Dirizzatosi dunque Niccolò, con le schiere in battaglia, verso Anghiari, era già loro propinquo a meno di dua miglia, quando da Micheletto Attendulo fu veduto un grande polverio; e accortosi come gli erano i nimici, gridò all’arme. Il tumulto nel campo de’ Fiorentini fu grande, perché, campeggiando quelli eserciti per lo ordinario sanza alcuna disciplina, vi si era aggiunta la negligenzia, per parere loro avere il nimico discosto e più disposto alla fuga che alla zuffa; in modo che ciascuno era disarmato, di lungi dagli alloggiamenti, e in quel luogo dove la volontà, o per fuggire il caldo che era grande, o per seguire alcuno suo diletto, lo aveva tirato. Pure fu tanta la diligenza de’ commissari e del capitano, che, avanti fussero arrivati i nimici, erano a cavallo e ordinati a potere resistere allo impeto suo. E come Micheletto fu il primo a scoprire il nimico, così fu il primo armato ad incontrarlo; e corse con le sue genti sopra il ponte del fiume che attraversa la strada non molto lontano da Anghiari. E perché, davanti alla venuta del nimico, Pietrogiampaulo aveva fatto spianare le fosse che circundavano la strada che è tra il ponte e Anghiari, sendosi posto Micheletto allo incontro del ponte, Simoncino, condottiere della Chiesa, con il Legato, si mossono da man destra, e da sinistra i commissari fiorentini con Pietrogiampaulo loro capitano, e le fanterie disposono da ogni parte su per la ripa del fiume. Non restava per tanto agli nimici altra via aperta ad andare a trovare gli avversarii loro, che la diritta del ponte; né i Fiorentini avevono altrove che al ponte a combattere, eccetto che alle fanterie loro avevono ordinato che, se le fanterie nimiche uscivano di strada per essere a’ fianchi delle loro genti d’armi, con le balestra le combattessero, acciò che quelle non potessero ferire per fianco i loro cavalli che passassero il ponte. Furono per tanto le prime genti che comparsono da Micheletto gagliardamente sostenute, e non che altro, da quello ributtate; ma sopravenendo Astor e Francesco Piccinino con gente eletta, con tale impeto in Micheletto percossono, che gli tolsono il ponte e lo pinsono infino al cominciare dell’erta che sale al borgo di Anghiari; di poi furono ributtati e ripinti fuori del ponte da quelli che dai fianchi gli assalirono. Durò questa zuffa due ore, che ora Niccolò, ora le genti fiorentine erano signori del ponte. E benché la zuffa sopra il ponte fusse pari, non di meno e di là e di qua dal ponte con disavvantaggio grande di Niccolò si combatteva. Perché, quando le genti di Niccolò passavano il ponte, trovavano i nimici grossi, che, per le spianate fatte, si potevono maneggiare, e quelli che erano stracchi potevono dai freschi essere soccorsi; ma quando le genti fiorentine lo passavano, non poteva commodamente Niccolò rinfrescare i suoi, per essere angustiato dalle fosse e dagli argini che fasciavano la strada: come intervenne, perché molte volte le genti di Niccolò vinsono il ponte, e sempre dalle genti fresche degli avversarii furono ripinte indietro, ma come il ponte dai Fiorentini fu vinto, talmente che le loro genti entrorono nella strada, non sendo a tempo Niccolò, per la furia di chi veniva e per la incommodità del sito a rinfrescare i suoi, in modo quelli davanti con quelli di dietro si mistorono, che l’uno disordinò l’altro, e tutto lo esercito fu constretto mettersi in volta e ciascuno, sanza alcuno rispetto, si rifuggì verso il Borgo. I soldati fiorentini attesono alla preda; la quale fu, di prigioni, di arnesi e di cavagli, grandissima, perché con Niccolò non rifuggirono salvi mille cavalli. I Borghigiani, i quali avevono seguitato Niccolò per predare, di predatori divennono preda, e furono presi tutti e taglieggiati; le insegne e i carriaggi furono tolti. E fu la vittoria molto più utile per la Toscana, che dannosa per il Duca; perché, se i Fiorentini perdevono la giornata, la Toscana era sua; e perdendo quello, non perdé altro che le armi e i cavagli del suo esercito; i quali con non molti danari si poterono recuperare. Né furono mai tempi che la guerra che si faceva ne’ paesi d’altri fusse meno pericolosa per chi la faceva, che in quelli. E in tanta rotta e in sì lunga zuffa, che durò dalle venti alle ventiquattro ore, non vi morì altri che uno uomo; il quale, non di ferite o d’altro virtuoso colpo, ma caduto da cavallo e calpesto espirò: con tanta securtà allora gli uomini combattevano, perché, sendo tutti a cavallo, e coperti d’arme, e securi dalla morte qualunque volta e’ si arrendevano, non ci era cagione perché dovessero morire, defendendogli nel combattere le armi, e quando e’ non potevono più combattere, lo arrendersi.