L'Asino e il Caronte/Il Caronte/Scena III
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Traduzione dal latino di Marcello Campodonico (1918)
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Scena III.
Gli stessi; poi Mercurio e Piricalco.
Min. — Vedi quanto può l’educazione! Quello che era un semplice barcaiolo è diventato un filosofo... Che sarebbe diventato, se fosse andato a scuola di filosofia fin da ragazzo?
Eaco. — Non è mai tardi per imparare. Che se i fiori della speranza sono propri particolarmente della giovinezza, i frutti maturano quasi interamente nell’età matura.
Min. — Verissimo. Eppure, non so come, l’amor della virtù e della lode è più grande nei giovani; è in loro come una forza istintiva: nei vecchi ogni cosa si fa più fiacca e più lenta.
Eaco. — Nei giovani è maggiore l’impeto, nei vecchi la ragione, che di sua natura è più tranquilla. Di più, ogni ardore nei giovani tende alla gloria; la virtù dei vecchi è disinteressata, e quindi più vicina alla perfezione.
Min. — Così ha voluto la Natura, che, come dai fiori fa nascere i frutti, così dalla temerità e inconsapevolezza dei giovani genera la saggezza dei vecchi. Ricordo che, quand’ero ragazzo, anch’io non andavo mica volentieri a scuola di grammatica! Non pensavo che a giocare a nocino; e riponevo ogni mia delizia nel mio cane, nelle coturnici, nelle gazze... Eppure, siamo giunti ad essere i legislatori primi di popoli ferocissimi; sicchè ora la volontà degli Dei ci ha affidato il giudizio supremo delle anime. La sapienza cresce con l’età.
Eaco. — Infatti c’è chi si lamenta che la Natura abbia posto limiti così brevi alla vita dell’uomo, che essa ha pur generato per le grandi e belle imprese. E ci è toccato spesso di giudicare alcuni, ai quali — per raggiungere la perfetta sapienza — si può dir che non è mancato nulla tranne il tempo.
Min. — Bada a quello che dici, o Eaco; e guarda le cose un po’ più dall’alto! La Natura ha posto limiti certi a tutte le cose create. Questi cipressi che tu vedi davanti a noi, avrebbero sì libertà di spingere più in alto la loro cima, ma hanno dentro sè un limite di accrescimento. Lo hanno le terre, lo hanno i mari il proprio confine. E così, anche per gli uomini, come c’è un limite alla crescenza del corpo, c’è pure alla loro facoltà di imparare. E se la vita dell’uomo durasse ottocento anni invece che ottanta, giunto alla fine ne saprebbe quanto ora. Noi vediamo succedere così anche negli animali e nelle piante; che quelle che vivono più a lungo, dànno frutti più tardi. E spesso noi vediamo che i ragazzi precoci e troppo sapienti nella prima età, o muoiono innanzi tempo, o, fatti uomini, perdono molto del loro ingegno. Ma siccome l’uomo è superbo, così si lagnano della brevità della vita quelli che non sono contenti della propria sorte; senza capire che ci sono anche dei vecchioni, i quali non hanno superato davvero, in virtù e saggezza, nè Solone nè Catone.
Eaco. — Io ricordo benissimo quando questi due son venuti davanti al nostro tribunale; e m’è rincresciuto che Plutone non ce li avesse dati invece a colleghi.
Min. — E tu credi che sia mancato il tempo a coloro i quali, dopo avere misurato a stadii il cielo, si sono dati tanto da fare per determinare se il numero delle stelle fosse pari o dispari? E quelli che perdono i giorni e le notti della loro vita a mescere sughi di erbe e minerali diversi, facendoli poi ribollire a gran fuoco per fare l’oro? E quelli che descrivono le battaglie degli Dei, e le loro ferite e le loro sciagure? A me pare che quelli che si occupano di queste sciocchezze, dovrebbero lagnarsi della loro insulsaggine e non della brevità della vita!
Eaco. — Succede spesso purtroppo che chi si crede più sapiente, è più stolto degli altri. Ma ecco Mercurio che arriva...
Min. — Quanta folla intorno a lui! Ma che fa?... Pare che faccia una specie di scelta fra le ombre... O non le bolla a fuoco sulla fronte?
Eaco. — Forse perchè noi possiamo conoscere più facilmente la loro stirpe, la professione, la condizione sociale...
⁂
Mercurio. — Via di costì, tu! Il tuo posto è là, fra quella plebaglia venale... Piricalco, costoro li segnerai col bollo giudaico.
Piric. — Eh! il genere lo conosco; vorrei sapere il loro mestiere.
Merc. — Usurai tutti quanti: voi, andate dietro a costui, e ritiratevi là a sinistra. Ora a voi, lenoni; presto! Sai chi sono, non è vero? e come bisogna bollarli!
Piric. — Eh! so che mestiere fanno... ma, a quel che vedo, non sono d’una sola nazione: questo è fiammingo, quello germanico, e in questo gruppetto parte sono d’Illiria, parte d’Italia... Oh!! quanti Spagnuoli!... e quanti Greci... Ce n’è di tutte le nazioni; e certamente son tanti, che di donne oneste sulla terra sarà molto difficile trovarne ancora! Su, garzoni miei! preparatemi quel bollo infuocato...
Merc. — E poi bollami anche costoro: sono pirati di Sardegna, di Sicilia, e dei Baschi di Spagna...
Piric. — A questi bisognerà anche tagliare il naso, dopo averli bollati in fronte?
Merc. — Certo; prepara il coltello. E voi a destra, costì! Questi son tutti di Francia: osti, cuochi, ingrassapolli, trombettieri, biscazzieri, ubriaconi... tutti con poco cervello.
Piric. — A questi mi par che si debba forare la gola, e conficcare un chiodo nel cervello...
Merc. — Ma se non ne hanno di cervello!... ficcaglielo nel ventre... Tutta questa moltitudine di gente da nulla non ha bisogno di bollo; io sceglierò fra essi soltanto qualcuno più degno di nota. Oh chi è questo sfacciato?... mi par di conoscerlo... To’! è quello scellerato di Pietro Bisuldunio1 spagnuolo. E quei due che cercano di nascondersi dietro di lui, coperti dallo zucchetto cardinalizio?... Oh li conosco questi fior di sacerdoti! L’uno è Ludovico Patriarca d’Aquileia, l’altro è il cardinale Samorense... Piricalco! a costoro imprimi a fuoco sulla chierica uno zucchetto di bronzo... ma che sia bene incandescente... A Bisuldunio taglierai le orecchie... Fa ogni cosa per bene: io vado là da Caronte, che mi fa di gran segni con le mani e col capo... Che cosa vorrà mai da me?
Note
- ↑ Non forse Busuluniano?