L'Altrieri/Panche di scuola/I
Questo testo è completo. |
◄ | Panche di scuola | Panche di scuola - II | ► |
Il grattacapo de’ miei genitori stava, come già sapete, nel mio avvenire. Generalmente essi ne ragionàvano a sera, quando, divisi dalla tàvola, babbo schizzàvasi un rèbus, mamma intelucciava, mendava qualche mio tòmbolo e, loro presso, in una poltrona, il vostro amico scrittore se la dormiva. Secondo mio padre, io era uscito a questo mondo apposta per la diplomazia. Egli me ne scopriva credo, la vocazione nelle molte bugie, nelle fandonie, che gli vendevo ad ogni momento ed egli, uomo cui si sarebbe tolto, senza che se ne accorgesse, il panciotto, m’imaginava giojosamente là, dritto, intirizzito, in giubba verdona, spada, calzoncini e scarpette, a dòndoli, ciòndoli, – come un cereo personaggio da fiera – il cuore in saccoccia incartato ed il sorriso stradoppio: mia madre, invece, figlia di un generale, sorella di un colonnello (non oso dir moglie di un capitano, chè babbo non lo era che della milizia civica) vedèvami – intanto ch’io forse sognava di un cavallo di legno a mòbile coda – su un vero e vivissimo bajo, in una montura rossa dagli aurei agrimani, con un pennacchio bianco, sciàbola che ticchettava, brioso, galoppando, mandando in cimberli tutte le gonne del corso. E questo, a propòsito di un brillante avvenire. Siccome peraltro v’ha in ogni cosa del nero – il che, tra noi, egregiamente serve a far risaltare i colori – così, anche un lumacone di uno zio canònico, unto come la ghiotta, tirava sopra di mè a suo modo, somme e moltipliche. Lo spaventacchio! Io ne temeva i baci, biasciosi, tabaccati, come gli scappellotti: intravedùtolo a pena, battèvomela. Ed egli veniva ogni tanto da noi, sempre con un involto di nuove ragioni ch’egli spiegava su pel tappeto, magnificàvane la qualità, il prezzo... In poche parole, voleva ch’io mi scambiassi in un lavampolline. Io! pensate. Con il colletto strangolatojo, colla triste sottana, con l’O sulla coccia!
Ma, foglie – e – frasche! lasciando dir tutti, filosoficamente russavo. A che buono scaldarmi? Senza il mio visto, già, i grandi lor piani potèvan servire a stoppar buchi da toppe. Dunque, se ben volentieri accettavo ogni presente dalla parenteria, sbudellando i bussolotti di babbo, rompendo gli schioppetti di mamma, fondendo le croci, i vèscovi di peltro e gli altri utensili da altarino di zio, quanto a digerire un consiglio, a elèggere una strada, oh! non mi si trovava mai a tempo.
E sì che il brodo in cui mi cuocevo era il sciocchìssimo. Stringèvami una tale ripugnanza per tutto ciò che usciva dalle botteghe del librajo e del cartolajo, una tanta paura che, al muòversi di qualche pàgina, allo strìdere di una penna, davo una giravolta e via. Così, se qualche pagliùcola di sapere spuntàvami ciònondimeno nel ciuffo, lo era a mia insaputa: i mièi parenti ve l’avèano posta con ogni sorta di precauzioni, con ogni fatta di astuzie. Guài me ne fossi accorto! guài. E ne scoperchio un esèmpio.
Ritorno a’ mièi cinqu’anni: siedo, in una sala priva di luce, sulle ginocchia di mamma. Di faccia a noi, stacca nella oscurità un quadro di carta velina, luminoso, dietro del quale, babbo è nascosto. Molte e molte ombre vi pàssano... ed uno zoppo che leva e si mette il cappello... e un cagnolino che muove la coda e un soldato che brandisce la spada... e una contadina che fa il butiro e buòi che dìcon di sì e... Ma, ecco un triàngolo – una livella quasi da muratore...
Io ne raccapriccio, ne ho lo stesso bizzarro spavento che coglie, ora, il mio cuginetto Poldo dinanzi a un piatto di gelatina o a un biancomangiare che bùbboli.
– Non volio d’A – grido. E l’A scompare.
E sfìlano, ancora, brave persone... Una donnetta con parapioggia, un ragazzino che corre, due àsini (babbo qui ragghia)... un pulcinella... poi... Tò! un altro intruso. La è una pìccola serpe; par la stanghetta del barbazzale, il gancio della catena del fuoco.
– Niente M – strillo aggricciando.
Il biscio non muòvesi.
– Niente O... niente R – sèguito a strappabecco.
Ma nulla di nuovo... nulla! e perchè? Sèntomi su’n materasso imbottito di noci. Mi volgo. Mamma fà un leggierissimo fischio.
– Ah! S! via la S – scoppio allora con gioja. E il serpentello sparisce e la rappresentazione continua.
Per quello che poi riguarda la mia cattiveria, già scrissi a lèttere capitali. Se, alla dolce influenza di Gìa, ella si era per così dire coperta di cènere, ito che fu quel pòvero uccello di passo, di colpo la si sbraciò, io ridivenni un subbisso, e, stavolta, così fuor di misura, con tali caparbietà che sono certo di non aver mai fatto soffrire i mièi, come in quel tempo: nè quando misi i denti di latte, nè quando strafallìi gli esami.
Oh disilluso babbino! Il tuo diplomàtico liquefacèvasi al par di un gelato in una calda festa da ballo, ne aggrinzivano le decorazioni e il vento se le portava: ecco apparire invece un uomo con cappellaccio a gronda, la pipa in mezzo di una barba lunga, incolta, ed un bastone bernoccoluto nel pugno. E intanto, al colonnello di mamma si assottigliava il destriero, diventava di legno, prendendo a poco a poco figura di una enorme scopa, e intanto, lo zio canònico già mi sognava nell’unghie di Tentennino, fatto saltare come un marrone di padella in padella dai diavoletti a coda arroncigliata: stà il fatto che l’eccellente pretone, un giorno, propose a mio padre (e punto ridendo!) di menarmi – lui stesso – alla Diana... alla Madonna di Efe... di Loreto od anche, di fare fregare le mie lenzuola contro la cristallina arca di San Galuppo, il tocca-e-sana degli invasati.
Babbo, peraltro, avèa la mente ad una diversa esorcizzazione: il collegio. Io, con tutto il rispetto per il brav’uomo, con la màssima voglia di trovar scuse a certe superstizioni di lui, bisogna tuttavia che osservi come, de’ due rimedi, il migliore o, se non altro, il meno cattivo, fosse quello di zio.
Diàvolo! essendo tante le gradazioni dei caràtteri quanti gli uòmini, ne dovrèbbero per necessità venire altrettanti sistemi di educare. Se tu, cozzando con un temperamento di acciajo, arrischi – senza frutto – le corna, usando invece di questa tua forza contro ben altra tempra, riuscirài allo scopo con quella facilità stessa colla quale riversi un guanto o ti succi un uovo.
- Molti sono degli uòmini i capricci;
- A chi piàccion le torte, a chi i pasticci:
e quindi?...
Ne deriva che se un quidam, padre di cinque figli, si ponesse all’impegno d’incappellarli tutti con un solo berretto o di calzarli colla medèsima scarpa, troverèbbesi lo cento miglia fuori di carreggiata – ammessa la quale cosa, chi non vede l’assurdità dell’educazione collegiale? di quell’educazione a suono di campanella che òbbliga il malaticcio o delicato fanciullo a torsi dalle coltri alla stessa prest’ora del suo robusto e carnacciuto camerata; di quell’educazione che costringe lo sveglio e il diligente al passo dei capocchi o trasandati; di quell’educazione che, in sostanza, consìdera i suòi soggetti come altrettante màchine, uscite da una mano sola, dagli idèntici ordigni, e tutte caricate assieme in un dato giorno?...
Ma, rincasiamo. Ben triste, ben lagrimoso fu a’ mièi genitori quel punto in cui dovèttero tirar fuori un’idèa già covata da lungo, dovèttero confessarsi cioè, che per il loro figliuolo era necessario, indispensàbile... un collegio. Tieni per certo, piccoletto Gustavo, che, se tu addolori, quando sei castigato, i tuòi ne sòffrono ancora di più.
Ma, fatta la grande risoluzione, importava comunicàrmela. Si titubò. Mamma e babbo accarezzàvano moltìssima fede intorno alla mia delicatezza, a’ mièi sentimenti – essi, dunque, non mi parlàrono di collegio se non dopo un labirinto di andirivieni, un monte di storie, se non presentàndomene l’imàgine attraverso un nebbione di cioccolatini e di giuochi. Pur s’ingannàvano. Io era innamorato del nuovo, del cangiamento, io; per la qual cosa non mi grattài un minuto secondo la nuca – accettài; accettài con tanta facilità, così liberamente, di slancio, che, ne’ mièi arcibuoni parenti, al timore di afflìggermi, al piacere d’avermi persuaso, subentrò una scontentezza profonda pel mio cuore di stoppa, la mia ingratitùdine.
Ed io, approfittando della circostanza, domandài loro una nuova carriola.