Italia - 8 luglio 1910, Discorso contro i veneziani
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Veneziani! Quando gridammo: «Uccidiamo il chiaro di luna!» noi pensammo a te, vecchia Venezia fradicia di romanticismo! Ma ora la voce nostra si amplifica, e soggiungiamo ad alte note “Liberiamo il mondo dalla tirannia dell’amore! Siamo sazi di avventure erotiche, di lussuria, di sentimentalismo e di nostalgia!”. Perché dunque ostinarti Venezia, a offrirci donne velate ad ogni svolto crepuscolare dei tuoi canali? Basta! Basta!... Finiscila di sussurrare osceni inviti a tutti i passanti della terra o Venezia, vecchia ruffiana, che sotto la tua pesante mantiglia di mosaici, ancora ti accanisci ad apprestare estenuanti notti romantiche, querule serenate e paurose imboscate! Io pure amai, o Venezia, la sontuosa penombra del tuo Canal Grande, impregnata di lussurie rare, e il pallore febbrile delle tue belle, che scivolano giù dai balconi per scale intrecciate di lampi, di fili di pioggia e di raggi di luna, fra i tintinni di spade incrociate... Ma basta! Tutta questa roba assurda, abominevole e irritante ci dà la nausea! E vogliamo ormai che le lampade elettriche dalle mille punte di luce taglino e strappino brutalmente le tue tenebre misteriose, ammalianti e persuasive! Il tuo Canal Grande allargato e scavato, diventerà fatalmente un gran porto mercantile. Treni e tramvai lanciati per le grandi vie costruite sui canali finalmente colmati vi porteranno cataste di mercanzie, tra una folla sagace, ricca e affaccendata d’industriali e di commercianti!... Non urlate contro la pretesa bruttezza delle locomotive dei tramvai degli automobili e delle biciclette in cui noi troviamo le prime linee della grande estetica futurista. Potranno sempre servire a schiacciare qualche lurido e grottesco professore nordico dal cappelluccio tirolese. Ma voi volete prostrarvi a tutti i forestieri, e siete di una servilità ripugnante! Veneziani! Veneziani! Perché voler essere ancora sempre i fedeli schiavi del passato, i lerci custodi del più grande bordello della storia, gl’infermieri del più triste ospedale del mondo, ove languono anime mortalmente corrotte dalla luce del sentimentalismo?
Oh! le immagini non mi mancano, se voglio definire la vostra inerzia vanitosa e sciocca come quella di un figlio di grand’uomo o di un marito di cantante celebre! I vostri gondolieri, non potrei forse paragonarli a dei becchini intenti a scavare cadenzatamente delle fosse in un cimitero inondato?
Ma nulla può offendervi, poiché la vostra umiltà è smisurata.
Si sa, d’altronde, che voi avete la saggia preoccupazione di arricchire la Società dei Grandi Alberghi, e che appunto per questa vi ostinate ad imputridire senza muovervi!
Eppure, voi foste un tempo invincibili guerrieri e artisti geniali, navigatori audaci, ingegnosi industriali e commercianti instancabili... E siete divenuti camerieri d’albergo, ciceroni, lenoni, antiquari, frodatori, fabbricanti di vecchi quadri, pittori plagiari e copisti. Avete dunque dimenticato di essere anzitutto degl’Italiani, e che questa parola, nella lingua della storia, vuol dire: costruttori dell’avvenire?
Oh! non vi difendete coll’accusar gli effetti avvilenti dello scirocco! Era ben questo vento torrido e bellicoso, che gonfiava le vele degli eroi di Lepanto! Questo stesso vento africano accelererà ad un tratto, in un meriggio infernale, la sorda opera delle acque corrosive che minano la vostra città venerabile.
Oh! come balleremo, quel giorno! Oh! come plaudiremo alle lagune, per incitarle alla distruzione! E che immenso ballo tondo danzeremo in giro all’illustre ruina! Saremo tutti pazzamente allegri, noi, gli ultimi studenti ribelli di questo mondo troppo saggio!
Così, o Veneziani, noi cantammo, danzammo e ridemmo davanti all’agonia dell’isola di File, che morì come un sorcio decrepito dietro la diga d’Assuan, immensa trappola dalle botole elettriche, nella quale il genio futurista dell’Inghilterra imprigiona le fuggenti acque sacre del Nilo!
Alzate pure le spalle, e gridatemi che sono un barbaro, incapace di gustare la divina poesia che ondeggia sulle vostre isole incantatrici!
Via! non avete motivo di esserne molto orgogliosi!...
Liberate Torcello, Burano, l’Isola dei Morti, da tutta la letteratura ammalata e da tutta l’immensa fantasticheria romantica di cui le hanno velate i poeti avvelenati dalla febbre di Venezia, e potrete, ridendo con me, considerare quelle isole come mucchi di sterco che i mammouth lasciarono cadere qua e là nell’attraversare a guado le vostre preistoriche lagune!
Ma voi le contemplate stupidamente, felici di marcire nella vostra acqua sporca, per arricchire senza fine la Società dei Grandi Alberghi, che prepara con cura le notti eleganti di tutti i grandi sulla terra!
Certo, non è cosa da poco, l’eccitarli all’amore. Sia pure vostro ospite un Imperatore, bisogna che egli navighi lungamente nel sudiciume di questo immenso acquaio pieno di cocci istoriati, bisogna che i suoi gondolieri zappino coi remi parecchi chilometri di escrementi liquefatti, in un divino odor di latrina passando accanto a barche ricolme di belle immondizie, tra equivoci cartocci galleggianti, per poter giungere da vero Imperatore alla sua mèta, contento di sé e del suo scettro imperiale!
Ecco, ecco quale fu la vostra gloria fino ad oggi, o Veneziani!
Vergognatevene! Vergognatevene! e gettatevi supini gli uni sugli altri, come sacchi pieni di sabbia per formare il bastione, sul confine, mentre noi prepareremo una grande e forte Venezia industriale, commerciale e militare sull’Adriatico, gran lago italiano!
Note
Il discorso fu pronunciato l’8 luglio 1910 al Teatro La Fenice di Venezia.