L'Altrieri/Panche di scuola/II
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Infine, ivi bene a un mese, venne il dì posto, quella mattina freddotta e poco appresso il Natale in cui il carrozzone della famiglia, verde chiaro o, piuttosto, sporco, greve, vasto come lo richiedeva il guardinfante di mia bisàvola (chè esso avèa condotto dalla Germania al nonno di babbo la baronessa di Staubibach sua sposa) stette, con le nostre due spelacchiate rozze dai finimenti tre quarti corda ed uno corame, davanti alla gradinata ed attese. Noi, tutti e tre, allora, vi ci rassettammo; la frusta die’ il primo chiocco, i cavalli il primo scappuccio.
Nel luogo verso il qual trottavamo era un ben avviato negozio di scienza che andava sotto il nome del professore Proverbio, un degnìssimo uomo, imbastitore di una gramàtica e di una antologìa di brutte lèttere; due libri che gli avèvano fatto ottenere la croce di cavaliere e la immortalità sul gran dizionario-ricatto de’ viventi scrittori. Proverbio e la casa di lui, mio padre, li avèa conosciuti a propòsito di certe botti di vino loro vendute e ne restava invaghito: rivìstili gli s’impiombàvano le simpatie.
E in verità, se la bottega non la poteva chiamarsi di prima classe, non lo era nemmeno di terza, oltre di che piantàvasi un cinque miglia solo distante da noi, incantinava del vino eccellente (e babbo se ne teneva) poi... In poche parole – ecco una gazzetta: La voce del gran S. Bernardo:
– Il professore cav. Giosuè Proverbio – essa stampa nel MINESTRONE DELLE NOTIZIE – per soddisfare ai desideri di questa colta città – (e mette lo stesso il commendatore Marfori, prestigiatore) – volle – a ragione di tanto – sagrificarsi alla gioventù fondando un Collegio-Convitto ùnico nel suo gènere. La posizione ne è eccezionale; il locale, il più confortàbile... Trenta professori, senza contare i bidelli, un’impiallacciatura di ogni scienza a prova di tarlo, letti al sicuro dei centogambe, catechista senza pidocchi, infine... – l’occhio perspicace di un padre, la mano premurosa di una madre – e – quattro piatti a tàvola, frutta, formaggio, con un bicchiere di vino. –
Il casamento era isolato. Rassomigliava, in complesso, a un dado immenso. Tègoli rossi, gelosìe verdi. Intorno intorno, gli correva un murello, interrotto qua e là da ingraticolati a pilastrini, sui quali – fra alcuni vasi a fiamma di pietra – aggomitolàvansi di que’ barocchi nani in arenaria che già facèvano, dalle risa, saltare i bottoni agli adorati panciotti de’ cavalieri serventi, e, dalla paura, abortire le loro damine; – e – dietro al graticcio, vedèvasi sgambettare, dar alla palla, altalenare, tuttochè sur uno strato di neve, un nùvolo di fanciulletti. Aperto il cancello, la nostra berlina svoltò lentamente: accompagnata da un bracco, che festosamente scodinzolava e faceva bau bau, giunse per l’inghiarato a un peristilio psèudo-greco-romano.
Tutto brillava, scintillava ad uno schietto raggio di sole – le vetriere del fabricato, le gronde, le banderuole di latta, la piastra Assicurazioni incendi, la soprascritta dell’Istituto (lèttere d’oro su fondo turchino) cioè; Collegio-Convitto prìncipe di Gorgonzola, e – sotto – la testa calva, fregata quasi con chiara d’uova, gli occhiali e l’aurea grossa catena dell’orologio su raso nero del direttore-proprietario medèsimo. Il quale, rotondo come una mortadella, dal frontispizio fiorito, olïoso, con un solo cerchio di barba intorno al mento, pavoneggiàvasi là, tra due colonne del pòrtico, per avvertire a’ suòi scolaretti e insieme godere di quella finestrata di sole – le gambe aperte, le mani in saccoccia, scuotendo e riscuotendo soldoni. Proprio, a modo di un albergatore di campagna: non gli mancàvano che il berretto, il bianco grembiale e, in giro, nell’aria, un profumo d’arrosto.
Come peraltro ci scorse, cessò di fare la ruota. Fu lui che ne sportellò la carrozza e scese lo smontatojo, che offerse il braccio a mia madre e trasportò mè a basso, che infine, ricevuta rispettosamente da babbo una stretta di mano, si prese il piacere, anzi l’onore, scambiando ad ogni uscio smorfie e cerimonie pel passo, di condurci al suo studio.
Oh! che studio: il più lustro ch’io vedessi mai! Salvo che nel soppalco, macchiato da certi segni che parèvan di tappi e di zaffate di vino, io mi specchiava dovunque; e nelle pareti a stucco e nel pavimento alla Veneziana – a propòsito del quale domando io se è un gusto davvero quello di stare sempre lì lì per ròmpersi una vèrtebra – e nei mòbili a lùcido e in due gran busti di gesso verniciati da marmo (Cicerone ed Orazio) dal lusinghiero, innocentino sorriso... Ipocritoni! E il signor Proverbio ci avvicinò delle sedie coperte di sdrucciolèvole pelle – sedie cedèvoli come toppi di legno. Un po’ di gonfiatura, poi, la porta si schiuse:
I° a un servitorello, tosato al par di un barbino in primavera, che entrava reggendo un vassojo con aque concie, parte giallògnole e parte rossigne;
2° ad una donnuccia vestita di una lanetta, sorella, credo, alle due tende tessute a farfalle dello studiolo – una donnuccia che avèa della chinesina e pei capelli strappati all’indietro e per gli occhi a màndorla e per la tentennante andatura, effetto, là in Pagodìa, di piedi strozzati entro scarpine di porcellana; quà, di qualche osso fuori di casa.
– La è la nostra massaja! – esclamò il direttore pigliàndola per un dito e presentàndocela come il cavallerizzo fà di una Miss sfondatrice di cerchi incartati.
– Mia moglie... Gemma. -
Inchino generale: altra incensata. Mentre tìtubo ancora a fare la scelta tra le due sorta di aque tinte, il signor Giosuè, battèndomi una spalla, vuole ch’io lo inscriva pel mio più buono amico; la signora Gemma, toccàndomi l’altra, promette di pettinarmi ella stessa: tutti e due dilùviano in tanti punti di esclamazione, in tante lodi che sembra non àbbiano, se non per mè, edificato il loro collegio. Proprio come il Dio delle scalette trapuntò il cielo di fiamme a passatempo dell’uomo e seminò i pòpoli per quello di pochi frustamattoni, i rè.
Ma – quando il nostro becco fu molle ed ai Proverbio aridì – desideràndolo babbo, ci alzammo a visitare la fàbbrica. E lì, allora, vedemmo una grande cucina col suo cuochetto in bianco, con la piatteria e il rame in cui dava il sole, con un odore di caffè tosto, un borbottamento nel caldajo; e poi, vedemmo il lungo mangiatorio dai muri pitturati a convenzionali paesaggi (giardino con lago, cigni e tempietto; bosco con eremita...) dalla volta azzurra, a nuvoline, ròndini e due lumiere appiccàtevi – più – con sopra le finestre e le porte, dipinti a combutta, libri, calamài, cocòmeri, penne di oca e pezzi di formaggio; in sèguito, la librerìa, la pollerìa, il gabinetto di fìsica, le scuole, il dormitorio... In una parola – tutto.
Quanto a mè, cercavo attentamente i luoghi del castigo. Mio padre, mi ricordavo benissimo, me li avèa descritti, quando non esisteva peranco la probabilità ch’io li potessi temere, come degli orrìbili buchi. Li cercavo ora dunque e, avvisando, nel traversare un androne, ad una lunga fila di porticine, chiesi al direttore, se i famosi in-pace del collegio èrano quelli. Egli sorrise; babbo si tenne la pancia.
– Sì, sono – fece quest’ùltimo.
– Vero? – E vènnemi una matta voglia di curiosarvi. Ne diserrài uno... Scscsc... ciaach... che fumo! Che puzza di tabacco pipato!
– Ah! i por... – gridò Proverbio arrossendo (e spinse, incatenacciò l’usciolo) – sempre così, i domèstici! – aggiunse verso di noi.
Sottosopra, peraltro, i mièi rimàsero soddisfattìssimi. Come poi indirizzàvansi alla carrozza, si affrettàrono di lasciare al direttore i loro complimenti sinceri, cui egli rispose accollando a babbo un pacco di descrizioni del suo spettàbile collegio (ivi litografato sotto un certo punto di vista da somigliare una reggia) ed io – in questa – promettèndomi essi, fra i baci e le làgrime, di venirmi presto a vedere, li avvertìi, di non farlo, se non con molti giuochi e chicche... Fu il mio ùltimo addìo! O cattivìssimo Guido! Ma allorchè la verdechiaro berlina si mosse e le cricchiò sotto la ghiaja ed essa svoltò e poi scomparve dietro al murello di cinta, io mi sentìi improvvisamente solo; ciò che prima mi era sembrato sì lucicante – le gronde di latta, le vetriere, l’aurea catena di Proverbio – appannò; io mi trovài in un abbandono, in un malèssere tali, che stetti a un filo di còrrere appresso a chi mi rubava il mio raggio di sole.