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2.4 L'uso del copyleft nell'editoria di testi scritti

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Autore, editore, pubblico

Il mondo dell’editoria è quello che gira intorno alla preparazione, edizione e divulgazione di testi scritti; comprende autore, editore, pubblico.
L’autore è colui che scrive il testo, e detiene i cosiddetti diritto morali dell’opera (il diritto d’autore, appunto, che è qualcosa di diverso dal copyright: per le definizioni vedere il capitolo Lessico). E’ sempre l’autore che decide o meno se divulgare i propri testi, in che modo e a quali condizioni, e su questo aspetto tutte le legislazioni si trovano d’accordo. Spetta a lui, inoltre, l’ultima parola su eventuali modifiche da apportare al testo.
Gli editori sono i “manager” degli autori: correggono, sistemano, abbelliscono, vestono graficamente, pubblicano, promuovono e distribuiscono il libro.
Infine viene il pubblico, senza il quale tutto questo mondo non potrebbe avere vita, perchè -nonostante le varie strategie di marketing che tendono a creare nuove tipologie di pubblico, prima inesistenti, al solo scopo di vendere qualcosa di nuovo- è il lettore che decide il successo o meno di un libro, ed è tra il pubblico che vari elementi della nostra società danno vita a quella cultura senza la quale la creazione in generale (e, nel caso specifico, la creazione di testi scritti) sarebbe impossibile.
Nonostante questa grande importanza, il ruolo del pubblico non viene assolutamente considerato dalla legislazione in questo campo.

La nascita dell’auto editoria: l’UPS

Nel capitolo sul free software troviamo che un programma è libero quando compie le quattro libertà fondamentali sancite da Richard Stallman (vedi capitolo Free Software).Per le altre opere dell’ingegno umano, una creazione è sotto regime copyleft quando la sua diffusione e la distribuzione non sono commerciali.

La storia del copyleft nell’editoria nasce nei movimenti di controcultura tra gli anni Settanta e Ottanta. In principio, si parla esplicitamente di anti-copyright, un’etichetta in netta contrapposizione con le restrittive leggi allora vigenti sul diritto d’autore.
Nasce il fenomeno dell’auto-aditoria, che però resta relegato ad una cultura underground e semisconosciuta, senza riuscire a diventare quello strumento di liberazione dalle case editrici e dalle restrizioni da esse imposte che voleva essere. In particolare, un caso di no copyright editoriale ben riuscito fu il progetto UPS (Underground Press Syndicate, ovvero Sindacato della Stampa Sotterranea). Viene fondato nel 1967 dai direttori delle cinque maggiori testate underground americane come associazione che tuteli gli autori dell’ambiente “sotterraneo”. Tutto il materiale delle riviste aderenti all’agenzia era assolutamente libero per qualsiasi altro membro, il quale aveva la libertà di utilizzarlo in tutto o del parte come voleva e senza chiedere il permesso. Nonostante il fenomeno si sia estinto da sè, più o meno insieme agli stessi movimenti giovanili dell’epoca, l’UPS ha lasciato un’enorme quantità di materiale letterario e fotografico che nei decenni successivi è stato liberamente riciclato e modificato proprio grazie a quel “no copyright”, al suo essere stato “donato” anzichè posto sotto copyright.

Oggi: Creative Commons

Oggi, l’applicazione del copyleft in editoria risolve molti problemi, perchè -tra le altre cose- non nega la legislazione già presente, ma la amplia; inoltre è flessibile e possiede una gamma di sfumature e gradi tale che ognuno può scegliere la licenza che più gli aggrada, a seconda dei diritti che vuole conservare e delle libertà che decide di permettere.
L’autore può anche creare una nuova licenza, se ne ha la possibilità e possedendo le conoscenze del caso; l’importante è che essa non sia contraddittoria e non vada contro la legge. Ovviamente, esistono già in circolazione diversi modelli di licenze, appositamente studiati e sperimentati, che l’autore può applicare ai propri scritti.

Creative Commons è un’associazione no-profit a disposizione di autori ed editori, che negli utlimi anni ha messo in circolazione una serie di licenze copyelft di vari gradi, chiamate appunto Creative Commons, che sono già state tradotte e adattate alle legislazioni di oltre 30 paesi differenti, e che continuano a svilupparsi e migliorarsi.
Per scegliere la licenza Creative Commons che più fa al suo caso, l’autore deve porsi tre domande:

  • voglio permettere l’uso commerciale dei miei scritti?
  • voglio permettere modifiche alla mia opera?
  • e, nel caso che voglia permettere queste modifiche, voglio anche che le opere derivate siano rilasciate sotto la stessa licenza dell’opera originale oppure no?

A seconda delle risposte che si darà, avrà una licenza copyleft già pronta che fa al caso suo.

Perchè cambiare?

A questo punto ci si pone, naturalmente, un’altra domanda: perchè affidare il proprio lavoro ad una licenza copyleft, se lo scopo di ogni autore è farsi conoscere il più possibile dal pubblico e vivere del proprio lavoro?
La risposta è presente già nei discorsi fatti nei capitoli precedenti (e successivi!).
Dobbiamo fare uno sforzo per cercare di uscire, per un momento, da quei modelli economici e sociali che già siamo abituati a conoscere, e immaginare che le cose possano andare diversamente.
Le licenze di tipo copyleft sono perfette per la circolazione dei saperi in Internet, dove non esistono barriere geografiche e tecnologiche.
Da diverse felici esperienze è facilmente intuibile che la circolazione gratuita di un libro non fa sì che le vendite dello stesso diminuiscano o cessino; al contrario, è dimostrabile che più un libro circola liberamente, più viene conosciuto e letto, più viene comprato (vedi capitolo La scrittura collettiva e la scrittura collettiva online).
Immaginiamo di trovare un libro sotto licenza copyleft interamente scaricabile da internet, in forma gratuita. Iniziamo a leggerlo e scopriamo che ci piace, ma che la lettura a monitor non ci permette di goderne a pieno. Allora decidiamo di stamparlo, ma ci rendiamo conto che tra il prezzo della stampa e la rilegatura, tanto vale comprarlo in libreria! Poi decidiamo di prestarlo ad un amico, il quale lo apprezza al punto che decide di acquistarne una nuova copia da regalare ad un terzo, e così via.
In fondo, chi ama leggere ama anche il libro in quanto oggetto da tenere tra le mani, da sfogliare, da toccare, da regalare, da tenere sul comodino, da portare con sè per poterlo leggere durante i viaggi, da apprezzare per la sua veste grafica e l’impaginazione.
Se una persona non ha 20-25 euro da spendere per un libro che vuole leggere, e questo libro ha una dicitura che permette la diffusione dell’opera intera senza animo di lucro, allora lo può anche fotocopiare o scansire con OCR o scaricare da Internet, perchè questa azione non presuppone per lui un ingresso economico, cioè non viene fatta a scopo di lucro, ma solo per poter leggere.
E’ proprio questo uno dei fini delle licenze copyleft: la libera circolazione dei saperi.
Perchè uno che ha 20 euro in tasca e può permettersi di comprare un libro appena uscito deve avere anche il diritto di ampliare le proprie conoscenze, mentre uno che quei 20 euro deve spenderli per mangiare una settimana deve rimanere un bifolco? Certi diritti sono diventati privilegi, e così che senso ha? Vogliamo tornare al Medioevo, vogliamo creare delle caste privilegiate, vogliamo fare del mondo un luogo dove “ricco” significa “sapiente”?
Se un autore è un buon autore, o comunque è apprezzato dal pubblico, verrà premiato, e proprio dal pubblico stesso.

Happy ends

Il romanzo “Q” di WuMing è scaricabile da internet gratuitamente, eppure è arrivato alla dodicesima edizione e ha superato le 200000 copie vendute già nel 2006 (vedi nota 2). E non si tratta di un caso unico, ovviamente.
Lo stesso discorso può essere fatto benissimo all’interno di altri contesti. Un esempio su tutti è il caso del film “Donnie Darko”. Quando uscì in America, nel 2001, il film fu un flop gigantesco: costato 4,5 milioni di dollari, ne incassò solo 500mila. Ma più tardi iniziò a circolare tra gli studenti inglesi, che se lo passavano -illegalmente- attraverso le reti P2P (vedi Lessico). Approdò in Europa, dove fu presentato a diversi festival e accolto benissimo da pubblico e critica. Visto il successo, fu infine distribuito anche sul mercato europeo nel 2004: la produzione chiuse finalmente in forte attivo e “Donnie Darko” è oggi riconosciuto tra i 100 film più belli della storia del cinema. Questo happy end è stato possibile solo attraverso una rete di scambio culturale: il file sharing. (vedi nota 3)

Il mercato editoriale non ha ancora visto retate di massa e processi alle nuove tecnologie come è già successo nell’industria discografica, e i motivi sono strettamente economici: la musica muove molto più denaro del libro, e gli interessi da difendere sono maggiori (così come più grandi e più potenti sono gli stessi soggetti che gestiscono tale industria). Dopotutto, viviamo nella società dell’immagine.

Un ostacolo alla possibile espansione del copyleft all’interno del mercato dell’editoria è la composizione stessa di tale mercato. Le normali condizioni poste da un editore sulla stampa di un libro sono generalmente quelle del copyright classico: è vietata la riproduzione parziale o totale dell’opera con qualsiasi mezzo, la copia, il trattamento informatico, il prestito e il noleggio. Si tratta di un mondo abbastanza conservatore, nel quale, se l’autore propone qualcosa di differente dalla classica clausola copyright, l’editore farà di tutto per fargli cambiare idea, in maniera da conservare tutti i diritti per sè (la maggior parte delle volte, la casa editrice con il contratto compra ogni diritto di sfruttamento dell’opera e ottiene così l’esclusiva). Solitamente, l’autore viene pagato con una percentuale in base al numero delle copie vendute. Può sembrare un sistema barbaro, ma bisogna sempre tenere conto dei forti investimenti che vanno affrontati per la pubblicazione di un libro.Per questo, anche se ci sono stati precedenti di grandi case editrici che hanno rilasciato l’opera di un proprio autore sotto una licenza copyleft, normalmente l’editore non vuole correre il minimo rischio, soprattutto con piccoli autori semisconosciuti che scrivono solo per vocazione e ancora non sono famosi al grande pubblico (che sono poi la maggior parte). Sono invece i piccoli editori i più inclini all’apertura verso il copyleft, forse perchè anch’essi, come i giovani autori, lavorano più per vocazione che per denaro.

Ci sono però due tipi di ingressi economici che, in ogni caso, sarebbero incompatibili anche con la forma più blanda di copyleft: gli ingressi generati dal canone sulle fotocopie e quelli derivanti dalle biblioteche.