Istorie fiorentine/Libro settimo/Capitolo 12

Libro settimo

Capitolo 12

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Ribollendo adunque questi umori per la città, parve ad alcuno di quelli a’ quali le civili discordie dispiacevano che si vedesse se con qualche nuova allegrezza si potessero fermare, perché il più delle volte i popoli oziosi sono strumento a chi vuole alterare. Per torre via adunque questo ozio, e dare che pensare agli uomini qualche cosa, che levassero il pensiero dello stato, sendo già passato l’anno che Cosimo era morto, presono occasione da che fusse bene rallegrare la città, e ordinorono due feste secondo l’altre che in quella città si fanno, solennissime: una che rappresentava quando i tre Re vennono di Oriente dietro alla stella che dimostrava la natività di Cristo; la quale era di tanta pompa e sì magnifica, che in ordinarla e farla teneva più mesi occupata tutta la città, l’altra fu uno torniamento (che così chiamano uno spettaculo che rappresenta una zuffa di uomini a cavallo) dove i primi giovani della città si esercitorono insieme con i più nominati cavalieri di Italia. E intra i giovani fiorentini il più reputato fu Lorenzo, primogenito di Piero, il quale, non per grazia, ma per proprio suo valore ne riportò il primo onore. Celebrati questi spettaculi, ritornorono ne’ cittadini i medesimi pensieri, e ciascuno con più studio che mai la sua opinione seguitava: di che dispareri e travagli grandi ne risultavano; i quali da duoi accidenti furono grandemente accresciuti: l’uno fu che l’autorità della balia mancò, l’altro la morte di Francesco duca di Milano. Donde che Galeazzo, nuovo duca, mandò a Firenze ambasciadori per confermare i capitoli che Francesco suo padre aveva con la città; in ne’ quali, tra le altre cose, si disponeva che qualunque anno si pagasse a quel duca certa somma di danari. Presono per tanto i principi contrari a’ Medici occasione da questa domanda, e publicamente, ne’ Consigli, a questa deliberazione si opposono, mostrando non con Galeazzo, ma con Francesco essere fatta l’amiciza, sì che, morto Francesco, era morto l’obligo; né ci era cagione di risuscitarlo, perché in Galeazzo non era quella virtù che era in Francesco, e per consequente non se ne doveva né poteva sperare quello utile; e se da Francesco si era avuto poco, da questo si arebbe meno; e se alcuno cittadino lo volesse soldare per la potenza sua, era cosa contro al vivere civile e alla libertà della città. Piero, allo incontro, mostrava che e’ non era bene una amicizia tanto necessaria per avarizia perderla, e che niuna cosa era tanto salutifera alla republica e a tutta Italia, quanto essere collegati con il duca, acciò che i Viniziani, veggendo loro uniti, non sperino, o per finta amicizia o per aperta guerra, opprimere quel ducato; perché non prima sentiranno i Fiorentini essere da quel duca alienati, ch’eglino aranno l’armi in mano contro di lui, e trovandolo giovane, nuovo nello stato e sanza amici, facilmente se lo potranno, o con inganno o con forza, guadagnare; e nell’uno e nell’altro caso vi si vedeva la rovina della republica.