Istorie fiorentine/Libro settimo/Capitolo 20

Libro settimo

Capitolo 20

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Queste ultime parole tutto quel Senato commossono; e deliberorono che Bartolomeo Colione, loro capitano, assalisse il dominio fiorentino. E quanto si potette prima fu insieme lo esercito; con il quale si accostò Ercule da Esti, mandato da Borso marchese di Ferrara. Costoro, nel primo assalto, non sendo ancora i Fiorentini ad ordine, arsono il borgo di Dovadola e feciono alcuni danni nel paese allo intorno. Ma i Fiorentini, cacciata che fu la parte nimica a Piero, avieno con Galeazzo duca di Milano e con il re Ferrando fatta nuova lega, e per loro capitano condotto Federigo conte di Urbino, in modo che trovandosi ad ordine con gli amici, stimorono meno i nimici; perché Ferrando mandò Alfonso suo primogenito, e Galeazzo venne in persona, e ciascheduno con conveniente forze; e feciono tutti testa a Castracaro, castello de’ Fiorentini posto nelle radici delle alpi che scendono dalla Toscana in Romagna. I nimici, in quel mezzo, si erano ritirati verso Imola; e così fra l’uno e l’altro esercito seguivano, secondo i costumi di que’ tempi, alcune leggieri zuffe; né per l’uno né per l’altro si assalì o campeggiò terre, né si dette copia al nimico di venire a giornata; ma standosi ciascuno nelle sue tende, ciascuno con maravigliosa viltà si governava. Questa cosa dispiaceva a Firenze; perché si vedeva essere oppressa da una guerra nella quale si spendeva assai e si poteva sperare poco; e i magistrati se ne dolfono con quelli cittadini ch’eglino avieno a quella impresa deputati commissari. I quali risposono essere di tutto il duca Galeazzo cagione, il quale, per avere assai autorità e poca esperienza, non sapeva prendere partiti utili, né prestava fede a quelli che sapevono; e come gli era impossibile, mentre quello nello esercito dimorava, che si potesse alcuna cosa virtuosa o utile operare. Feciono i Fiorentini per tanto intendere a quel Duca come gli era loro commodo e utile assai che personalmente e’ fussi venuto agli aiuti loro, perché sola tale reputazione era atta a potere sbigottire i nimici, non di meno stimavano molto più la salute sua e del suo stato che i commodi propri, perché, salvo quello, ogni altra cosa speravano prospera, ma patendo quello, temevono ogni avversità. Non giudicavano per tanto cosa molto secura che egli molto tempo dimorasse assente da Milano, sendo nuovo nello stato, e avendo i vicini potenti e sospetti, talmente che chi volesse macchinare cosa alcuna controgli, potrebbe facilmente. Donde che lo confortavano a tornarsene nel suo stato e lasciare parte delle genti per la difesa loro. Piacque a Galeazzo questo consiglio e sanza altro pensare se ne tornò a Milano. Rimasi adunque i capitani de’ Fiorentini sanza questo impedimento, per dimostrare che fusse vera la cagione che del lento loro procedere avevano accusata, si strinsono più al nimico, in modo che vennono ad una ordinata zuffa, la quale durò mezzo un giorno, sanza che niuna delle parti inclinasse. Nondimeno non vi morì alcuno: solo vi furno alcuni cavagli feriti, e certi prigioni da ogni parte presi. Era già venuto il verno e il tempo che gli eserciti erano consueti ridursi alle stanze, per tanto messer Bartolomeo si ritirò verso Ravenna, le genti fiorentine in Toscana; quelle del Re e del Duca ciascuna negli stati de’ loro signori si ridussono. Ma da poi che per questo assalto non si era sentito alcuno moto in Firenze, secondo che i rebelli fiorentini avieno promesso, e mancando il soldo alle genti condotte, si trattò l’accordo, e dopo non molte pratiche fu concluso. Per tanto i rebelli fiorentini, privi d’ogni speranza, in varii luoghi si partirono: messer Dietisalvi si ridusse a Ferrara, dove fu dal marchese Borso ricevuto e nutrito; Niccolò Soderini se ne andò a Ravenna, dove con una piccola provisione avuta da’ Viniziani invecchiò e morì. Fu costui tenuto uomo giusto e animoso, ma nel risolversi dubio e lento, il che fece che, gonfaloniere di giustizia, ei perdé quella occasione del vincere che di poi, privato, volle racquistare e non potette.