Istorie fiorentine/Libro terzo/Capitolo 5

Libro terzo

Capitolo 5

../Capitolo 4 ../Capitolo 6 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

Libro terzo - Capitolo 4 Libro terzo - Capitolo 6

Onde che molti cittadini, mossi dallo amore della patria, in San Piero Scheraggio si ragunorono, e ragionato infra loro assai di questi disordini, ai Signori ne andorono, ai quali uno di loro, di più autorità, parlò in questa sentenza: - Dubitavamo molti di noi, magnifici Signori, di essere insieme, ancora che per cagione publica, per ordine privato; giudicando potere, o come prosuntuosi essere notati, o come ambiziosi condannati; ma considerato poi che ogni giorno, e senza alcuno riguardo, molti cittadini per le logge e per le case, non per alcuna publica utilità, ma per loro propria ambizione convengano, giudicammo, poi che quegli che per la rovina della republica si ristringono non temano, che non avessino ancora da temere quelli che per bene e utilità publica si ragunano; né quello che altri si giudichi di noi ci curiamo, poi che gli altri quello che noi possiamo giudicare di loro non stimano. Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra ci ha fatti prima ristrignere e ora ci fa venire a voi per ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad aiutarvi spegnerlo. Il che vi potrebbe, ancora che la impresa paia difficile, riuscire, quando voi vogliate lasciare indietro i privati rispetti e usare con le publiche forze la vostra autorità. La comune corruzione di tutte le città di Italia, magnifici Signori, ha corrotta e tuttavia corrompe la vostra città; perché, da poi che questa provincia si trasse di sotto alle forze dello Imperio, le città di quella, non avendo un freno potente che le correggessi, hanno, non come libere, ma come divise in sette, gli stati e governi loro ordinati. Da questo sono nati tutti gli altri mali, tutti gli altri disordini che in esse appariscono. In prima non si truova intra i loro cittadini né unione né amicizia, se non intra quelli che sono di qualche sceleratezza, o contro alla patria o contro ai privati commessa, consapevoli. E perché in tutti la religione e il timore di Dio è spento, il giuramento e la fede data tanto basta quanto l’utile: di che gli uomini si vagliano, non per osservarlo, ma perché sia mezzo a potere più facilmente ingannare; e quanto lo inganno riesce più facile e securo, tanta più gloria e loda se ne acquista: per questo gli uomini nocivi sono come industriosi lodati e i buoni come sciocchi biasimati. E veramente in nelle città di Italia tutto quello che può essere corrotto e che può corrompere altri si raccozza: i giovani sono oziosi, i vecchi lascivi, e ogni sesso e ogni età è piena di brutti costumi; a che le leggi buone, per essere da le cattive usanze guaste, non rimediano. Di qui nasce quella avarizia che si vede ne’ cittadini, e quello appetito, non di vera gloria, ma di vituperosi onori, dal quale dependono gli odi, le nimicizie, i dispareri, le sette; dalle quali nasce morti, esili, afflizioni de’ buoni, esaltazioni de’ tristi. Perché i buoni, confidatisi nella innocenzia loro, non cercono, come i cattivi, di chi estraordinariamente gli difenda e onori, tanto che indefesi e inonorati rovinano. Da questo esemplo nasce lo amore delle parti e la potenza di quelle; perché i cattivi per avarizia e per ambizione, i buoni per necessità le seguano. E quello che è più pernizioso è vedere come i motori e principi di esse la intenzione e fine loro con un piatoso vocabolo adonestano, perché sempre, ancora che tutti sieno alla libertà nimici, quella, o sotto colore di stato di ottimati o di popolare defendendo, opprimano. Perché il premio il quale della vittoria desiderano è, non la gloria dello avere liberata la città, ma la sodisfazione di avere superati gli altri e il principato di quella usurpato; dove condotti, non è cosa sì ingiusta, sì crudele o avara, che fare non ardischino. Di qui gli ordini e le leggi, non per publica, ma per propria utilità si fanno; di qui le guerre, le paci, le amicizie, non per gloria comune, ma per sodisfazione di pochi si deliberano. E se le altre città sono di questi disordini ripiene, la nostra ne è più che alcuna altra macchiata; perché le leggi, gli statuti, gli ordini civili, non secondo il vivere libero, ma secondo la ambizione di quella parte che è rimasa superiore, si sono in quella sempre ordinati e ordinano. Onde nasce che sempre, cacciata una parte e spenta una divisione, ne surge un’altra; perché quella città che con le sette più che con le leggi si vuol mantenere, come una setta è rimasa in essa sanza opposizione, di necessità conviene che infra se medesima si divida; perché da quelli modi privati non si può difendere i quali essa per sua salute prima aveva ordinati. E che questo sia vero le antiche e moderne divisioni della nostra città lo dimostrano. Ciascuno credeva, destrutti che furono i Ghibellini, i Guelfi di poi lungamente felici e onorati vivessero; non di meno, dopo poco tempo, in Bianchi e in Neri si divisono. Vinti di poi i Bianchi, non mai stette la città sanza parti: ora per favorire i fuori usciti, ora per le nimicizie del popolo e de’ Grandi, sempre combattemmo; e per dare ad altri quello che d’accordo per noi medesimi possedere o non volavamo o non potavamo, ora al re Ruberto, ora al fratello, ora al figliuolo, e in ultimo al Duca di Atene, la nostra libertà sottomettemmo. Non di meno in alcuno stato mai non ci riposammo, come quelli che non siamo mai stati d’accordo a vivere liberi e di essere servi non ci contentiamo. Né dubitammo (tanto sono i nostri ordini disposti alle divisioni), vivendo ancora sotto la ubbidienza del Re, la maestà sua ad un vilissimo uomo nato in Agobio posporre. Del Duca di Atene non si debbe, per onore di questa città, ricordare; il cui acerbo e tirannico animo ci doveva fare savi e insegnare vivere: non di meno, come prima e’ fu cacciato, noi avemmo le armi in mano, e con più odio e maggiore rabbia che mai alcuna altra volta insieme combattuto avessimo, combattemmo; tanto che l’antica nobilità nostra rimase vinta e nello arbitrio del popolo si rimisse. Né si credette per molti che mai alcuna cagione di scandolo o di parte nascesse più in Firenze sendo posto freno a quelli che per la loro superbia e insopportabile ambizione pareva che ne fussero cagione; ma e’ si vede ora per esperienza quanto la opinione degli uomini è fallace e il giudizio falso; perché la superbia e ambizione de’ Grandi non si spense, ma da’ nostri popolani fu loro tolta i quali ora, secondo l’uso degli uomini ambiziosi, di ottenere il primo grado nella republica cercano; né avendo altri modi ad occuparlo che le discordie, hanno di nuovo divisa la città, e il nome guelfo e ghibellino, che era spento, e che era bene non fusse mai stato in questa republica, risuscitano. Egli è dato di sopra, acciò che nelle cose umane non sia nulla o perpetuo o quieto, che in tutte le republiche sieno famiglie fatali, le quali naschino per la rovina di quelle. Di queste la republica nostra, più che alcuna altra, è stata copiosa, perché non una, ma molte, l’hanno perturbata e afflitta, come feciono i Buondelmonti prima e Uberti, di poi i Donati e i Cerchi; e ora, oh cosa vergognosa e ridicula! i Ricci e gli Albizzi la perturbono e dividono. Noi non vi abbiamo ricordati i costumi corrotti e le antiche e continue divisioni nostre per sbigottirvi, ma per ricordarvi le cagioni di esse e dimostrarvi che, come voi ve ne potete ricordare, noi ce ne ricordiamo e per dirvi che lo esemplo di quelle non vi debbe fare diffidare di potere frenare queste. Perché in quelle famiglie antiche era tanta grande la potenza, e tanti grandi i favori che le avevano dai principi, che gli ordini e modi civili a frenarle non bastavano; ma ora che lo Imperio non ci ha forze, il papa non si teme, e che la Italia tutta e questa città è condotta in tanta ugualità che per lei medesima si può reggere, non ci è molta difficultà. E questa nostra republica massimamente si può, non ostante gli antichi esempli che ci sono in contrario, non solamente mantenere unita, ma di buoni costumi e civili modi riformare, pure che Vostre Signorie si disponghino a volerlo fare. A che noi, mossi dalla carità della patria, non da alcuna privata passione, vi confortiamo. E benché la corruzione di essa sia grande, spegnete per ora quel male che ci ammorba, quella rabbia che ci consuma, quel veleno che ci uccide; e imputate i disordini antichi, non alla natura degli uomini, ma ad i tempi; i quali sendo variati, potete sperare alla vostra città, mediante i migliori ordini, migliore fortuna. La malignità della quale si può con la prudenza vincere, ponendo freno alla ambizione di costoro, e annullando quelli ordini che sono delle sette nutritori, e prendendo quelli che al vero vivere libero e civile sono conformi. E siate contenti più tosto farlo ora con la benignità delle leggi, che, differendo, con il favore delle armi gli uomini sieno a farlo necessitati.