L'Altrieri/Introduzione
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I mièi dolci ricordi! Allorchè mi trovo rincantucciato sotto la cappa del vasto camino, nella oscurità della stanza – rotta solo da un pàllido e freddo raggio di luna che disegna sull’ammattonato i circolari piombi della destra – mentre la gatta pìsola accovacciata sulla predella del focolare, ed anche il fuoco, dai roventi carboni, dal leggier crepolìo, sonnecchia; oppure quando, seduto sulla scalèa che dà sul giardino, stellàndosi i cieli, sèntomi in faccia alla loro sublime silenziosa immensità, l’ànima mia, stanca di febbrilmente tuffarsi in segni di un lontano avvenire e stanca di battagliare con mille dubbi, colle paure, cogli scoraggiamenti, strìngesi ad un intenso melancònico desiderio per ciò che fu.
Io li evòco allora i mièi amati ricordi, io li voglio; li voglio, uno per uno, contare come la nonna fa co’ suòi nipotini. Ma essi, sulle prime, mi si tìrano indietro: quatti quatti èrano là sotto un bernòccolo della mia testa; io li annojo, li stùzzico; quindi han ragione se fanno capricci. Pure, a poco a poco, il groppo si disfa; uno, il men timoroso, caccia fuori il musetto; un secondo lo imita: essi comìnciano ad uscire a sbalzi, a intervalli, come la gorgogliante aqua dal borbottino.
Ed èccomi – a un tratto – bimbo, sovra una sedia alta, a bracciuoli, con al collo un gran tovagliolo. La sala è calda, inondata dal giallo chiarore di una lucerna a olio e, intorno intorno alla tàvola dalla candidìssima mappa, dai lucenti cristalli, quà e là arrubinati, dalla scintillante argenterìa, vi ha molti visi – di chi, non sovvengo – visi rossi ed allegri, da gente rimpinzita. E lì, due mani in bianchi guanti, pòsano nel mezzo, su un piatto turchino, quel dolce che è la vera imàgine dell’inverno, che così bene rappresenta la neve e le foglie secche. Io batto le palme, e... Io mi trovo un cialdone, gonfio di lattemiele, appiccicato al naso...
E tutto rovina. Segue una tenebrìa: a mè par d’èssere solo, solìssimo, in una profonda caverna in cui l’aqua stilla, gelata, lungo le pareti; in cui la terra risuona. E mi fu detto ch’io ebbi molto bìbì... Sia! doppiamente presto che sopra un teatro, la scena si muta. Rimpolpato, rimpennato, stavolta le rondinelle mi scòrgono in un giardino a capo di una viuzza orlata dall’una e dall’altra banda con cespi di sempreverdi. Il cielo è d’un azzurro smagliante; l’àura, fresca, odorosa. Una bambina con i capelli sciolti spunta all’estremo della viuzza e corre spingendo davanti a sè un cerchio. Com’ella mi giunge, si arresta, si sbassa: stringèndomi colle sue manine le guancie, m’appicca uno di quelli schietti baci che làsciano il succio. E il cerchio intanto, abbandonato, traballa, disvìa... giravoltando, cade.
Ma, col sangue che questo baciozzo attira, vien, pelle pelle, ogni ricordo dei tempi andati. È la paletta che sbracia il caldano. Spiccatamente io comincio a vedere, io comincio a sentire.
E tò, in un salone (che stanzettina mi sembra adesso!) entro una màchina di una sèggiola, mia nonna, ammagliando una bianca calzetta eterna, col suo ricco e nero amoerre dal fruscìo metàllico e con intorno allo scarno adunco profilo, un cuffìone a nastri crèmisi e a pizzi: vicino a lei, sul lùcido intavolato, rùzzola, da mè lanciata, una trottola.
Strìduli suoni d’un ansante organetto sàlgono dalla strada. Io, sùbito, dimenticando il favorito pècoro di cartone e gli abitanti di una gigantesca arca di Noè, delle cui verniciate superfici sèntomi ancora ingommate le mani, balzo al poggiuolo, arràmpico sul balaustrata e giù vedo un microcosmo di cavalieri e di dame che salterèllano convulsi sullo sfiatato istrumento.
– Oh i belli! i belli! – grido applaudendo... e lascio cadere verso quel cenciosello, che con un berretto, da guardia civica, del padre, cerca d’impietosire impannate e vetriere, il mio più lampante soldo. In questa, uno zoccolare dietro di mè. È Nencia, la bambinaja: sobbràcciami d’improvviso, mi porta via – mi porta, in làgrime e sgambettando, in una càmera dove stà un tepido bagno. E lì, essa e mamma, mi svèstono, mi attùffano, m’insapònano da capo a piedi. Imaginate la bizza! Ma il martirio finisce: tocco il paradiso. Sciutto, incipriato, rinfoderato in freschi lini dal sentor di lavanda, mamma mi piglia sulle ginocchia... Giuochiamo a chi fà il bacio più pìccolo. Un barbaglio di quelle graziose paroline, dolce segreto fra ogni madre e il suo mimmo, le nostre labbra, nel baciucchiarsi, pispìgliano. E babbo sopraviene; ei vuole averne la parte sua, naturalmente! – Cattivo babbino – dico io schermèndomi – tu punci, tu... -
Oh, i mièi amati ricordi, èccovi. Mentre di fuori, ai lunghi sospiri del vento, frèmono, piègansi le pelate cime degli àlberi e batte i vetri la pioggia – qui vampeggia il più allegro fuoco del mondo, scoppietta, trèmolo illuminando lieti visi dai colori freschìssimi; quì, un mucchio di crepitanti marroni, or or spadellati, forma il centro del cìrcolo... Amici mièi, novelliamo.