefisso e verso il legato di Cristo. "Te Deum laudamus!" intona con la voce forte e armoniosa. "Te Dominum confitemur!" risponde il coro di cappella, cui si unisce la voce di dignitari e uomini d’arme. La pieve della Mirandola è incapace di contenere, insieme, le due corti e la cittadinanza: dopo i dignitari del seguito di Ippolito entrano in chiesa i rappresentanti delle corporazioni cittadine, poi il maestro di casa del cardinale pretende che entrino le donne del seguito, che non possono mancare, palesemente, di rendere grazie al Signore del cielo per la munificenza del suo ministro in terra.

Contadini e braccianti restano sul sagrato, a dilettarsi delle movenze di giaguari e levrieri, che con i guardiani pagani il maestro di casa di Ippolito non ha preteso entrassero in chiesa. Anche i nani, che teologi autorevoli dichiarano non possedere l’anima, restano, sui loro carri, sul sagrato della pieve: per riscaldarsi, o per ricambiare l’attenzione che rivolge loro la folla, si esibiscono in qualche gioco di destrezza, in qualche gesto scurrile, nel lazzo per chi, tra la gente, ne susciti l’antipatia. Mentre un ragazzino di particolare ardimento chiede a uno schiavo di accarezzare un giaguaro, e una donna nota, alla Mirandola, per la venalità delle attenzioni scambia battute non propriamente pudiche con un giocoliere, promanano dal portale della pieve le note solenni del Te Deum.

Non potendo entrare in chiesa Zirolamo si dirige verso casa, entra, trova la cucina deserta, ma sente voci dalla stanza in cui giace il ferito, si chiede, salendo la scaletta di legno, chi abbia rinunciato allo spettacolo della corte cardinalizia per affetto di Annibale, che trova seduto, avvolto in una coltre. A lato del letto Isabella Cavizzani, in bella veste di velluto verde, siede a un tavolinetto intarsiato, sul quale è dispiegato, alla luce di tre candele, un foglio bianco. Sui piedi del malato, segno di grande familiarità, è posato un ricco copricapo femminile, ornato di piume esotiche. La ragazza impugna una delle penne del padre, che intinge in un grande calamaio d’argento. Attorno, Aloisia e quattro amici fanno corona. Erminia fissa la scena, muta, da un angolo.

Divertito, Zirolamo chiede se, appena uscito dal pericolo, Annibale abbia deciso di fare testamento, e la ragazza di sostituire il padre. Insofferente dell’interruzione, Isabella spiega che Annibale ha composto un poema straordinario, e che, siccome non può usare la destra, lei si ha fatto portare l’occorrente per trascrivere i versi su un foglio. Enunciata la spiegazione impone silenzio e ordina al trovatore di recitare. Annibale obbedisce, la voce è ancora incerta ma chiara. Pronuncia i versi lentamente, sottolineando con grazia le rime:


"Al fine più remoto della terra
si stende il regno oscuro di Lapponia,
che verdi campi e vigne non rinserra,
ma a differenza dell’aprica Ausonia
sempre da’ venti è percosso in tal guerra
che del diaccio può dirsi la colonia,
e tutto è galaverna e freddo e gelo,
e la neve par alta fino al cielo."

Alla rima dell’ottava Isabella posa la penna nel calamaio, applaude, prende la mano del poeta e la porta alle labbra, sfiorandola con gentilezza. Aloisia si unisce all’entusiasmo della giovane patrizia, posando la mano, con familiarità sulla spalla dell’uomo di cui la vicinanza della morte ha fatto quasi una parte della famiglia. Isabella chiede conferma a Zirolamo dell’armonia dei versi, completa la scrittura e comanda al cavaliere di continuare. Annibale si schermisce appena, ma, divertito, declama con la facondia che gli consentono le forze non ancora ritrovate:


"In quel paese d’aere tanto strano
viveva un cavaliere giovinetto
di nome Taar, nipote del sovrano,
ch’avea nel cacciar fiere gran diletto.
Lupi ed orsi cadeano in sua mano,
per non dir d’animale piccioletto:
tassi, volpi e cerbiatti alla boscaglia
nessun potea fuggir la sua zagaglia."

Erminia interviene dichiarando che Annibale ha ordine dal medico di non affaticarsi, neppure parlando, Isabella ribatte che ha recitato appena due ottave, e che tutti i cavalieri alloggiati alla Mirandola debbono conoscere una creazione tanto singolare. Respingendo ogni protesta impone al poeta di continuare, il poeta obbedisce:


"Il sol che pur disdegna le contrade
che dell’Orsa fan perno al maggior lume
non spinge tanto a segno crudeltade
da negar tutto l’anno ogni barlume,
e al solstizio vi accende breve estade
ricolmando la neve ogni fiume.
Sconfitto il verno è quello il tempo breve
dell’anemon, mughetto e bucaneve."

Erminia rinnova, con veemenza, la protesta, Isabella chiede a Annibale se sia stanco, il poeta non osa schermirsi e domanda a Losco, con cortese sottomissione, la facoltà di dettare un’altra ottava. Lo stimatore non sa negare, evitando lo sguardo della moglie autorizza la recitazione.


"Era al principe questa stagion cara
per correre a cavallo prati e lande,
fermare il palafren a fonte chiara
e unir rose di macchia in ghirlande.
Né era d’altri fior la terra avara,
bianchi, rossi, turchini in messe grande.
Taar di colori empiva gli occhi e il cuore
dolente che splendesser poche ore."

La ragazza rinnova l’espressione di plauso caloroso, proclama che Annibale è poeta sommo, degno di sedere alla mensa dei maggiori signori della terra, il duca di Ferrara, Arrigo di Francia o l’imperatore Carlo. Tutti assentono. Erminia, imbarazzata, tace.