La giostra di carnevale

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La Mirandola festeggia carnevale con un torneo in cui i colori locali si confrontano con quelli ferraresi, modenesi, mantovani, francesi e con quelli dei cavalieri banditi. Negli intervalli si conversa di lettere e politica. Nello scontro col conte Annibale è ferito mortalmente.


Avanzando l’inverno la Mirandola si immerge nel torpore, che in un borgo di contadini e signori terrieri è più greve dopo l’estate avara di messi e l’autunno travagliato dalla calamità. Chi ha riparato in solaio qualche sacco di grano ne porta ai mulini sulla Secchia, nelle belle giornate, qualche staio, e trasforma la farina in pane con oculata parsimonia. I giornalieri che non hanno riposto nulla sono costretti a mendicare: mandano sulla strada prima i bambini, poi le donne, poi, spesi gli ultimi soldi nella bettola, anche gli uomini stendono la mano sulla strada.

La città si rianima per Natale, i signori imbandiscono le mense, i meno ricchi attingono senza parsimonia alla madia, festeggiano pancetta e salame ricavati dal pezzo di porco acquistato da chi ha trasformato in denaro metà della bestia. I conventi offrono minestre ai poveri, il prevosto distribuisce qualche soldo tra calorose benedizioni di ringraziamento. A capodanno nelle famiglie patrizie si fa festa, la città è invasa dalle maschere, nelle osterie si spilla vino nuovo dalle poche botti ricavate dall’uva salvata dall’alluvione. Muniti i cavalli di ferri sagomati per volteggiare sul ghiaccio, i giovani delle buone famiglie si cimentano, in piazza, in giostre improvvisate: gli sfaccendati, d’inverno l’intera plebe cittadina, si affollano attenti al roteare, da cui cercano di individuare i più valenti, per prevedere chi trionferà nell’evento cavalleresco dell’anno, il torneo di carnevale.

Al succedersi delle settimane i preparativi si fanno febbrili, le prove di cavalli e cavalieri si moltiplicano nonostante la neve, che ricopre ripetutamente la piazza, operai infreddoliti delimitano, nel grande quadrangolo, il campo di gara ed erigono le tribune, che gli ultimi giorni sono addobbate di tele colorate, ornate di orifiamme e gonfaloni. Martedì 10 febbraio, l’ultimo giorno di carnevale, la giostra della Mirandola raccoglie il fiore della cavalleria d’Italia, con appendici illustri di quella di Francia. Ai raggi vividi del sole, che a mezzogiorno soverchia la bruma per onorare i fasti equestri, sventolano sulla tribuna le insegne dei Pico, i gigli di Francia, gli stendardi di Modena, di Ferrara e di Mantova. Sotto le insegne, al centro del podio siede Ludovico Pico in abito di broccato, una grande medaglia sul petto, lo circondano i familiari, la nipote Renata, figlia di Guido Rangon e di Lucrezia Pico, la sorella morta improvvisamente l’anno precedente. Consapevole del ruolo di regina della festa la giovane, che non ha compiuto diciassette anni, rifulge nel damasco turchese.

Attorno al conte ufficiali e dignitari, il segretario Rossello, il podestà Ferrucci, il capitano Senzani, il prevosto Bernardi. Tra gli ospiti d’onore, alla destra di Ludovico siede il visconte di Thèrmes, plenipotenziario in Italia del cristianissimo sire di Francia, alla sua sinistra Francesco d’Este, fratello del signore di Ferrara e di Modena, alle cui giostre ha preferito quella mirandolese. I gentiluomini del seguito sono seduti nel palco sottostante, dove hanno preso posto anche gli ufficiali che rappresentano l’eminentissimo marchese di Mantova.

Davanti alla tribuna si distende la lizza, delimitata da una transenna guardata dagli alabardieri. Oltre la transenna si accalca il mare della folla, che ricolma la piazza dalla prima mattina. Al limite della piazza, su sei padiglioni variopinti, sventolano le insegne della Mirandola, due leoni rampanti e due aquile ad ali spiegate, quella della Francia, delle tre città i cui campioni si misureranno sul campo, l’insegna nera dei cavalieri banditi dalla loro terra, che alla Mirandola attendono l’occasione del ritorno e della vendetta.

A eccitare l’attesa sfilano bandiere e gonfaloni, i cui portatori si esibiscono in saggi di destrezza. Intirizzita dalla lunga attesa, la folla freme impaziente. Finalmente, dopo l’ennesimo gioco di bandiere, rullano i tamburi, il conte leva un braccio, squillano le trombe, dalle estremità della piazza le sei squadre si avvicinano all’arena, sfilano allo sventolare dei propri colori, si arrestano, abbassano le aste in segno di ossequio al conte, si dispiegano, tra le grida di incitamento, ai margini della lizza. I padrini scendono dalla tribuna, la folla ammutolisce, vola in aria una moneta, vola di nuovo, la sorte decide che i cavalieri ferraresi si misurino con quelli di Mirandola. Sei campioni di un colore si dispongono a fronte di sei dell’altro, le altre squadre trottano verso i padiglioni. Attorno ai combattenti gli scudieri si affaccendano solerti, si aggiustano cinghie e staffe, si cambiano lance. La folla è muta. Ludovico alza un braccio, rullano i tamburi, gli scudieri lasciano i campioni, le trombe squillano, i cavalieri si lanciano verso gli avversari, nel silenzio si ode un cozzo fragoroso, seguito da un grido solo della folla: urla chi ha visto, urla più forte chi non può vedere. Dei dodici sfidanti sono rimasti in sella due mirandolesi e tre ferraresi, gli scudieri circondano i cavalieri caduti, arrestano il cavallo che trascina, per la staffa, un campione disarcionato, fermano gli altri. Tra la folla tutti chiedono e propinano informazioni sui caduti: uno perde sangue, molti gridano che sarebbe morto. Lentamente la lizza viene sgomberata. Con lance nuove i due mirandolesi affrontano due dei ferraresi. “Niccolò! Niccolò! Ferrante! Ferrante!” grida la folla incitando i campioni della città, Niccolò Papazzoni e Ferrante Personali. Si ripete l’attesa, il suono delle trombe, il cozzo, il grido: la folla impazzisce per i paladini della città.

Entrambi i ferraresi cadono a terra: l’ultimo ferrarese dovrebbe superare, ora, uno dopo l’altro, gli avversari superstiti. Si scontra col primo, entrambi restano in sella, si ripete lo scontro, il ferrarese viene disarcionato, la piazza prorompe in un solo grido: “Ferrante! Niccolò!”



Ludovico si è seduto, ma non impartisce l’ordine di suonare le trombe: tornando dal padiglione della città il maestro di casa gli ha riferito che uno dei campioni della Mirandola è stato colpito dalla lancia dell’avversario sulla destra, il guanto ha protetto la mano, che però si è gonfiata, nell’interludio, tanto da non poter più reggere l’asta. Ludovico Pico ha mandato il suo medico, poi un ciambellano, ma le notizie sulla mano infortunata sono sempre peggiori. Finalmente, percepita l’impazienza collettiva, alza il guanto, i trombettieri soffiano negli strumenti, dai padiglioni i cavalieri che hanno superato le prime prove trottano verso la lizza e ne percorrono il periplo. Tre portano i colori della Francia, tre la fascia nera degli sbandati, due le insegne della Mirandola. Rullano i tamburi, padrini e giudici di gara scendono in campo, la piazza brulicante sprofonda nel silenzio di un chiostro. Vola una moneta, vola ancora: i palafrenieri conducono alle estremità della lizza un cavaliere francese e uno degli sbandati, squillano due volte le trombe, i duellanti si lanciano verso il centro della giostra, nella piazza perdura il silenzio di un incantesimo. Un attimo e l’incanto è rotto da un solo grido: ambedue gli avversari hanno spezzato le lance sullo scudo opposto, ambedue hanno retto al colpo e trattengono lentamente il cavallo raggiungendo le estremità opposte.

Corrono i nomi dei due campioni: lo sbandato è, ancora, Gagliardo, del francese qualcuno dice si chiami signore della Venta, qualcuno dice della Vendita. Al limite della lizza gli sfidanti si volgono e si preparano, circondati dagli scudieri, al nuovo scontro. Tra le grida della folla impazzita resistono al secondo urto, al terzo il cavaliere francese perde lo scudo, e i giudici gli vietano di ripetere la prova. Tra acclamazioni entusiaste si appresta al confronto il primo cavaliere mirandolese, che fronteggia il secondo duellante che porta i gigli di Francia. Una voce sola grida "Ferrante! Ferrante!" Squillano le trombe, squillano ancora, i cavalieri si lanciano alla carica, entrambi sostengono l’urto, al secondo cozzo il mirandolese disarciona il francese. La folla è impazzita, gli alabardieri stentano a trattenere i più eccitati che vorrebbero varcare le transenne per onorare il campione. Spetta al secondo cavaliere mirandolese misurarsi, ora, con uno dei tre sbandati, E’ Niccolò Papazzoni, è corsa voce che sia ferito a una mano, la folla lo incita ad una voce sola. Il campione si dispone al limite della lizza, gli scudieri gli pongono in mano una lancia, cerca di brandeggiarla, ma la lancia gli cade. La folla lancia un grido, poi ammutolisce, incerta se il campione possa correre la lizza.

I giudici si avvicinano per impedire che il duellante tenti ancora, ma un gesto imperioso del conte li arresta, i palafrenieri porgono ancora la lancia, il cavaliere riprova a brandeggiarla, la lancia cade ancora. Personali volge il cavallo e si ritira, lasciando il posto al compagno superstite, che alla terza lancia disarciona l’avversario, che pare ferito, e viene riportato al padiglione tra le braccia degli scudieri. Tutta la Mirandola grida, freme, piange per il suo campione.

La giornata di febbraio cede, ormai, alla sera, il freddo è intenso, la luce vivida si fa fioca, ma nella folla pulsa un solo cuore nell’attesa della vittoria mirandolese, che tutti ritengono certa. Sulla lizza su cui si distende, ormai, l’ombra del castello, Guglielmo Gagliardo si prepara al confronto con l’ultimo cavaliere francese, che tutti hanno appreso essere il signore di Monte Limar. Con un gioco magistrale dell’asta, il napoletano gli toglie la celata al primo urto. Restano sul campo due cavalieri sbandati contro due mirandolesi: tra grida, preghiere e rullare di tamburi i campioni della giornata, Gagliardo e Papazzoni si preparano all’ultimo scontro, al secondo segnale delle trombe è il napoletano, nella giornata più fausta, a disarmare l’avversario. Un’imprecazione sorda si leva dalla piazza verso il cielo.

Voltato il cavallo, Gagliardo è già ritto, nella prima penombra, in attesa del secondo avversario, il mirandolese dalla mano ferita, che si dispone al limite del campo, impugna la lancia, ma la perde ancora. E’ ancora un grido, ma un grido ancora più alto accoglie il gesto di Ludovico, che ferma, ancora una volta, i giudici levando il guanto che, sceso dalla tribuna, getta al centro della lizza. La folla è ammutolita, nel silenzio Guglielmo Gagliardo si profonde in un ossequioso inchino accettando la sostituzione del cavaliere ferito con il nuovo sfidante. Ludovico Pico raggiunge il limite della lizza, dove è circondato da paggi e palafrenieri, che hanno portato cavallo e armatura. La luce scema sul campo, il conte si è armato e sale a cavallo, squillano le trombe, all’urto entrambi i cavalieri reggono il colpo, il confronto si ripete con lo stesso esito, la folla leva imprecazioni verso il napoletano, che tutti gridano protetto dal demonio. Al terzo scontro Gagliardo perde lo scudo. A qualcuno è parso di vederglielo gettare dopo il cozzo, una prova di codardia, qualche voce grida "Poltrone!", ma è soffocata dalle mille che acclamano la vittoria del conte. Nessuno pensa di interpellare i giudici, che paiono essere stati fagocitati dalle tenebre.

Al limite del campo è rimasto, in attesa dell’ultimo confronto, il secondo dei cavalieri dalla banda scura, l’ultimo avversario che Ludovico deve affrontare per assicurare alla Mirandola il trionfo della giornata. Attorno al perimetro della lizza si è disposta una schiera di valletti che levano torce: la luce vigorosa ravviva quella ormai fioca del giorno. Attorno al signore della Mirandola si affollano gli scudieri, la folla grida, i giudici si mantengono a distanza rispettosa, evitando di controllare l’asta di sua altezza: sarebbe irriguardoso. Squillano le trombe, squillano ancora, alla luce delle torce i cavalieri si lanciano uno contro l’altro, si leva un solo grido: Ludovico ha strappato lo scudo all’avversario, ma i giudici non intervengono, e il cavaliere disarmato non si ritira, né il conte dà segno di voler concedere quartiere.

Gli avversari si dispongono al limite del campo. Le trombe squillano, squillano ancora, nel silenzio che incombe sulla piazza ormai oscura si ode il fragore dell’urto, seguito da un grido di dolore, poi dall’urlo della folla trionfante: Ludovico ha disarcionato l’ultimo avversario, la Mirandola ha guadagnato la giornata. Dalla tribuna i dignitari si accalcano sulla scalinata per giungere primi a felicitarsi col loro signore. Gli scudieri trasportano, intanto, l’ultimo contendente, che i più vicini dicono sia ferito a morte. Qualcuno dice si chiami Annibale Signoruccini.