Le novelle della nonna/L'Incantatrice

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L'Incantatrice

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I Nani di Castagnaio Il grembiule di madonna Chiara
L’Incantatrice

Il lunedì che tenne dietro alla domenica in cui la Regina aveva narrato la novella per Gigino, i forestieri, che avevano pernottato al podere di Farneta, attesero presso i Marcucci la partenza del treno da Poppi, che passa a mezzogiorno; e siccome il tempo si manteneva piovoso, l’ispettore Durini approfittò di quelle ore per interrogare Maso sullo stato dei boschi che in breve sarebbero stati sotto la sua dipendenza, e gettò uno sguardo sui campi che circondavano la casa. La signora Luisa parlò molto con le donne delle faccende domestiche. Così le Marcucci seppero che ella s’era maritata da pochi anni, ed era figlia di un professore di Pisa. E siccome un discorso tira l’altro, la signora disse che si sarebbe rimessa a loro per trovarle una ragazzina che avesse voglia d’imparare, per farne, col tempo, una cameriera. A Camaldoli ella non avrebbe portato altro che una vecchia cuoca, che aveva bisogno d’aiuto. - Se le facesse la mia Annina, - disse la Carola, - io gliela darei volentieri. In casa siamo già tante donne, e io avrei piacere che s’istruisse. - Sarebbe una fortuna per me, - rispose la signora Luisa. - Fra Camaldoli e qui la distanza non è grande, e voi la potreste sempre vedere e sorvegliare. L’Annina fu interrogata, ed ella rispose, sorridendo dal piacere: - Così mi guadagnerò il corredo e non sarò più a carico alla famiglia. Beppe già guadagna qualcosa accompagnando i forestieri col trapelo, e a me rincresceva di non poter portare nulla in casa. Vedrà, signora, come sarò attenta; e se ora so far poco, col tempo imparerò. Vezzosa poi mi insegnerà a stirare, e per cucire son già capacina. Prima di partire, e mentre i viaggiatori facevano colazione, la signora riferì al marito ciò che aveva fissato con la Carola, e il signor Durini fu contentissimo della scelta. - Ora dunque, - disse la signora, - l’Annina è al mio servizio, e mi sarà permesso di farle un regaluccio. Vi prevengo però che voglio rimanere obbligata a tutta la famiglia per la cortese ospitalità che ci avete data, e queste venti lire che io offro all’Annina, sono destinate a fornirla di quelle poche bricciche che le possono occorrere per venire in casa mia. La ragazzina s’era fatta rossa dalla contentezza, ed era così confusa che non osava stringere il denaro in mano e neppure ringraziare. Lo fecero Carola e la Regina per lei; e soltanto quando la signora fu in carrozza, ella poté riaversi dallo sbalordimento. Naturalmente, tutto il giorno in casa Marcucci non si parlò d’altro che della fortuna toccata all’Annina, e siccome era mezza festa, i bimbi, che quella visita inattesa aveva lasciati in uno stato di eccitamento insolito, chiesero alla nonna la novella, che era il loro divertimento nei giorni di riposo. La Regina non si fece pregare e prese a dire:

- Al tempo dei tempi, quando la Madonna, Gesù e i santi facevano miracoli, c’era ad Arezzo, non proprio in città, ma poco fuori delle mura, verso la chiesa delle Grazie, una ragazza per nome Santina. Questa ragazza aveva un cugino chiamato Gosto, e tutt’e due, essendo parenti, eran cresciuti con l’idea di sposarsi un giorno. Ma allorché i loro genitori vennero a morte, essi dovettero allogarsi come garzone e garzona, e nella disgrazia avevan avuto la fortuna di capitare in uno stesso podere, dal medesimo padrone. I due giovani avrebbero potuto campar contenti, aiutandosi scambievolmente, ma invece si lamentavan sempre. - Se avessimo almeno di che comprare un paio di manzi e un maiale, - diceva Gosto, - si cercherebbe un poderetto e ci potremmo sposare! - Sì; - rispondeva Santina, sospirando, - ma son certi tempi, questi! Le bestie son care arrabbiate, e non c’è bene per la povera gente. - Ho paura che si debba aspettare un bel pezzo! - replicava il giovine. - Eppure, non c’è da dire che io sciupi denari all’osteria. - Ho paura anch’io, - diceva la Santina. Questi lamenti si ripetevano tutti i giorni, e, alla fine, Gosto perse la pazienza. Una mattina egli andò dalla ragazza, che vagliava il grano nell’aia, e le disse che voleva recarsi lontano a cercar fortuna. Santina si turbò molto a questa notizia e fece di tutto per trattenerlo; ma Gosto, che era un giovinotto risoluto, non volle darle ascolto. - Gli uccelli, - diss’egli, - volano sempre, finché non trovano un campo di grano, e le api girano in cerca di fiori per fare il miele. Ti pare che un uomo debba aver meno criterio di questi animali? Anch’io voglio cercare, finché non trovo ciò che mi manca, cioè di che comprare un paio di manzi e un maiale. Se mi vuoi bene, Santa, non devi opporti a questa mia risoluzione, che affretterà il nostro matrimonio. La ragazza capì che doveva cedere, e, nonostante che ella si sentisse sanguinare il cuore, disse a Gosto: - Va’, e che Dio ti assista! ma prima di partire, accetta ch’io divida con te ciò che mi lasciarono i miei genitori. Allora condusse il giovane davanti a una cassa, e, apertala, ne cavò un campanellino, un coltello e un bastone. - Queste tre reliquie, - ella disse, - non sono mai uscite dalla mia famiglia. Ecco il campanellino di san Romano, che ha un suono che si sente a qualunque distanza e avverte gli amici del pericolo che corre colui che lo possiede. Il coltello appartenne a san Donato, e tutto ciò che tocca sfugge agli incantesimi dei maghi e del Demonio; il bastone poi è quello del glorioso san Francesco, e conduce dove uno vuol andare. Ti do il coltello per difenderti dai maleficî, il campanello per avvertirmi dei pericoli che corri, e il bastone lo tengo per me, per raggiungerti in caso di bisogno. Gosto ringraziò la Santina, fece due lacrimoni nel lasciarla, poi si diresse verso le montagne. Ma appena compariva davanti a un villaggio, i poveri lo assalivano credendolo un signore, perché era pulitamente vestito. - Questa mi pare una contrada fatta più per finir quei piccioli che ho, che per metterne assieme; - disse Gosto, - andiamo più lontano. E, cammina cammina, giunse in Romagna, a poca distanza dal mare. Mentre era sulla porta di un’osteria e stava per entrarvi, sentì due mulattieri, i quali, mentre caricavano le mule, parlavano della Incantatrice dello Scoglio del Diavolo. Gosto si avvicinò ai due uomini e domandò loro spiegazioni. Essi gli risposero che l’Incantatrice non si sapeva chi fosse, né di dove venisse, che abitava uno scoglio pericoloso ed era più ricca di tutti i re della terra. - Non fate come hanno fatto tanti altri, - aggiunse uno dei mulattieri, - che sono andati allo Scoglio del Diavolo per impadronirsi dei tesori della Incantatrice. Chi va da lei non torna più. Gosto, nel sentire quest’avvertimento, fu subito punzecchiato dal desiderio di quell’avventura. I mulattieri fecero di tutto per trattenerlo e, vedendolo incaponito, ammutinarono il popolo, il quale si affollò intorno a lui e si mise a gridare, dicendo che nessun cristiano poteva lasciar correre alla perdizione un giovanotto. Gosto, vedendo la mala parata, disse che rinunziava all’impresa; ma siccome era tanto povero, pregava quelle anime buone, che dimostravano un interesse così vivo per lui, a fare una piccola colletta col provento della quale potesse comprare un paio di manzi e un maiale. Nell’udir questo, la folla si disperse, dicendo che quel giovane era un testardo e che non c’era mezzo di trattenerlo. Gosto, dunque, rimasto solo, andò in riva al mare e si fece condurre da un barcaiolo allo Scoglio del Diavolo. Questo scoglio era immenso, e nel centro di esso si vedeva uno stagno formato dalle acque del mare. Nel centro poi dello stagno vi era un’isoletta circondata di alghe e di gigli color rosa. Mentre Gosto camminava sulla proda dello stagno, vide nascosta fra un ciuffo d’erbe una barchetta celeste, che si cullava sulle acque tranquille. Quella barchetta aveva la forma di un cigno con la testa ripiegata sotto un’ala. Gosto, che non aveva veduto mai nulla di simile, si accostò a guardar la barca e poi, dopo averla esaminata da ogni lato, vi entrò dentro. Ma appena vi ebbe messo il piede, parve che il cigno si destasse; cavò la testa di sotto le penne, distese le zampe sull’acqua e si allontanò repentinamente dalla riva. Il giovane mandò un grido di spavento; ma il cigno si spinse veloce verso il centro dello stagno. Gosto allora cercò di buttarsi nell’acqua sperando di raggiungere a nuoto la sponda, e il cigno si tuffò nell’acqua trascinando seco il giovane, il quale non poteva neppur gridare, per non empirsi la bocca di acqua nauseabonda. Egli dovette dunque tacere, e così giunse alla casa della Incantatrice. Era quella tutta formata di conchiglie rarissime. Vi si giungeva da una scala di cristallo fatta in guisa che quando uno vi passava sopra, ogni scalino cantava come un uccello in primavera. Tutt’intorno vi erano vasti giardini, ove crescevano foreste di piante marine, e v’erano aiuole di alghe verdi, cosparse di diamanti invece che di fiori. L’Incantatrice era distesa nella prima stanza, sopra un letto d’oro. Era vestita di una tela color verde mare, fina e trasparente come le onde; i capelli neri erano vagamente ornati di coralli e le scendevano fino alle calcagna; il volto di lei era roseo e bianco come l’interno di una nicchia. Gosto rimase a bocca aperta vedendola così bella; l’Incantatrice si alzò allora sorridendo per andargli incontro. L’andatura di lei era leggiera come un’onda bianca che corresse sul mare, o una nuvoletta vagante per l’aria. Giunta vicino a Gosto, lo salutò dicendogli: - Sii il benvenuto. Qui vi é sempre posto per gli stranieri e per i bei giovanotti. Gosto acquistò coraggio e fece un passo avanti; allora l’Incantatrice gli domandò: - Chi sei? Donde vieni? Che cerchi? - Mi chiamo Agostino, - rispose il giovine, - vengo da Arezzo e cerco di che comprare un paio di manzi e un maiale. - Ebbene, vieni, - disse la Fata, - e non ti dar cura di nulla perché avrai tutto ciò che potrà farti felice. Ella lo aveva fatto entrare in una seconda sala tutta tappezzata di perle, dove gli apprestò otto qualità diverse di vino in otto boccali d’argento. Gosto vuotò tutti i boccali e quando gli vennero riempiti, li vuotò di nuovo; e più beveva, e più l’Incantatrice gli pareva bella. Costei lo incoraggiava, dicendogli che non doveva temere di mandarla in rovina, poiché lo stagno dello Scoglio del Diavolo comunicava col mare, e tutte le ricchezze inghiottite da esso durante le tempeste, erano ivi portate da una corrente magica. - Per l’anima mia, - disse Gosto divenuto ardito mercè il vino, - non mi meraviglio più se la gente del littorale parla male di voi! Le persone ricche hanno sempre degli invidiosi; per conto mio non domanderei altro che la metà di quello che possedete. - L’avrai, se vuoi, Agostino, - disse la Fata. - Come devo fare? - domandò egli. - Io sono vedova di un Nano, - replicò ella, - e, se ti piaccio, possiamo sposarci. Gosto fu meravigliato di questa proposta. Lui, proprio lui, così povero in canna, avrebbe sposato l’Incantatrice, che era così bella, e poi ricca tanto da dare da bere otto qualità di vino?... È vero che aveva promesso a Santina di sposarla; ma a questo mondo, quando si spera di diventar ricchi, si dimentica quello e altro. Rispose dunque molto gentilmente alla Fata, dicendole che non era fatta per sentirsi dar dei rifiuti e che sarebbe stato un piacere per lui di esserle marito. L’Incantatrice replicò allora che voleva preparar subito il banchetto delle nozze, e apparecchiò una tavola coperta di ogni grazia di Dio. V’erano molte cose che Gosto conosceva, ma molte ancora che non aveva mai viste. Poi ella andò presso un piccolo vivaio, che era in fondo al giardino e si mise a gridare: - O procuratore! o mugnaio! o marinaro! o lanzichenecco! A ogni grido si vedeva guizzar sull’acqua un pesce, che ella metteva in una rete d’acciaio. Quando la rete fu piena, l’Incantatrice andò in una stanza vicina e buttò i pesci in una padella d’oro. Ma a Gosto parve di sentire, invece dello scoppiettar del fritto, tante vocine che bisbigliassero. - Ditemi, Incantatrice, chi è che bisbiglia nella padella d’oro? - Sono le legna, che crepitano, - rispos’ella mentre attizzava il fuoco. Un momento dopo le vocine ricominciarono a farsi udire. - Ditemi, Incantatrice, chi è che mormora? - domandò Gosto. - È l’olio che frigge, - rispose la Fata rimuginando la padella. Ma in breve le piccole voci si fecero risentire. - Ditemi, Incantatrice, chi è che grida? - riprese Gosto. - È il grillo qui fuori, - disse la Fata. E si mise a cantare a squarciagola, così che Gosto non sentì più nulla. Peraltro, quello che aveva sentito, lo fece riflettere, e siccome incominciava ad avere paura, così si destarono in lui i rimorsi. - Gesù mio, - disse fra sé, - come è possibile che io abbia dimenticato così presto Santina per una Incantatrice, che dev’essere figliuola del Demonio! Con questa donna qui non oserei neppur dire le orazioni, né sera, né mattina, e sarei sicuro d’andare all’inferno a bruciare per tutta l’eternità. Mentre così parlava, la Fata aveva messo in tavola il fritto e spinse Gosto a mangiarne, dicendogli che andava a prendere per lui altre dodici qualità di vino. Gosto cavò fuori il coltello che gli aveva dato Santina, e, sospirando, si preparò a mangiare; ma appena la lama che distruggeva gl’incantesimi ebbe toccato il piatto d’oro, tutti i pesci si rizzarono e ritornarono uomini, vestiti secondo la loro professione. Il procuratore aveva la toga, il mugnaio era coperto di farina, il marinaro aveva la berretta rossa, e il lanzichenecco il vestito di più colori e la lancia, e tutti si misero a gridare: - Salvaci, se vuoi esser salvato! - Maria santa! Chi sono questi uomini, che gridavano nell’olio bollente? - esclamò Gosto tutto meravigliato. - Siamo cristiani come te, - risposero. - Eravamo venuti allo Scoglio del Diavolo per cercar fortuna, abbiamo accondisceso a sposare l’Incantatrice, e il dì dopo le nozze ella ci ha ridotti come vedi, e come aveva già ridotti i nostri predecessori, che sono nel vivaio. - Come! - esclamò Gosto. - Una donna, che par così giovane, è già vedova di tanti mariti? - E tu sarai ben presto convertito in pesce ed esposto a esser fritto e mangiato dai tuoi successori. Gosto fece un lancio. Gli pareva di esser già nella padella d’oro, e corse alla porta cercando di scappare prima del ritorno dell’Incantatrice; ma essa, entrando, aveva inteso tutto. In un batter d’occhio gettò la rete d’acciaio ed egli fu trasformato in ranocchio e portato nel vivaio, dov’erano tutti gli altri mariti. In quel momento il campanellino che Gosto aveva al collo si mise a scampanellare da sé, e Santina lo udì da Arezzo, mentre stava a filar la lana sull’aia del podere. Quel suono le fece provare una trafitta al cuore e gettò un grido: - Gosto è in pericolo! E senza attendere un momento, senza consigliarsi con nessuno, corse a mettersi il vestito delle feste, s’infilò le scarpe, ed uscì dal podere appoggiandosi sul bastone di san Francesco. Quando giunse a un crocevia, conficcò il bastone in terra e disse:

      Bastone, bastoncello,
      Del Santo poverello,
      Porta me da Gosto mio,
      Con l’aiuto del buon Dio!

Il bastone si cambiò subito in un cavallo strigliato, bardato, sellato, infioccato sugli orecchi e impennacchiato sulla fronte. Santina gli salì in groppa e il cavallo si mise, prima a camminar di passo, poi di galoppo e alla fine correva tanto, che i fossi, gli alberi, le case, i campanili passavano davanti agli occhi della ragazza come farebbero le stecche di un arcolaio. Ma ella non si lamentava, sapendo che ogni passo la riavvicinava sempre più al suo caro Gosto; anzi, incitava l’animale, ripetendo: - Il cavallo va più piano della rondine, la rondine va più piano del vento, il vento della saetta; ma tu, cavallino mio, se mi vuoi bene, devi andare più presto di tutti; perché ho una parte del cuore che soffre, la parte migliore del cuore che è in pericolo. Il cavallo la capiva veramente bene, e correva come una pagliuzza travolta dal vento; ma quando fu a metà costa dell’Appennino, si fermò, perché dalla via presa da Santina non era mai passato nessun cavallo, tanto era ripida e scoscesa. Santina capì la ragione di quella fermata e prese a dire:

      Cavallo, cavallino,
      Del Santo poverino,
      Porta me da Gosto mio,
      Con l’aiuto del buon Dio!

Appena la ragazza ebbe terminata questa invocazione, le ali spuntarono dai fianchi al cavallo, il quale, trasformatosi in uccello grandissimo, si diede a volare in alto e giunse in vetta a un monte. In quella vetta vide un nido di creta, coperto di borraccina, sul quale stava accovacciato un ometto grinzoso e pelato, il quale vedendo Santina si mise a gridare: - Ecco la bella ragazza che viene a salvarmi! - A salvarti! Ma chi sei, omìno? - Sono Cencio, il marito dell’Incantatrice dello Scoglio del Diavolo; è stata lei che mi ha relegato qui. - E che fai su quel nido? - Sto a covare sei uova di pietra e non sarò libero finché da queste uova non nasceranno sei pulcini. Santa non poté trattener le risa. - Povero gallettino, come farò mai a salvarti? - Salvando Gosto, che è in potere dell’Incantatrice, salverai anche me. - Dimmi come posso fare, per carità, e anche se dovessi percorrere in ginocchio il giro di tutti i santuarî, mi metterei subito in cammino. - Ebbene, occorrono due cose, - rispose il Nano. - Prima devi presentarti all’Incantatrice sotto le spoglie di un giovinotto; poi devi rubarle la rete d’acciaio, che porta alla cintura, e rinchiudervela fino al giorno del Giudizio. - E dove troverò mai un abito maschile? - domandò la ragazza. - Lo saprai subito, bella mia! Il Nano si mise a scavare la terra e, scava scava, fece una buca profonda. A un tratto si fermò e disse a Santina: - Io non ne posso più; ma tu non sei stanca e potrai scavare ancora. Qui ci devon esser rimpiattate certe valigie tolte dai ladri a un cavaliere. Costoro, dopo il furto, furon presi e impiccati, ma la roba rubata è custodita ancora dalla terra. Santina scavò tanto e poi tanto, che alla fine trovò le valigie di cuoio intatte. Dentro v’era un ricco vestito di velluto, un tocco piumato, cintura, calzoni e spada. Quando Santina ebbe indossato il ricco abito, pareva proprio un cavaliere. Ella ringraziò il Nano, il quale le diede ancora alcune indicazioni su quel che doveva fare, e poi l’uccello dalle ali smisurate la condusse con un sol volo fino allo Scoglio del Diavolo. Giunta colà ella disse:

      Uccello, bell’uccello,
      Ritorna bastoncello;
      Or son qui da Gosto mio,
      Con l’aiuto del buon Dio!

Vedendo la barca a forma di cigno, Santina vi entrò e il cigno la condusse al palazzo dell’Incantatrice. Questa, vedendo il bel cavaliere riccamente vestito, fu tutta lieta ed esclamò: - Per Satanasso! Non vidi mai giovine più bello in quest’isola, e voglio fargli lieta e cortese accoglienza. Ella mosse dunque incontro a Santina, dicendole: «Cuor mio! Amor mio!». Poi le servì da merenda, e la ragazza, trovando sulla tavola il coltello di san Donato, lasciato lì da Gosto, lo prese per servirsene, caso mai ne avesse bisogno, e seguì l’Incantatrice nel giardino. La Fata le mostrò le aiuole con i fiori di diamanti, le fontane di acqua odorosa, e soprattutto il vivaio, dove nuotavano pesci di ogni colore. Santina li ammirò moltissimo e si sedé in riva all’acqua per vederli più da vicino. L’Incantatrice approfittò di quel momento per domandarle se non sarebbe stata contenta di restar sempre in sua compagnia, e Santina le rispose che non aveva altra brama, altro desiderio. - Dunque tu mi sposeresti subito? - domandò la Fata. - Sì, a patto però che tu mi lasci pescare uno di questi bei pesci con la rete d’acciaio che porti alla cintura. L’Incantatrice non aveva nessun sospetto e credé che quel desiderio fosse un capriccio del giovinotto; perciò gli dette la rete e disse sorridendo: - Vediamo, bel pescatore, quello che pescherai! - Pescherò il Diavolo! - esclamò Santina gettando la rete sulla testa della Incantatrice. - In nome del Redentore degli uomini, strega maledetta, diventa all’aspetto quel che sei in realtà. L’Incantatrice non poté gettar altro che un grido, che terminò in un gemito soffocato, perché il desiderio di Santina si era compiuto, e la bella Fata delle acque era trasformata in una orribile vecchia, bavosa e rugosa. Santina chiuse la rete e corse a gittarla in un pozzo, sopra il quale mise una pietra col segno della croce, affinché non potesse essere alzata, come quella dei sepolcri, altro che il giorno del Giudizio. Poi tornò in tutta fretta al vivaio, ma i pesci ne erano già usciti e le andavano incontro a guisa di lunga processione, gridando con le vocine roche: - Ecco il nostro padrone, colui che ci ha liberati dalla rete di acciaio e dalla padella d’oro. - E vi renderà pure il vostro aspetto di cristiani, - disse Santina, cavando di tasca il coltello di san Donato. Ma quando stava per toccare con quello il primo pesce, vide accanto a sé, sull’erba, un ranocchio verde con un campanellino al collo. Il ranocchio piangeva e comprimevasi il cuore con le sue zampette davanti; Santina a quella vista si sentì rimescolare tutto il sangue ed esclamò: - Sei tu, Gosto mio, sposo mio, mio bene? - Sono io, - rispose il ranocchio. Santina lo toccò subito con la lama che aveva alla cintura, e Gosto prese l’aspetto di cristiano. Essi si abbracciarono piangendo e ridendo nel medesimo tempo. Le lacrime, esprimevano i rammarici passati; il riso, le speranze dell’avvenire. La ragazza toccò poi tutti i pesci, che ritornarono uomini com’erano prima dell’incantesimo. Quando ella fu per partire, vide arrivare l’omìno della montagna, che stava sul nido, tirato da sei scarafaggi, che erano nati dalle sei uova di pietra. - Eccomi, bella ragazza! - esclamò scorgendo Santina. - L’incantesimo che mi teneva inchiodato sulla vetta del monte, ora è rotto mercè vostra. E per dimostrarle la sua gratitudine, la guidò nei sotterranei del palazzo, dove l’Incantatrice teneva nascosti i suoi tesori, e le disse di prendere tutto ciò che voleva. Santina e Gosto si empirono le tasche di pietre preziose, e la ragazza ordinò al bastone di diventare una nave abbastanza grande per portare sulle coste di Romagna tutta la gente che ella aveva salvata. Il bastone di san Francesco ubbidì subito, e prima che il bastimento salpasse, Santina toccò lo Scoglio del Diavolo col coltello di san Donato, e lo Scoglio sprofondò nei gorghi del mare. Dopo pochi giorni, Santina e Gosto tornarono al podere delle Grazie, vicino ad Arezzo, e invece di comprar soltanto un paio di manzi e un maiale, acquistarono terre in quantità e celebrarono le nozze con molta pompa. Alla cerimonia assistevano tutte le persone liberate da Santina, le quali, dopo aver avuto ricchi presenti dagli sposi, se ne tornarono a casa loro benedicendo l’accortezza della giovine. Santina fu buona moglie, com’era stata buona fidanzata, ed educò con amore i proprî figli, i quali salirono in alto grado, e fatti nobili dall’Imperatore, posero nel loro stemma un coltello, un campanellino ed un bastone. Mercè loro sorsero in Casentino tre chiese in onore di san Romano, di san Donato e di san Francesco, che erano stati i santi protettori della madre. Il coltello, il campanellino e il bastone perdettero ogni virtù appena la famiglia di Gosto e di Santina fu ricca e felice, ma i discendenti dei due sposi serbarono la fedeltà e la prudenza, che erano stati i veri talismani della loro avola, la quale morì vecchissima, in concetto di santità, e le fu eretta una tomba tutta di marmo dalla famiglia riconoscente.

- E qui la novella è finita, - disse Regina. - Nonna, - prese a dire l’Annina, - quest’altr’anno io non sarò più qui accanto a voi a sentirvi raccontare i fatti meravigliosi dei cavalieri, delle dame e dei santi. - Sei forse pentita della risoluzione presa? - domandò la vecchia. - Non dico questo, ma la domenica sera e le feste io penserò con tenerezza a casa mia. - E farai bene a pensarci, perché qui tutti ti hanno voluto bene, cominciando da me; ma nello stesso tempo ti sentirai felice d’imparare, e di bastare alla tua esistenza. Anche per noi, destinate a vivere in campagna ed a guidare la modesta e rozza casa del contadino, l’istruzione è un patrimonio. Non parlo, si capisce, di quella che hanno le persone di città; ma dell’altra che s’acquista vedendo far bene i lavori, vedendo guidare con criterio una famiglia. L’ago, specialmente se adoprato con giudizio, è un risparmio immenso in una casa, e ti esorto a imparar bene a cucire, a stirare e a far da cucina. Una massaia abile è una benedizione per il marito e per i figli. La Regina era stata ascoltata con grande attenzione dalla sua famiglia, e l’Annina specialmente fu commossa dai saggi avvertimenti della nonna, la quale colse quell’occasione per tesser gli elogi di Vezzosa, che erasi allontanata un momento insieme col suo Cecco. - Vedi, - diceva rivolta all’Annina, - tua zia Vezzosa non ha portato un soldo in casa, ma nessuno di noi è pentito di averla accettata senza dote. - Nessuno certo! - esclamò Maso. - Ella s’industria in ogni modo per rendersi utile alla famiglia; - continuò la Regina, - ella sa fare di tutto, e sotto le sue dita abili, anche un cencio prende un aspetto decente. Se fosse stata invece disadatta a ogni cosa e ci avesse magari portato un migliaio di lire, la rendita di quel piccolo capitale ci avrebbe forse dato tanto vantaggio quanto ne risentiamo dalla sua intelligente operosità? No certo. Impara dunque, bambina mia, a farti una dote che nessuno ti potrà mai togliere, altro che Iddio, la dote vera: l’abilità unita all’operosità. Quando la Regina, parlando, toccava argomenti seri e dava ammonizioni, la sua voce prendeva un suono solenne ed affettuoso a un tempo, che commoveva la famiglia, come il suono di una voce che venisse dall’alto. L’Annina, nell’ascoltarla, aveva gli occhi pieni di lacrime e non trovava parole per risponderle. - Dunque, non hai capito quel che ti ha detto la nonna? - domandò la Carola. - Sì, che ho capito, e non lo dimenticherò; state sicura, mamma, non lo dimenticherò. Il ritorno di Vezzosa col marito pose termine a quella conversazione. La giovane sposa tornava col grembiule pieno d’insalata per la cena, e l’Annina si asciugò in fretta le lacrime e si diede ad apparecchiar la tavola.