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Panche di scuola – V

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Panche di scuola - IV Panche di scuola - VI


In poche parole, buoni, i mièi nuovi compagni lo èrano... Alto là – stavo per mèttere tutti, il che sarebbe stato bugìa. Tutti non lo èrano, buoni: ci avèa uno (uno solo, peraltro; quel Daniele Izar ch’or mi storceva la lingua) il quale dava la volta alla non cattiva bottiglia.

Se adesso poi io vi presento questo Daniele come un marmocchio costruito coi gòmiti, con un viso da tromba, non crediate già che lo faccia per convenzione, per quella brutta ruffiana che t’imbastisce in quattro agugliate un lavoro e che qui scrive: tiranno (moda antica) peloso più d’una còtica, occhi injettati di sangue, sia guercio e zòppichi – oppure – tiranno (moda odierna) il «Falconiere» di Tranquillo Cremona – no, è puramente perchè và rispettata l’istoria.

E infatti – a voi. L’avreste avuto forse per bello, per simpàtico, un coso con due grosse e corte gambe, con mani larghe al par di guanti da scherma; che vi mostrava una faccia vizza, quadrata, lentiginosa, il color rosso di cui si agglomerava ne’ mille bitorzoletti di un naso schiacciato e la cui bocca mangiava quasi gli orecchi? un fanciullo che, conoscèndosi ricco, andava sopra di sè, incamatito, arrogante? Si-i ? – Allora vi tolgo il saluto.

E, non miglior della crosta, il pasticcio.

Vizi ve ne son molti, ma alcuni non ribùttano affatto; a mo’ d’esempio, la superbia, la prodigalità... Ebbene, quelli di Daniele èrano invece i più bassi, i più schifosi, come la vendetta, l’avarizia, l’invidia.

Del resto, amici mièi, io voglio scusare il pòvero bimbo: a questo mondo, cattivi proprio, non vi si nasce, no.

Vi dirò dunque che la mamma di Daniele perdette la vita nel darla a lui e che per questo, ei, strapazzato da mani indifferenti, e pena e pena, sparse nella sua infanzia tutte le làgrime che gli èrano state concesse e fece il callo al dolore. Quante volte, di notte, in quella stamberga in cui la crudeltà di un padre l’avèa esigliato, quante volte – nel mentre che il guàttero, suo compagno di stanza, russava a spaventarne i sorci – Daniele, atterrito da un sogno angoscioso, svegliàvasi all’improvvisa e, sollevàndosi dal pagliericcio, poggiando al freddo muro l’accesa fronte, ascoltava con un trèmito, le avvinazzate voci che gli venivano dall’appartamento di babbo!... quante volte anche, dopo di èssersi fatto vicino al cuoco e di avergli detto: ho fame – cacciato dalla cucina, ricoveràvasi nell’anticàmera presso la sala da pranzo, per appostarvi i domèstici che ripassàvano còl selvaggiume scarnato, coi manicaretti in ruina; per domandare loro (e quasi sempre invano) timidamente la roba sua:

– Un morsellino! un solo spicchio di frutto! –

Senonchè il padre – per fortuna! – morì. Sulle braccia di chi cadde allor l’orfanello? Ei tombolò nel grembiale di sua nonna paterna, una riccona detta la Contrabbandiera, vèdova di un mercante di olii, la quale, scandolezzata per la birba vita del figlio, in urta con lui, si era ritirata in campagna a mangiar bile sopra i suòi piatti d’oro... In confidenza, peraltro, la vecchia ci avèa lei pure posto un dito – e non il mignolo – nelle azioni ladre di quel fuggito all’inferno. E in verità, chi, se non essa, legava, la prima – colla cunetta – in capo del suo Peppino, l’idèa dell’onnipotenza del dio Mammone; quell’idèa che aduggia sì facilmente ogni nòbile istinto, che impoltrisce coloro i quali potrèbbero, scansando la faticosa lotta contro il bisogno, giùngere ancora pieni di forza e di entusiasmo al loro ideale? Ed anche – non era stata ella forse che proibiva al bambino di trastullarsi co’ figlioletti del portinajo perchè vestìvan frustagno, che non gli permetteva di spazzolarsi un cappello, che infine lo addormentava, credo, col dolce suono di un dinderlino a marenghi?

Ma – in quella maniera che la signora Izàr, tirando su il figlio così, non s’era accorta mai di storpiarlo – rotte le uova, dubitò manco di avere concorso a rovesciare il paniere: ah! i cattivi compagni – sospirava ella, e si faceva il segno di croce. Tant’è vero che appena la vecchia ebbe a pettinare il nipote (semi-lodiàmola – lo dichiarò suo ùnico erede) volle rifargli l’acconciatura tentata già col padre di lui, il che viene a dire, si diè’ ad arricciargli le sòlite idèe di dare ed avere, di superiorità, di pasta diversa, di... Salvo che dal trito cammino si slontanò un pochetto. Siccome Daniele non conosceva una bricia di ciò che il mondo del primo piano sà o dovrebbe sapere, e, pazienza per l’istruzione! ma non aveva ancora vista la coperta nemmeno del libro di messer Giovanni; e siccome la nonna, tanto larga di cassa, era di mano strettìssima; così ella pensò di porre a bagnomarìa il nipote per qualche tempo entro un collegio, dal quale, egli – ricevuta la prima lessatura – passerebbe a condirsi nelle zampe di lei. La scelta pignatta stava non molto lontano... Ve’! ti affumicheràj, Daniele: vai fra chi incensa al vitello d’oro.

E quì, mi dispiace osservare come in generale, noi, caviamo volontieri il berretto dinanzi a un riccaccio. Pare che l’aureo trìpode basti a creare l’oràcolo; al dovizioso, il miglior posto a tàvola, al dovizioso una turibulatura continua, turibulatura poi, nòtisi bene, da parte di gente che non ha da sperare (nè spera) di far a mezzo con lui, di rosicchiargli almen qualche cosa.

E invero – che diàmine, mai, Daniele, di giunta alla paga, dava al Proverbio? Ma neanche un mazzo di tordi. Esso contàvagli le sue ottocento lire della tariffa nè più nè meno di Gervasoni, il figlio del calzolajo, il facitore di pensi. Ed il Proverbio, che poteva da lui impromèttersi? Nulla, ripeto. Finiti, o dato un taglio a’ suòi studi, Izar prenderèbbesi la porta non gli lasciando che de’ ricordi morali, qualche panca scolpita, o, tutt’al più, le sue care sembianze da rompinocciuole, in fotografìa. Pure, Proverbio, smarriva la testa nel giallo splendore del denaroso discèpolo, vi si spappolava entro, chiamava Daniele il suo cucco; gli avrebbe, se chiesto, regalata la sua dentiera perchè si spassasse a sconnètterla. Ed era bello, sapete, il vederlo questo gran direttore, quando la domènica, svoltava nel giardino il tiro a due della ex ercantessa, quando i due servitori in brache di felpa rossa, panciotto verde, àbito pavonazzo, precipitàvano dal lor ballatojo, sul quale tenèvali la fame ed una boria crudele... Che spreco d’incenso! che su e giù di soffietti!... Proverbio produceva una flessibilità da meravigliarne Arlecchino; ei si piegava, ei si piegava e naturalmente allora quello scimmiotto di un Daniele rinveniva, gonfiava come un pane biscotto inzuppato.

A noi tuttavia le arie e il pieno borsello d’Izar non facèan nè caldo nè freddo. Noi, son ben contento di poterlo cantare, non avevamo per anco aquistata la vera aggiustatezza de’ modi e de’ pensieri civili; noi, ignorantìssimi d’ogni scienza sociale, non pensavamo proprio che fra de’ pìccoli èsseri, con musi e corpicciuoli tanto quanto simili, fòssero delle differenze, delle insuperàbili sbarre; quindi, l’onorèvole mozzicone di uomo, sebbene a casa sua mangiasse con posate d’oro sodo, riceveva in collegio – quando ne era il caso – al par d’ogni altro ed anche più (chè li meritava spessìssimo) i tient’amente, pur sodi, cui la scolaresca giustizia lo condannava. Bene – guardate un po’ che faceva allora l’ometto. Ei, non potendo abboccare il can grosso, volgèvasi stizzoso a mòrdere il barboncino senza difesa – giustamente, Ghioldi.

E’ vero che, in sulle prime, Izar, lavorando di straforo, aveva con spionaggio e calunnia cercato di accomodarci in salsa brusca; è vero che cominciò anche a far spuntate le lagrimone a qualche puttino d’intorno i cinqu’anni, stuzzicàndolo per trovare un appicco di dargli una graffiatura, una dentata o di strappargli un riccietto, ma, nei due bei tentativi, non avèndosela passata liscia, toglièvasi tosto dal terreno malsano e andava là dove veggeva il bello di tribolare, con sicurezza, uno... Uno, cioè Ghioldi. E contro questo pòvero màrtire, tutto ciò che una diabòlica o a mèglio dire malata imaginazione riesce ad arzigogolare, fu da lui messo in òpera (ne salto le particolarità), gli indurì insomma, alla nascosa per mesi e mesi, cotanto il suo tocco di pane, che un altro, nuovo al dolore, ne sarebbe rimasto strozzato...

E qui – con simìl collegio e tali maestri e compagni – io vi trasporto di botto, o carìssimi, fino alla metà circa di luglio. Quanto al perchè, èccolo: