Istorie fiorentine/Libro terzo/Capitolo 20

Libro terzo

Capitolo 20

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Questo sospetto adunque, crescendo, faceva crescere le ingiurie; le quali non lo spegnevano, ma accrescevano; in modo che per la maggiore parte degli uomini si viveva in malissima contentezza. A che la insolenzia di messer Giorgio Scali e di messer Tommaso Strozzi si aggiugneva; i quali con la autorità loro quella de’ magistrati superavano, temendo ciascuno di non essere da loro, con il favore della plebe, oppresso. E non solamente a’ buoni, ma ai sediziosi pareva quel governo tirannico e violento. Ma perché la insolenzia di messer Giorgio qualche volta doveva avere fine, occorse che da uno suo familiare fu Giovanni di Cambio, per avere contro allo stato tenute pratiche, accusato; il quale da il Capitano fu trovato innocente; tale che il giudice voleva punire lo accusatore di quella pena che sarebbe stato punito il reo se si trovava colpevole; e non potendo messer Giorgio con prieghi né con alcuna sua autorità salvarlo, andò egli e messer Tommaso Strozzi, con moltitudine di armati, e per forza lo liberorono, e il palagio del Capitano saccheggiorono, e quello volendo salvarsi, a nascondersi constrinsono. Il quale atto riempié la città di tanto odio contro a di lui, che i suoi nimici pensorono di poterlo spegnere e di trarre la città, non solamente delle sue mani, ma di quelle della plebe, la quale tre anni, per la arroganza sua, l’aveva soggiogata. Di che dette ancora il Capitano grande occasione: il quale, cessato il tumulto, se ne andò a’ Signori, e disse come era venuto volentieri a quello ufizio al quale loro Signorie lo avevano eletto, perché pensava avere a servire uomini giusti e che pigliassero l’armi per favorire, non per impedire, la giustizia; ma poi che gli aveva veduti e provati i governi della città e il modo del vivere suo, quella dignità che volentieri aveva presa per acquistare utile e onore, volentieri la rendeva loro per fuggire pericolo e danno. Fu il Capitano confortato dai Signori, e messogli animo, promettendogli de’ danni passati ristoro e per lo avvenire sicurtà; e ristrettisi parte di loro con alcuni cittadini, di quelli che giudicavano amatori del bene commune e meno sospetti allo stato, conclusono che fusse venuta grande occasione a trarre la città della potestà di messer Giorgio e della plebe, sendo lo universale per questa ultima insolenzia alienatosi da lui. Per ciò pareva loro da usarla prima che gli animi sdegnati si riconciliassero, perché sapevono che la grazia dello universale per ogni piccolo accidente si guadagna e perde; e giudicorono che, a volere condurre la cosa, fusse necessario tirare alle voglie loro messer Benedetto Alberti, sanza il consenso del quale la impresa pericolosa giudicavono. Era messer Benedetto uomo ricchissimo, umano, severo, amatore della libertà della patria sua, e a cui dispiacevono assai i modi tirannici: tale che fu facile il quietarlo e farlo alla rovina di messer Giorgio conscendere. Perché la cagione che a’ popolani nobili e alla setta dei Guelfi lo avevano fatto nimico e amico alla plebe era stata la insolenza di quelli e i modi tirannici loro, donde, veduto poi che i capi della plebe erano diventati simili a quelli, più tempo innanzi s’era discostato da loro, e le ingiurie le quali a molti cittadini erano state fatte al tutto fuora del consenso suo erano seguite: tale che quelle cagioni che gli feciono pigliare le parti della plebe, quelle medesime gliene feciono lasciare. Tirato adunque messer Benedetto e i capi delle Arti alla loro volontà, e provedutosi di armi, fu preso messer Giorgio, e messer Tommaso fuggì. E l’altro giorno poi fu messer Giorgio con tanto terrore della parte sua decapitato, che niuno si mosse, anzi ciascuno a gara alla sua rovina concorse. Onde che, vedendosi quello venire a morte davanti a quel popolo che poco tempo innanzi lo aveva adorato, si dolfe della malvagia sorte sua e della malignità de’ cittadini, i quali, per averlo ingiuriato a torto, lo avessero a favorire e onorare una moltitudine constretto, dove non fusse né fede né gratitudine alcuna. E ricognoscendo intra gli armati messer Benedetto Alberti, gli disse: - E tu, messer Benedetto, consenti che a me sia fatta quella ingiuria che, se io fussi costì non permetterei mai che la fusse fatta a te? Ma io ti annunzio che questo dì è fine del male mio e principio del tuo -. Dolfesi di poi di se stesso, avendo confidato troppo in uno popolo il quale ogni voce, ogni atto, ogni sospizione muove e corrompe. E con queste doglienze morì, in mezzo ai suoi nimici armati e della sua morte allegri. Furono morti, dopo quello, alcuni de’ suoi più stretti amici, e dal popolo strascinati.