Istorie fiorentine/Libro terzo/Capitolo 23

Libro terzo

Capitolo 23

../Capitolo 22 ../Capitolo 24 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

Libro terzo - Capitolo 22 Libro terzo - Capitolo 24

Fecesi di quello acquisto, in Firenze, allegrezza solenne, quanta mai in alcuna città per alcuna propria vittoria si facesse: dove la publica e la privata magnificenza si cognobbe, per ciò che molte famiglie a gara con il pubblico festeggiorono. Ma quella che di pompa e di magnificenza superò le altre fu la famiglia degli Alberti, perché gli apparati, l’armeggerie che da quella furono fatte furono non d’una gente privata, ma di qualunque principe degni. Le quali cose accrebbono a quella assai invidia, la quale, aggiunta al sospetto che lo stato aveva di messer Benedetto, fu cagione della sua rovina; per ciò che quelli che governavano non potevono di lui contentarsi, parendo loro che ad ogni ora potesse nascere che, con il favore della Parte, egli ripigliasse la reputazione sua e gli cacciasse della città. E stando in questa dubitazione, occorse che, sendo egli gonfalonieri delle Compagnie, fu tratto gonfaloniere di giustizia messer Filippo Magalotti suo genero: la qual cosa raddoppiò il timore a’ principi dello stato, pensando che a messer Benedetto si aggiugnevono troppe forze e allo stato troppo pericolo. E desiderando sanza tumulto rimediarvi, dettono animo a Bese Magalotti, suo consorte e nimico, che significasse a’ Signori che messer Filippo, mancando del tempo che si richiedeva ad esercitare quel grado, non poteva né doveva ottenerlo. Fu la causa intra i Signori esaminata; e parte di loro per odio, parte per levare scandolo, giudicorono messer Filippo a quella degnità inabile. E fu tratto in suo luogo Bardo Mancini, uomo al tutto alla fazione plebea contrario e a messer Benedetto nimicissimo; tanto che, preso il magistrato, creò una balia, la quale, nel ripigliare e riformare lo stato, confinò messer Benedetto Alberti e il restante della famiglia ammunì, eccetto che messer Antonio. Chiamò messer Benedetto, avanti al suo partire, tutti i suoi consorti, e veggendogli mesti e pieni di lacrime, disse loro: - Voi vedete, padri e maggiori miei, come la fortuna ha rovinato me e minacciato voi di che né io mi maraviglio, né voi vi dovete maravigliare, perché sempre così avvenne a coloro i quali intra molti cattivi vogliono essere buoni, e che vogliono sostenere quello che i più cercono di rovinare. Lo amore della mia patria mi fece accostare a messer Salvestro de’ Medici e di poi da messer Giorgio Scali discostare; quello medesimo mi faceva i costumi di questi che ora governono odiare; i quali, come ei non avevono chi gli gastigasse non hanno ancora voluto chi gli riprenda. E io sono contento, con il mio esilio, liberargli da quello timore che loro avevono, non di me solamente, ma di qualunque sanno che conosce i tirannici e scelerati modi loro; e per ciò hanno, con le battiture mie, minacciato gli altri. Di me non mi incresce, perché quelli onori che la patria libera mi ha dati la serva non mi può torre; e sempre mi darà maggiore piacere la memoria della passata vita mia, che non mi darà dispiacere quella infelicità che si tirerà drieto il mio esilio. Duolmi bene che la mia patria rimanga in preda di pochi, e alla loro superbia e avarizia sottoposta; duolmi di voi, perché io dubito che quelli mali che finiscono oggi in me e cominciono in voi, con maggiori danni che non hanno perseguitato me non vi perseguino. Confortovi adunque a fermare l’animo contro ad ogni infortunio, e portarvi in modo che, se cosa alcuna avversa vi avviene, che ve ne avverranno molte, ciascuno cognosca, innocentemente e sanza vostra colpa esservi avvenute -. Di poi, per non dare di sé minore opinione di bontà fuora, che si avesse data in Firenze, se ne andò al Sepulcro di Cristo, dal quale tornando morì a Rodi. Le ossa del quale furono condotte in Firenze, e da coloro con grandissimo onore sepulte, che, vive, con ogni calunnia e ingiuria avevono perseguitate.