Istorie fiorentine/Libro sesto/Capitolo 24

Libro sesto

Capitolo 24

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Erano questi ambasciadori a Reggio, quando eglino intesono il Conte essere diventato signore di Milano. Perché il Conte, passato il tempo della tregua, si ristrinse con le sue genti a quella città, sperando in brieve, a dispetto de’ Viniziani, occuparla; perché quelli non la potevano soccorrere se non dalla parte dell’Adda, il quale passo facilmente poteva chiudere; e non temeva, per essere la vernata, che i Viniziani gli campeggiassino apresso; e sperava, prima che il verno passasse, avere la vittoria, massimamente sendo morto Francesco Piccinino, e restato solo Iacopo suo fratello capo de’ Milanesi. Avevano i Viniziani mandato uno loro oratore a Milano, a confortare quelli cittadini, che fussino pronti a difendersi, promettendo loro grande e presto soccorso. Seguirono adunque, durante il verno, intra i Viniziani e il Conte, alcune leggieri zuffe; ma fattosi il tempo più benigno, i Viniziani, sotto Pandolfo Malatesti, si fermorono con il loro esercito sopra l’Adda. Dove, consigliatisi se dovevono, per soccorrere Milano, assalire il Conte e tentare la fortuna della zuffa, Pandolfo loro capitano giudicò che e’ non fusse da farne questa esperienza, conoscendo la virtù del Conte e del suo esercito. E credeva che si potesse, sanza combattere, vincere al sicuro, perché il Conte da il disagio delli strami e del frumento era cacciato. Consigliò per tanto che si conservasse quello alloggiamento, per dare speranza a’ Milanesi di soccorso, acciò che, disperati, non si dessino al Conte. Questo partito fu approvato da’ Viniziani, sì per giudicarlo sicuro, sì ancora perché avevono speranza che, tenendo i Milanesi in quella necessità, sarebbono forzati rimettersi sotto il loro imperio; persuadendosi che mai non fussino per darsi al Conte, considerate le ingiurie avieno ricevute da lui. Intanto i Milanesi erano condotti quasi che in estrema miseria; e abbondando quella città naturalmente di poveri, si morivano per le strade di fame; donde ne nascevano romori e pianti in diversi luoghi della città; di che i magistrati temevano forte, e facevano ogni diligenzia perché genti non si adunassero insieme. Indugia assai la moltitudine tutta a disporsi al male; ma quando vi è disposta ogni piccolo accidente la muove. Duoi adunque, di non molta condizione, ragionando, propinqui a Porta Nuova, della calamità della città e miseria loro, e che modi vi fussero per la salute, si cominciò ad accostare loro delli altri, tanto che diventorono buono numero: donde che si sparse per Milano voce, quelli di Porta Nuova essere contro a’ magistrati in arme. Per la qual cosa tutta la moltitudine, la quale non aspettava altro che essere mossa, fu in arme; e feciono capo di loro Gasparre da Vicomercato, e ne andorono al luogo dove i magistrati erano ragunati. Nei quali feciono tale impeto che tutti quelli che non si poterono fuggire uccisono; intra’ quali Lionardo Venero, ambasciadore viniziano, come cagione della loro fame, e della loro miseria allegro, ammazzorono. E così, quasi che principi della città diventati, infra loro preposono quello si avesse a fare, a volere uscire di tanti affanni e qualche volta riposarsi. E ciascuno giudicava che convenisse rifuggire, poi che la libertà non si poteva conservare, sotto uno principe che gli difendessi: e chi il re Alfonso, chi il duca di Savoia, chi il re di Francia voleva per suo signore chiamare. Del Conte non era alcuno che ragionasse: tanto erano ancora potenti gli sdegni avevano seco. Non di meno, non si accordando degli altri, Gasparre da Vicomercato fu il primo che nominò il Conte; e largamente mostrò come, volendosi levare la guerra da dosso, non ci era altro modo che chiamare quello; perché il popolo di Milano aveva bisogno di una certa e presente pace, non d’una speranza lunga d’uno futuro soccorso. Scusò con le parole le imprese del Conte; accusò i Viniziani; accusò tutti gli altri principi di Italia, che non aveno voluto, chi per ambizione, chi per avarizia, che vivessino liberi. E da poi che la loro libertà si aveva a dare, si desse ad uno che li sapesse e potesse difendere; acciò che almeno dalla servitù nascesse la pace, e non maggiori danni e più pericolosa guerra. Fu costui con maravigliosa attenzione ascoltato; e tutti, finito il suo parlare, gridorono che il Conte si chiamasse, e Gasparre feciono ambasciadore a chiamarlo. Il quale, per comandamento del popolo, andò a trovare il Conte, e gli portò sì lieta e felice novella. La quale il Conte accettò lietamente, ed entrato in Milano come principe, a’ 26 di febbraio, nel 1450, fu con somma e maravigliosa letizia ricevuto da coloro che non molto tempo innanzi lo avieno con tanto odio infamato.