Istorie fiorentine/Libro quinto/Capitolo 24

Libro quinto

Capitolo 24

../Capitolo 23 ../Capitolo 25 IncludiIntestazione 31 agosto 2009 75% Storia

Libro quinto - Capitolo 23 Libro quinto - Capitolo 25

Questa vittoria adunque, se la fusse stata usata con quella felicità che la si era guadagnata, arebbe a Brescia partorito maggiore soccorso, e a’ Viniziani maggiore felicità; ma lo averla male usata fece che l’allegrezza presto mancò, e Brescia rimase nelle medesime difficultà. Perché, tornato Niccolò alle sue genti, pensò come gli conveniva con qualche nuova vittoria cancellare quella perdita e torre la commodità a’ Viniziani di soccorrere Brescia. Sapeva costui il sito della cittadella di Verona, e dai prigioni presi in quella guerra aveva inteso come la era male guardata, e la facilità e il modo di acquistarla. Per tanto gli parve che la fortuna gli avesse messo innanzi materia a riavere l’onore suo e a fare che la letizia aveva avuto il nimico per la fresca vittoria ritornassi, per una più fresca perdita, in dolore. È la città di Verona posta in Lombardia, a piè de’ monti che dividono la Italia dalla Magna, in modo tale che la participa di quelli e del piano. Esce il fiume dello Adice della valle di Trento, e nello entrare in Italia non si distende subito per la campagna, ma, voltosi in su la sinistra, lungo i monti, trova quella città, e passa per il mezzo di essa, non per ciò in modo che le parti sieno uguali, perché molto più ne lascia verso la pianura che di verso i monti. Sopra i quali sono due rocche, San Piero l’una, l’altra San Felice nominate; le quali più forti per il sito che per la muraglia appariscono, ed essendo in luogo alto, tutta la città signoreggiono. Nel piano di qua dallo Adice, e adosso alle mura della terra sono due altre fortezze, discosto l’una dall’altra mille passi, delle quali l’una la vecchia, l’altra la cittadella nuova si nominano; dall’una delle quali, dalla parte di dentro, si parte uno muro che va a trovare l’altra, e fa quasi come una corda allo arco che fanno le mura ordinarie della città, che vanno da l’una all’altra cittadella. Tutto questo spazio posto infra l’uno muro e l’altro è pieno di abitatori, e chiamasi il borgo di San Zeno. Queste cittadelle e questo borgo disegnò Niccolò Piccino di occupare pensando che gli riuscisse facilmente, sì per le negligenti guardie che di continuo vi si facevano, sì per credere che per la nuova vittoria la negligenzia fusse maggiore, e per sapere come nella guerra niuna impresa è tanto riuscibile quanto quella che il nimico non crede che tu possa fare. Fatto adunque una scelta di sua gente, ne andò insieme con il marchese di Mantova, di notte, a Verona, e senza essere sentito, scalò e prese la cittadella nuova. Di quindi, scese le sue genti nella terra, la porta di Santo Antonio ruppono, per la quale tutta la cavalleria intromessono. Quelli che per i Viniziani guardavano la cittadella vecchia, avendo prima sentito il romore quando le guardie della nuova furono morte, di poi quando e’ rompevono la porta, cognoscendo come gli erano i nimici, a gridare e a sonare a popolo e all’arme cominciorono. Donde che, risentiti i cittadini, tutti confusi, quelli che ebbono più animo presono l’armi e alla piazza de’ rettori corsono. Le genti intanto di Niccolò avevano il borgo di San Zeno saccheggiato, e procedendo più avanti, i cittadini, cognosciuto come dentro erano le genti duchesche, e non veggendo modo a difendersi, confortorono i rettori viniziani a volersi rifuggire nelle fortezze, e salvare le persone loro e la terra; mostrando che gli era meglio conservare loro vivi e quella città ricca ad una migliore fortuna, che volere, per evitare la presente, morire loro e impoverire quella. E così i rettori e qualunque vi era del nome viniziano, nella rocca di San Felice rifuggirono. Dopo questo, alcuni de’ primi cittadini a Niccolò e al marchese di Mantova si feciono incontro, pregandogli che volessero più tosto quella città ricca con loro onore, che povera con loro vituperio, possedere; massimamente non avendo essi apresso a’ primi padroni meritato grado né odio apresso a loro per difendersi. Furno costoro da Niccolò e dal Marchese confortati; e quanto in quella militare licenza poterono, da il sacco la difesono. E perché eglino erano come certi che il Conte verrebbe alla recuperazione di essa, con ogni industria di avere nelle mani i luoghi forti s’ingegnorono; e quelli che non potevono avere, con fossi, sbarrate, dalla terra separavano, acciò che al nimico fusse difficile il passare dentro.