L'Altrieri/Panche di scuola/IV

Panche di scuola – IV

../III ../V IncludiIntestazione 25 febbraio 2009 75% romanzi

Panche di scuola - III Panche di scuola - V


Io, sgranocchiando i confetti del direttore, mi era seduto nel seggiolone di lui. Ghioldi, uscito quello, mi si appressò, mi fe’ una carezza e: siate buonino come siete bello – mi disse. – Ora, dò il còmpito ai vostri signori compagni, poi, faremo due chiàcchiere tra mè e voi. – Detto il che, giustàndosi l’occhialino, riappuntò il naso alla scolaresca.

La qual scolaresca continuava a tacere: dopo la pioggia rimane un po’ di frescura. E questo, a mè, quel follettino che conoscete di già, pareva enorme, miracoloso; io non riusciva a persuadermi che de’ maliziosi visetti, come scorgèvane tanti, potèssero non fare d’occhio nemmeno – Che sìano tutti ammalati? – pensavo – quando... Ah! lo giurerèi – quantunque egli si avocasse a dire: no, no – fu quel ricciuto, fu quello nel canto di destra, il primo a lanciare una pallina di mòllica. Naturalmente, ne vènnero quà, risa; là, una pispilloria all’indirizzo del colpito, poi – ecco l’esempio! – una seconda pallòttola, altri susurri, altri risetti, un leggier scalpiccìo, e il tonfo (casuale?) di un dizionario. Via via, il rumore si accrebbe: dopo qualche minuto mi ero tranquillizzato del tutto sulle condizioni sanitarie de’ mièi nuovi compagni. I cari quietini! balzàvano su e giù nelle panche come i salterelli del pianoforte; uno, buffettando e battendo sull’intavolato coi piedi, imitava il vapore; un altro anatrava; chi faceva di castagnette; chi zufolava... alla sbrigata, ciascuno si cavava i suòi gusti nè più nè meno che se al posto di Ghioldi stesse invece piantato un portamantelli.

– Signori – pregava intanto il pòvero appiccapanni – un po’ di silenzio... sol per mezz’ora... Scrivano...Conjugare i verbi: io mangio, bevo e... St! cari... fate un po’ l’agnellino... –

Si udì un piagnoloso belato.

– Zitti, dunque. Da bravi... I verbi: io mangio, bevo e... Lah! santo Dio! Gori... ma tenete a casa la lingua...–

Gori si levò. Era un lasagnone di un fanciullotto cròi e grosso, vestito di un panno giallo; un panno, come fischiàvasi, e come lo provàvano i buchi dei chiodi, fòdera dismessa di una qualche carrozza.

– Eh? – interrogò egli con una di quelle voci, ràuche, sempre infreddate, che aggrìcciano i nervi

– Vi dico di tacere... cribbiani! – ripetè impazientito il maestro.

– Ma io dormiva – esclamò sbadigliando il ciccione – io mi sognava, io... aah – e cadde pesantemente, facendo le mostre di riappiccare il suo sonno. Ouf!

– E tùppete! – gridò in falsetto un màmmolo nel rovesciare, colto da gioja improvvisa, l’atramentarium sul libro del suo vicino; il che, con giudizio statario, gli procurò uno scapezzone.

Ghioldi si avanzò bruscamente:

– Dunque, non volete finirla? – disse, e le sue mani tremàvano. – Devo proprio condurvi dal direttore, devo?

– Chi? – rimpolpettàrono percotitore e percosso sporgendo i due musini crucciati.

Lo Spolveraccio guardò con disperazione la volta.

E io – in questa – mi trovava nella più diffìcile delle posizioni. Viaggiando il mio sguardo continuamente dallo scrittojo alle panche, se davo ne’ fanciulletti che mi solleticàvano con gli occhi, e nei loro gesti burloni, nei dàddoli, negli sberleffì, io, un frùgolo al pari di essi, mi sentiva il morbino, non me ne potevo tenere, ridevo, mi divertivo... Ebbene – di botto – la mia allegrezza la diventava di pane caldo, nello scontrarmi in Ghioldi, nello scontrarmi in quella pàllida faccia, senza speranza, avvilita, con pelle pelle, lì per scoppiare, il pianto.

O disgraziato diàvolo! Fà veramente pena, indispettisce il pensare che un uomo come Ghioldi, sì onesto, sì ingenuo, amante del suo dovere e dei bimbi, riuscisse a cambiarsi nella grand’oca di carta di una scolaresca. Pur, che volete! stretto da una timidità che avèa del lepre, soprannaturale (già, perchè, rasentando i quaranta, arrossiva ancora come una fanciulla di quìndici) con una fibra sì frolla da giravoltare a guisa di una tafferìa per un solo bicchiere di Asti – egli era sempre pronto a presentare il collo a chiunque mostrasse desiderio di sovrapporvi un giogo. Ghioldi era uscito da quella forma in cui si stàmpano quelli èsseri a contorni nebbiosi, nè originali nè copie, in conto di senza-idèe, non che veramente non ne possèdano qualcheduna, ma inquantochè, non avendo bastante coraggio di buttarle insieme a quelle degli altri nel gran caldajo del pùbblico, finìscono per sempre acconsentire come giapponesini di porcellana.

E tò – succedeva di castigare un ragazzo? un monello, il quale gli avesse nascosto de’ pezzi di legno nel letto, ovvero prizzàtagli la tabacchiera di pepe? – egli, al momento dell’esecuzione, imbietoliva, rammollava... alle corte, si lasciava andare a carezzare il vispo malizioso visino.

Imaginate il lecchetto! Non dico, no, che si rimèttano le cordicine alle fruste; val più, imboccata a tempo, una caramella che cento tirate di orecchi. Pure... pure abbisogna modo anche nel distribuire le chicche – per iscansare le indigestioni. Se Ghioldi, poi, pareva curarsi poco della sua dignità personale, pensate i fanciulli! essi acquistàrono doppia briglia di quella che loro egli avèa concessa, gli guadagnàrono la mano e... Da qui staccossi una filatera di quelle brutte cose, che se istintivamente ci òbbligano un sorriso (perchè un granello di cattiveria l’han tutti) danno, ragionàndoci sopra, i brìvidi; da quì ne venne una tal fama di straccio per il maestro di terza che gli studentelli, i quali dovèano entrare nella classe di lui alla rifioritura dei grisantemi, volgèvano già nella mente, guardando, attraverso i vetri, la neve, quali sorta di burla gli avrèbbero allora accoccate.

Nè solo i ragazzi. Ogni uomo è il guancialino da spilli di qualcunaltro; Ghioldi lo era di tutti: fra i molti, dei Proverbio. Infatti, essi sfogàvano sopra lo sfortunato l’aceto loro; il primo se la prendeva con lui quando non trovava il cappello, quando le costolette – sua colazione abituale – mancàvano di osso; l’altra apriva un diavoletot, se lo zùcchero che egli le comperava (chè molte fiate quel pòvero cacio tra due grattugie, fidando alla direttrice noi, correva ad eseguire le commissioni di lei – il che ci seccava oltremodo per il naturale manesco della facente funzioni); se, dico, i rottami di zùcchero che egli apportàvale èrano piuttosto otto che nove come l’ùltima volta, se èrano quadrati, non tondi...

– Dunque – quì osserva il mio amico Perelli – che serpeggiava nelle vene di Ghioldi? Latte?

– Ah! no, non dir questo – chi può contare le sue segrete trafitture? chi, le làgrime gocciàtegli nel silenzio di una notte?... Pure, l’abitùdine – quella ladra tiranna che già faceva crèdere lo sciaquamento delle bocche a tàvola, una pulitìssima, una elegantìssima usanza ai nostri padri (eccetto, intendiàmoci bene, a colùi che, pesce nuovo, si trangugiò la sua aqua tèpida) quell’abitùdine che noi persuade, valzando o polcando in una soffocante saletta, di divertirci; che fà dindonar le campane e boare i Tedeum pei colossali assassinii; che... ma taciamo! – ribadiva Ghioldi sulla sua sedia rovente, gli chiudeva a lucchetto le labbra: l’èssere sempre stato posposto al gatto di casa fino da quando, ragazzo, cadeva affamato, in làgrime, ma non osava allungare la mano alla panattiera, toglièvagli ogni speranza che si mutasse un giorno per lui il triste scenario... Poi – bisogna notare, sottosegnarlo – Ghioldi si era famigliarizzato alla propria soffitta e, per un uomo che non conosce un parente, che non incontrò mai un amico, che non ha tampoco amorosa, conta molto la càmera. Avrèbbegli sofferto l’ànimo di vedere diversamente accomodati gli oggetti che la disabbruttivano? oggetti, raccolti uno per uno, dopo lunga bramosìa, lenti sparagni, e una pazienza da scultore di nòccioli?

No, no, cari mièi. Là almeno, fuori dall’abbaino a mezzogiorno, veniva su allegro il bel geranio purpureo da lui allevato; là infine, quando egli più non reggeva, senza farsi scòrgere, al martello della passione, quando gli si gonfiava la strozza, poteva – con un giro di chiave – divìdersi dal nemico mondaccio. E allora tasteggiava un’affannosa armònica: dalla sua spalla intanto, una tòrtora caffè-e-latte, dal collare nerìssimo, pasceva in lui gli occhiettini.

Tuttavia, la è curiosa come – a mondarla – la maggiorparte de’ tormentatori di Ghioldi, cioè i ragazzi, non la si trovasse proprio cattiva. Guardate, a mo’ d’esempio, Bobi Carletti, un segaligno al par di un chiodo di garòfano, dall’intelligente grillare dell’occhio, con una capigliatura, come la zucca, indomàbile. Bobi, è vero, ammattiva il malsegnato maestro, gli guastava il pranzo, facèndogli, lui solo, mangiare tre quarti delle sue unghie e per il volere sempre rimèttere la palla di posta e per il tuono bravatorio e per la strana mulàggine, ma, diciàmolo, Bobi – con questo – era d’un cuore stragrande. Lasciando stare ch’egli tirava giù, a una gran parte di noi, i conti, che ci rendeva mostosi, ci fagianava i componimentucci, io, un giorno, lo scôrsi strappare dal limitare di una porta, con rabbia, una corda a nodo scorsojo, insidia al maestro di terza, e, colto da questi e interrogato in propòsito, lo udìi rispòndere che chi l’avèa tesa era... lui.

Così, suppergiù, Betto de-Ciflis – un pacchiarotto rossiccio, dal naso arricciato come quel del mortajo e dall’andatura da pellicano; il solo, che portasse orologio e catena d’oro e, all’ìndice, un grosso anello d’argento; Betto che dalla sveglia al coprifuoco, sballava prodezze di caccia (su bricche a camosci, in selve cupe a cinghiali) e misteriosi incontri con ladri... Ebbene – tuttochè a lui si formàssero facilissimamente nelle polpute guancie le fosserelle per ogni scherzo accoccato a Ghioldi, tuttochè ei vi mettesse anche lo zampino non rado (come allorquando si ritrattò sulla lavagna il praeceptor con coda, corni, e tridente) pure, dite, poteva egli èsser chiamato cattivo un fanciullo che lagrimava leggendo Il pòvero Pill di Raiberti; che ruppe il graticcio ad una gabbiata di passerotti promessi sposi con una polenta; che infine, un giorno, giustamente appresso il Natale, sorpresi regalando una bracciata de’ suòi nuovi balocchi al figliuolino dell’ortolano che singhiozzava in vederli?

Nulla del tutto – nè più del bajardino Bobi Carletti nè men di Ciapìno Girelli suo amico. E questi – del tempo e della stampa mia – se era il bellissimo dell’intero collegio (grandi occhi azzurri, colorito di mela appiuola, dal velluto di pesca) era anche il più disùtile, il più fracassoso... Fra noi, in verità, egli non si chiamava Girelli, nome della madre di lui, sibbene Pochetti; come tuttavìa il nòbile dei due sembrava il primo – chè la mamma, trinciando capriole (mo, perchè ridi, zio Cecco?) metteva insieme migliaja di auree piastricine – così gliel’affibbiàvano colla spruzzaglia di sagrestia. Ed è per mamma che il nostro Ciapino teneva nelle gambette l’argento vivo: la smania di dimergolare i chiodi dai panchi e di cifrare i colli alle camicie de’ suoi condiscèpoli, per chi, non so... Ciapino vinceva, con le diavolerie, mè e tutti; a lui importava un càvolo l’esprimere le proprie opinioni a voce alta in iscuola, il russarvi, il regalare ai compagni, presente il direttore stesso, botte e spettinature. Quanto peraltro a’ suòi studi, non ne era al corrente; sapeva di far la terza – niente di più. E, ve’, che caràttere! Se al mio primo impancarmi, egli scrivèvami il seguente viglietto:


«TU!

«– ‘Sta mezzanotte, io (che sono il mago) ti verrò a prèndere col forcone; ti chiuderò in capponaja, ti farò venir grasso, poi ti butterò in un caldaro – e ti mangerò...


il quale viglietto mi diè’ qualche apprensione, due giorni dopo, com’io andava in cerca di una penna d’acciajo, egli, senza mèttervi su nè sale nè olio, mi rovesciò dinanzi lo scatolino di Goro Sàiler il diligente, giuràndosi per mio amicone e, in prova di questo – nè molto stette – picchiò ben bene Pino Lamberti, che, motteggiando sulla mia confusa scrittura, dicèvala: brughiera di Gallarate.