Jolanda, la figlia del Corsaro Nero/CAPITOLO VENTIDUESIMO

Il giaguaro

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CAPITOLO VENTIDUESIMO

Il giaguaro


La notte, sulle rive di quella deserta laguna, al margine di un bosco vicino infestato probabilmente da belve affamate, s’annunciava terribile per la valorosa fanciulla, tanto più che Morgan, ripreso dalla febbre, che sotto quei climi assume rapidamente dei sintomi gravissimi, ricominciava a vaneggiare.

Si era accoccolata sotto la piccola tettoia, presso il ferito e dietro ai due fuochi che mandavano bagliori sinistri sulle piante vicine. Si era messa dinanzi la spada e la pistola e spiava ansiosamente il margine della foresta, dove udiva, di quando in quando, echeggiare il lugubre ululato del giaguaro.

Mille rumori cominciavano ad alzarsi, sia sugli isolotti e sui banchi della laguna ingombri di legni cannone e di manghi, sia fra le folte macchie che proiettavano le loro cupe ombre sulla riva.

Erano gracidii di batraci o di quegli enormi rospi chiamati pipa, sibili di rettili acquatici e terrestri, urla acute che si ripercuotevano senza posa sotto le vôlte di verzura, mandate dalle scimmie rosse e dai cebi, a cui facevano di quando in quando eco gli u-uh! rauchi dei coguari e dei maracaya.

Jolanda si sforzava di mostrarsi tranquilla, tuttavia ad ogni ululato del giaguaro si stringeva presso Morgan e rabbrividiva, credendo sempre di vedersi dinanzi quei formidabili predatori che la fame doveva, presto o tardi, spingere verso il piccolo accampamento.

"Come finirà questa notte?" si chiedeva con angoscia. "Avessi almeno delle munizioni, mentre non ho che un solo colpo da sparare e che può anche andare a vuoto."

Il filibustiere pareva che non udisse nulla. Dormiva o meglio era assopito dalla febbre che abbatteva la sua vigorosa fibra, però di quando in quando si agitava violentemente, sbarrava gli occhi e pronunciava parole che non avevano senso.

Jolanda si sforzava di calmarlo, ma il disgraziato pareva che non udisse neanche la voce della fanciulla. Pareva anzi che si fosse perfino scordato di averla vicina.

Solo a lunghi intervalli, acquistava qualche istante di lucidità e allora la prima parola che gli sfuggiva dalle labbra arse dalla febbre era per chiedere acqua.

Fortunatamente le due mezze zucche erano molto capaci e Jolanda non aveva timore che la provvista si consumasse prima dell’alba.

Verso la mezzanotte però, la febbre essendo forse cessata, Morgan tornò completamente in se stesso. Il suo primo sguardo fu per la fanciulla che gli stava vicino.

"Vegliate?" chiese egli, con dolcezza. "Povera signora!... Fate la guardia, mentre io dormo."

"Non ho sonno, signor Morgan" rispose Jolanda. "E poi mi preme che non si spenga il fuoco."

"Eppure dovete essere stanca."

"Mi riposerò quando si alzerà il sole. Io sto bene, mentre voi siete ferito e avete perduto tanto sangue."

"Sì, quella maledetta freccia!" esclamò Morgan, con rabbia.

"Nessuno ci minaccia per ora."

"La notte nasconde mille pericoli."

A un tratto, con uno sforzo supremo, si alzò a sedere, fissando sulla fanciulla due occhi smarriti.

Aveva udito in quel momento echeggiare il rauco ululato del giaguaro.

"Dite che nessuno vi minaccia?" esclamò. "Avete scordata quella belva?"

"Non si è ancora mostrata presso di noi e poi non ho la spada e la pistola?" rispose la fanciulla.

"Può piombarvi addosso."

"I fuochi ci proteggono."

"Sì, ma non sono tranquillo, signora. Se vi dilaniasse? Aiutatemi ad alzarmi. Voglio difendervi."

"Non avete la forza di affrontare un simile carnivoro, signor Morgan. Rimanete coricato o la vostra ferita invece di rimarginarsi s’inasprirà maggiormente."

"Divorerà almeno me, invece di voi. Non voglio che voi cadiate fra gli artigli di quella fiera."

"Vi ripeto che non si è ancora mostrata. Orsù, ricoricatevi, ve ne prego. Ecco la febbre che vi riprende."

"La febbre" disse Morgan, con un brivido. "Acqua... la Tortue è sempre lontana? Non vedo qui più la mia Folgore... Che quel cane d’un conte l’abbia affondata?"

"Che cosa dite, signor Morgan?" chiese Jolanda.

"Sì, è stato lui, sai, Carmaux? Bisogna impiccarlo affinché non faccia del male alla signora di Ventimiglia... Vuol riaverla in sua mano... Prepara una buona fune... lassù... sul pennone di parrocchetto..."

Morgan tornava a vaneggiare, mentre l’ululato del giaguaro si faceva udire sempre più vicino.

Jolanda lo costrinse a ricoricarsi, poi afferrò la pistola e la spada e guardò con profonda ansietà verso il margine della foresta.

L’urlo del giaguaro era risuonato così vicino, da far credere che si trovasse solo a pochi passi.

E infatti in mezzo ad un folto cespo di passiflore che si alzava a metà costa, Jolanda vide scintillare fra le tenebre due punti verdastri, simili agli occhi di un gatto.

"È là che mi spia" mormorò la fanciulla, mentre si sentiva bagnare la fronte di freddo sudore. "Potrò io resistergli o ci sbranerà tutti e due?"

Gettò su Morgan uno sguardo disperato. Il filibustiere aveva rinchiusi gli occhi, però continuava ad agitare le braccia e a pronunciare parole sconnesse.

Colla punta della spada riattizzò il fuoco più vicino, poi vi gettò sopra un fastello di legna resinosa.

La fiamma s’alzò altissima, illuminando tutto il declivio della costa e gettando in aria numerose scintille.

Il giaguaro, senza dubbio spaventato o irritato da quell’improvvisa fiammata, si era slanciato fuori dalla macchia di passiflore, ululando spaventosamente.

La luce proiettata dalle fiamme lo illuminava pienamente.

Era un superbo animale, grosso quanto una tigre di mezza età, di forme tozze ed un po’ pesanti, lungo quasi due metri, con un mantello corto, fitto e morbido, dalla tinta giallo-rossiccia a macchie nere orlate di rosso ed il ventre biancastro.

Vedendo la fanciulla ritta dinanzi ai due fuochi, in un atteggiamento risoluto, colla spada in pugno che scintillava alla luce dei due falò, si era arrestato, raggrinzando il muso e mostrando i suoi formidabili denti.

La sua coda spazzava dolcemente le erbe, sollevando le foglie secche con uno scrosciare ruvido. Non ululava più: coi baffi irti ringhiava sordamente, dardeggiando sulla signora di Ventimiglia, che pareva che lo sfidasse, uno sguardo ripieno d’ardente bramosìa.

La fame doveva tentarlo, però i due fuochi lo trattenevano ancora e non osava slanciarsi verso la piccola tettoia sotto la quale Morgan, in preda alla febbre, continuava a vaneggiare.

Si leccò con quella mossa che è familiare ai felini, le zampe anteriori, si lisciò le spalle ed il petto, sbadigliò due o tre volte, poi fece qualche passo innanzi con un rom-rom che non era certo di buon augurio.

Stette un momento immobile, continuando a lisciarsi il pelame, poi fece alcuni passi ancora, sempre fissando la fanciulla ed accostandosi al fuoco.

Si muoveva lentamente, quasi avesse paura di spaventarla, rivoltandosi di frequente su se stesso per leccarsi i fianchi. La signora di Ventimiglia, quantunque non conoscesse le abitudini traditrici di quei formidabili animali, non si lasciava sedurre da quelle dimostrazioni pacifiche.

Ritta sempre dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più: si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro di lei.

Il giaguaro ebbe un po’ di esitazione, poi cercò di girare attorno ai due fuochi, prima quello di destra, poi quello di sinistra.

Jolanda, comprendendo il pericolo che correva se l’animale riusciva a compiere quella manovra, s’abbassò rapidamente deponendo per un momento la spada, raccolse un grosso ramo resinoso e glielo gettò contro colpendolo sul muso.

L’animale, sentendosi bruciare i baffi, mandò un ululato spaventevole, poi fuggì a rompicollo facendo balzi di tre o quattro metri sul margine della foresta s’arrestò guardando coi suoi occhi fosforescenti e minacciosi il piccolo accampamento.

Jolanda trasse un profondo respiro di sollievo. Il pericolo per il momento era scongiurato.

"Non resisterei però ad un’altra simile prova" mormorò, asciugandosi il sudore che le bagnava la fronte. "Non avevo mai veduta la morte così vicina."

Guardò Morgan e vide che dormiva tranquillo. La febbre doveva avergli concessa un po’ di tregua.

"Non si è accorto che la belva stava per assalirci" disse. "Meglio così. Anche ferito si sarebbe alzato per difendermi e forse avrebbe commessa qualche pazzia e provocato lo slancio del giaguaro."

Alzò gli occhi verso il margine della foresta e vide ancora il maledetto animale, ritto fra due cespugli, che la osservava, seguendo attentamente tutti i movimenti che essa faceva.

Pareva di pessimo umore, perché lo si udiva brontolare. Quell’accoglienza che gli era costata la perdita dei baffi non l’aveva certo soddisfatto.

"Pare che non abbia voglia di ritentare la prova" disse la fanciulla, gettando sui fuochi due altri fastelli di legna.

In quel momento udì Morgan chiamare:

"Signora... acqua... brucio."

"Avete sempre la febbre, è vero, signor Morgan?" chiese Jolanda, presentandogli la zucca ed aiutandolo ad alzarsi.

"Ne avrò fino all’alba" rispose il filibustiere. "E voi non avete preso ancora un istante di riposo? Vi ammalerete, signora."

"Non pensate a me. Avrò tempo per riposarmi."

"Ah!..."

"Che cosa avete, signor Morgan?"

"Ed il giaguaro?"

"L’ho fatto fuggire."

"Voi!..." esclamò Morgan.

"Guardate, non gira più attorno a noi. Si era bensì accostato il briccone, e gli ho accarezzato il muso con un tizzone acceso e ci ha lasciati tranquilli."

"Siete ben la figlia del Corsaro Nero voi" disse il filibustiere, guardandola con ammirazione. "Così giovane, affrontare una simile fiera!... Nemmeno Carmaux l’avrebbe osato."

"Eppure la cosa è stata facilissima e non ho nemmeno sacrificato l’ultimo colpo di pistola."

"Quanto vi dovrò, signora!"

"Sì, un po’ d’acqua" disse Jolanda scherzando.

"No, la vita, poiché se io fossi stato solo, assopito dalla febbre come ero, il giaguaro mi avrebbe divorato. È lontana l’alba? Io ho perduta la nozione del tempo."

"Abbiamo ancora parecchie ore di oscurità. Cercate di riposare, signor Morgan; il sonno fa bene agli ammalati. E la vostra ferita vi addolora?"

"Non troppo, signora. Sotto questi climi si cicatrizzano rapidamente. È la febbre che può diventare pericolosa."

"Ricoricatevi, mentre io vado a riattizzare il fuoco."

Morgan, che si sentiva effettivamente assai spossato, un po’ in causa dell’eccessiva perdita di sangue e un po’ per la febbre, obbedì.

Jolanda, che temeva sempre qualche altra sorpresa da parte del giaguaro, si accostò ai fuochi che riattizzò sprigionando un nembo di scintille che fecero fuggire tre o quattro grossi vampiri che volteggiavano in quel momento al di sopra della piccola tettoia, forse colla speranza di sorprendere Morgan e dissanguarlo colle loro trombe a ventosa, armate di papille perforanti.

Guardò verso il margine del bosco e fu ben lieta di non vedere più il giaguaro.

O l’animale, disperando di saziarsi colle delicate carni della fanciulla, aveva perduta la pazienza e se n’era tornato nella sua tana, oppure aveva potuto sorprendere qualche altra preda più facile da abbattere e se l’era portata più lontana per divorarsela tranquillamente.

La fanciulla, rassicurata, e vedendo che Morgan aveva ripreso nuovamente il sonno, si sedette presso i due fuochi, aspettando pazientemente che il sole spuntasse.

Nella foresta non si udivano più né ululati, né ringhii, né fischi di rettili. Le sole scimmie davano ancora dei concerti spaventevoli, facendo rimbombare le vôlte di verzura coi loro formidabili hon... hon.

Finalmente le tenebre cominciarono a diradarsi verso oriente e le acque della laguna si tinsero dei primi riflessi dell’alba.

Gli uccelli si destavano. L’onorato riprendeva le sue note musicali, do... mi... sol... do; i tucani mandavano le loro grida discordi e dure, somiglianti al cigolare d’una ruota priva di grasso; i craci gorgogliavano imitando i tacchini; i pappagalli schiamazzavano sulle più alte cime dei formaggieri od in mezzo alle sipe.

Jolanda si era alzata avvicinandosi a Morgan. Il filibustiere dormiva ancora ed era tranquillissimo.

La febbre doveva essere cessata.

"Se approfittassi del suo sonno per cercare la colazione?" si chiese Jolanda. "Con un colpo di pistola potrei uccidere qualche animale. Ho udito raccontare che i cervi non mancan nelle foreste del Venezuela."

Mise accanto a Morgan una cuia onde potesse dissetarsi nel caso che si svegliasse, poi, dopo d’aver ravvivati i due falò cogli ultimi fastelli, sapendo ormai per prova che erano sufficienti a proteggere il piccolo accampamento, prese la spada e la pistola e si mise a costeggiare la laguna, le cui rive erano coperte da foltissime macchie di legno cannone e di passiflore.

Non aveva già intenzione di allontanarsi troppo, per paura che il giaguaro approfittasse della sua assenza per gettarsi sul ferito e dilaniarlo.

Si mise a rasentare le macchie, frugandole colla punta della spada, colla speranza di sorprendere qualche animale, volgendosi di quando in quando per guardare la tettoia.

Aveva già percorsi cinque o seicento passi, quando vide uscire da un cespuglio un branco di grossi granchi di mare che fuggivano precipitosamente verso la laguna.

Erano dei brutti crostacei, che rassomigliavano per grandezza alle migali, colle branche adunche e robustissime ed il dorso rugoso.

"Fuggono!..." esclamò la fanciulla. "Che vi sia qualche carogna in mezzo a quel cespuglio?"

Allontanò con precauzione i rami e s’avanzò lentamente, tenendo la spada tesa, ma ad un tratto si fermò, poi indietreggiò mandando un grido d’orrore.

Steso fra le foglie secche, stava un corpo umano, che indossava ancora un vestito di grosso panno verde ed una corazza, ed il cui capo completamente scarnato o dai granchi o dalle termiti, era privo della più piccola particella di carne.

Anche i lunghi stivali di cuoio giallo, non stringevano che due stinchi e dalle maniche della giubba spuntavano delle falangi prive di pelle e di nervi.

A pochi passi stava uno spadone irruginito e snudato ed una fiaschetta di metallo, che pareva di stagno.

"Un morto!..." aveva esclamato la fanciulla, dopo il primo istante di spavento. "Chi avrà ucciso questo disgraziato? Gl’indiani o qualche belva?"

Lo guardò meglio e non scorse sulle vesti alcuna traccia di sangue, né alcun strappo che potesse indicare il passaggio d’una punta di freccia.

"Triste scoperta" mormorò la signora di Ventimiglia. "Sarà serbata anche a noi una sorte eguale?"

Stette qualche momento a contemplare quel disgraziato, uno spagnolo di certo, a giudicarlo dalle vesti; poi raccolse la spada e la fiaschetta, pensando che potevano essere di maggior utilità ai vivi che ai morti.

Stava per ritornare verso Morgan, quando i suoi sguardi si fermarono su alcuni segni che parevano delle lettere incise sulla fiaschetta con qualche punta, forse quella della spada.

Guardandoli attentamente, riuscì, non senza fatica, a decifrarli.

La mano di quel povero uomo aveva scritto in lingua spagnola:

"Smarrito nella foresta, muoio di fame."

Vi era sotto un R poi un Yup...

La morte doveva averlo sorpreso prima che potesse scrivere completamente il suo cognome.

La fanciulla, assai impressionata per quella lugubre scoperta, tornò lentamente verso l’accampamento, dove trovò Morgan seduto, che stava fasciandosi nuovamente la ferita.

"Come state, signor Morgan?" gli chiese con premura.

"Molto meglio di ieri, signora" rispose il filibustiere.

"La ferita comincia già a rimarginarsi un po’; mi sento però sempre debolissimo.

Toh!... Dove avete trovata quella spada?"

Jolanda lo informò della lugubre scoperta.

"Avete fatto bene a raccogliere quell’arma e quella fiaschetta" disse Morgan. "Chi sarà quel disgraziato? Che vi sia qualche colonia o qualche borgata spagnola non lungi da qui? Amerei meglio che non ve ne fossero."

"Nessuno sa chi noi siamo. Potremmo inventare qualche istoria."

"Gli spagnoli sono più da temersi degl’indiani, signora. Oh!... Avete udito?"

Verso la laguna era echeggiato un fischio, seguíto poco dopo da un tonfo, che sollevò un alto sprazzo di spuma.

Jolanda si alzò vivamente.

"Armatevi, signora" disse Morgan.

"Prendo la vostra spada."

Ciò detto s’avanzò cautamente verso la laguna, aprendosi il passo attraverso i fusti di legno cannone che ingombravano la riva.