Fermato così lo stato, dopo sei anni, che fu nel 1381 ordinato, visse la città dentro insino al ’93 assai quieta. Nel qual tempo Giovan Galeazzo Visconti, chiamato Conte di Virtù, prese messer Bernabò suo zio, e per ciò diventò di tutta Lombardia principe. Costui credette potere divenire re di Italia con la forza, come gli era diventato duca di Milano con lo inganno; e mosse, nel ’90, una guerra grandissima a’ Fiorentini; e in modo variò quella nel maneggiarsi, che molte volte fu il Duca più presso al pericolo di perdere, che i Fiorentini, i quali, se non moriva, avevono perduto. Non di meno le difese furono animose e mirabili ad una republica, e il fine fu assai meno malvagio che non era stata la guerra spaventevole; perché, quando il Duca aveva preso Bologna, Pisa, Perugia e Siena, e che gli aveva preparata la corona per coronarsi in Firenze re di Italia, morì: la qual morte non gli lasciò gustare le sue passate vittorie, e a’ Fiorentini non lasciò sentire le loro presenti perdite. Mentre che questa guerra con il Duca si travagliava, fu fatto gonfalonieri di giustizia messer Maso degli Albizzi, il quale la morte di Piero aveva fatto nimico agli Alberti. E perché tuttavolta vegghiavano gli umori delle parti, pensò messer Maso, ancora che messer Benedetto fusse morto in esilio, avanti che deponesse il magistrato, con il rimanente di quella famiglia vendicarsi. E prese la occasione da uno che sopra certe pratiche tenute con i rebelli fu esaminato, il quale Alberto e Andrea degli Alberti nominò. Furono costoro subito presi, donde tutta la città se ne alterò, tale che i Signori, provedutisi d’arme, il popolo a parlamento chiamorono, e feciono uomini di balia, per virtù della quale assai cittadini confinorono e nuove imborsazioni d’uffizi ferono. Intra i confinati furono quasi che tutti gli Alberti; furono ancora di molti artefici ammuniti e morti, onde che, per le tante ingiurie, le Arti e popolo minuto si levò in arme, parendogli che fusse tolto loro l’onore e la vita. Una parte di costoro vennero in Piazza un’altra corse a casa messer Veri de’ Medici, il quale, dopo la morte di messer Salvestro, era di quella famiglia rimasto capo. A quelli che vennero in Piazza i Signori, per addormentargli, dierono per capi, con le insegne di parte guelfa e del popolo in mano, messer Rinaldo Gianfigliazzi e messer Donato Acciaiuoli, come uomini, de’ popolani, più alla plebe che alcuni altri accetti. Quelli che corsono a casa messer Veri lo pregavano che fusse contento prendere lo stato e liberargli dalla tirannide di quelli cittadini che erano de’ buoni e del bene comune destruttori. Accordansi tutti quelli che di questi tempi hanno lasciata alcuna memoria che, se messer Veri fusse stato più ambizioso che buono, poteva sanza alcuno impedimento farsi principe della città; perché le gravi ingiurie che, a ragione e a torto, erano alle Arti e agli amici di quelle state fatte avevano in maniera accesi gli animi alla vendetta, che non mancava, a sodisfare ai loro appetiti, altro che un capo che gli conducesse. Né mancò chi ricordasse a messer Veri quello che poteva fare, perché Antonio de’ Medici, il quale aveva tenuto seco più tempo particulare inimicizia, lo persuadeva a pigliare il dominio della republica. Al quale messer Veri disse: - Le tue minacce, quando tu mi eri inimico, non mi feciono mai paura, né ora che tu mi sei amico mi faranno male i tuoi consigli; - e rivoltosi alla moltitudine, gli confortò a fare buono animo, per ciò che voleva essere loro defensore, purché si lasciassero da lui consigliare. E andatone in mezzo di loro, in Piazza, e di quivi salito in Palagio, davanti a’ Signori, disse non si poter dolere in alcun modo di essere vivuto in maniera che il popolo di Firenze lo amasse, ma che gli doleva bene che avesse di lui fatto quello giudizio che la sua passata vita non meritava; per ciò che, non avendo mai dati di sé esempli di scandoloso o di ambizioso, non sapeva donde si fusse nato che si credesse che fusse mantenitore degli scandoli come inquieto, o occupatore dello stato come ambizioso. Pregava per tanto loro Signorie che la ignoranzia della moltitudine non fusse a suo peccato imputata, perché, quanto apparteneva a lui, come prima aveva potuto si era rimesso nelle forze loro. Ricordava bene fussero contenti usare la fortuna modestamente, e che bastasse loro più tosto godersi una mezzana vittoria con salute della città, che, per volerla intera, rovinare quella. Fu messer Veri lodato da’ Signori, e confortato a fare posare le armi; e che di poi non mancherebbono di fare quello che fussero da lui e dagli altri cittadini consigliati. Tornossi, dopo queste parole, messer Veri in Piazza, e le sue brigate con quelle che da messer Rinaldo e messer Donato erano guidate congiunse. Di poi disse a tutti avere trovato ne’ Signori una ottima volontà verso di loro, e che molte cose s’erano parlate, ma, per il tempo breve e per la assenzia de’ magistrati, non si erano concluse. Per tanto gli pregava posassero le armi e ubbidissero ai Signori, facendo loro fede che la umanità più che la superbia, i prieghi più che le minacce erano per muovergli, e come e’ non mancherebbe loro grado e securtà, se e’ si lasciavano governare da lui: tanto che, sotto la sua fede, ciascuno alle sue case fece ritornare.